CAPITOLO 3

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JULIETTE

Era la prima mattina che mi alzavo ad un orario decente e la cosa più strana era che non mi sentivo minimamente stanca, anzi ero carica, mi sentivo più attiva che mai. Stavo per andare al mio primo colloquio di lavoro e non ero per niente pronta, non avevo idea di come sarebbe andato e come si sarebbe svolto. Ma non avevo ansia, in fondo il Signor Reed aveva capito che soggetto ero, avevo la certezza che non riponesse in me chissà che grandi aspettative. Non avevo un curriculum, non avevo mai iniziato un percorso di studi e neppure una carriera lavorativa, ma queste cose doveva averle già capite. Quindi non avevo di che preoccuparmi.

Mi infilai uno dei miei soliti jeans larghi, le converse e una felpa rossa, mi vestivo sempre così, ovviamente i vestiti cambiavano ma l'abbinamento jeans, converse e felpa per me era immancabile. Senza non mi sentivo a mio agio, non mi sentivo me stessa.

Nei tasconi dei jeans e della felpa ci infilai tutto ciò di cui avevo bisogno quotidianamente, sigarette, cuffie, telefono e portafoglio. Il resto per me era superfluo. Non possedevo neppure una borsa, non la volevo, il mio zaino consumato bastava e avanzava quando dovevo portare in giro più cose di quelle che portavo in tasca quotidianamente.

Scesi di sotto percorrendo i gradini delle scale alla svelta, erano le otto e mezza, il Signor Reed non mi aveva dato nè un orario e nè tantomeno un giorno preciso in cui presentarmi, ma trovavo più consono il presentarmi al mattino quando la mole di lavoro credevo fosse minore.

Raggiunsi la sala da pranzo dove mio padre e mia madre facevano colazione in religioso silenzio, interrotto dalle loro amabili chiacchiere mattutine in cui si raccontavano la giornata che li attendeva.

Quando entrai in cucina rimasero sorpresi, neppure loro avevano riposto in me alcuna aspettativa, avevano creduto che le mie parole del giorno prima fossero state tutte parole buttate al vento. Sapevo che fosse così, non serviva che me lo dicessero.
Non appena mi ero presentata a lavoro dicendo del lavoro, avevano iniziato tutti a farmi domande e a ridacchiare quando rispondevo che in realtà non sapevo di cosa si trattasse. Nessuno mi aveva presa sul serio, ma a me non importava.

<<Che c'è? Che avete da guardare?>> Domandai irritata afferrando una ciambella dal piatto al centro del tavolo. Mi guardavano sorpresi, papà era già pronto, mentre mia madre indossava ancora la vestaglia per coprire la camicia da notte in pizzo al di sotto.

<<N-niente, è solo una sorpresa vederti già sveglia a quest'ora della mattina.>> Rispose mio padre sorseggiando il suo solito caffè amaro. Era come pensavo io, avevano creduto che i miei progetti sarebbero sfumati ancor prima di esistere, erano proprio incoraggianti.

<<Si vede che ieri non mi avete nemmeno ascoltata.>> Mormorai prendendo un sorso di succo.

<<Juliette, è ovvio che ti abbiamo ascoltata ma ci aspettavamo che andassi più tardi.>> Si spiegò meglio.

<<Non dirmi che sei ancora offesa per quel commento infelice di tuo fratello.>> Io e Aidan non c'eravamo ancora chiariti, la sera prima aveva cercato di parlarmi ma io mi ero chiusa in camera mia. Tutti lo difendevano dicendo che da arrabbiati tutti diciamo cose che non pensiamo davvero, ma le parole che mi aveva detto ancora mi pesavano e il fatto che loro continuassero a difenderlo mi innervosiva.

<<E a voi che importa?>> Presi un altro generoso morto di ciambella, volevo finire in fretta per poter interrompere quella conversazione il prima possibile.

<<Julie smettila di parlare come se credessi che a noi di te non importa, vogliamo bene a te tanto quanto ne vogliamo a tuo fratello.>> Isabelle tentò di prendermi la mano ma la ritrassi. Non ero un'amante del contatto fisico, anzi per niente. Le dimostrazioni d'affetto non erano pane per i miei denti, mi facevano sentire fuoriluogo. <<Ma così è sembrato ieri.>> Gli ricordai orgogliosa.

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