CAPITOLO 13

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JULIETTE


Non mi aveva detto nulla in quel momento, non si era espresso, mi aveva lasciata lì, in quel dannato ascensore senza dirmi neppure una virgola di ciò che pensasse riguardo a ciò che era successo. A suo modo però mi aveva risposto durante tutto il corso della giornata, accanendosi contro di me come un animale, senza darmi pace un secondo. Ciò che faceva sempre, ma quel giorno era ancora più cattivo, più pazzo, più deciso a volermi distruggere.

Il programma di quella giornata era diverso dai tre giorni prima, alcuni dei miei compagni erano andati in missione, eravamo di meno e così Reed ebbe modo di torturarmi con più attenzione.

A gli altri aveva fatto fare meno vasche di quelle che avevo dovuto fare io, meno giri di campo, gli aveva concesso più secondi di riposo durante il circuito. Mi stava trattando come sè fossi stata un sassolino da prendere a calci, sul marciapiede di una strada dissestata.

Ma io non mollavo, non mi tiravo indietro, non lo avevo mai fatto e di certo non lo avrei fatto in quel frangente. Ma il mio corpo prima o poi avrebbe ceduto, sotto alle torture che mi stava propinando.

Non si sfogava a parole, non gridava buttando fuori tutto ciò che provava, mi portava al limite con ancor più di quanto non facesse di solito, deciso a vedermi patire le pene del suo inferno, l'inferno che governava a meraviglia.

Presi un sorso dalla bottiglia d'acqua sentendo il fiato mancare, mi faceva male tutto, non avevo un attimo per riposare ma mi stava bene comunque, anch'io volevo conoscere i miei limiti proprio come voleva lui.

I suoi tentativi però erano tutti fatti per distruggermi, io invece volevo conoscere i miei limiti per scoprire come fare ad abbatterli.

Mi aveva sottoposta alla panca piana facendomi sollevare venticinque chili, al vogatore, alla barra per trazioni, ai bilancieri e in quel momento eravamo passati alla leg press, con un carico sempre pari ai venticinque chili.
Dopo otto ripetizioni della seconda serie avevo le gambe che bruciavano come fuoco puro, tremavano ad ogni movimento e il sudore mi scorreva sulla fronte come l'acqua di un fiume in piena, ad ogni sforzo che facevo. <<Spingi cazzo, spingi!>> La sua voce che mi riempiva le orecchie come un ronzio fastidioso, era peggio del suono continuo di una campana. Mi rimaneva accanto, gridandomi cose che perlopiù facevo finta di non sentire. <<Lo sto facendo!>> Ringhiai a denti stretti, usando ogni briciolo della mia forza per riuscire a concludere la nona, stringendo le manopole ai lati del mio corpo con rabbia.

<<Non abbastanza, te ne manca una, non dirmi che vuoi mollare ora.>> Me lo ripeteva da ore ogni volta che ero lì lì dal cedere, cosa che mai avrei permesso che accadesse, ed io spingevo con ancora più rabbia proprio come feci in quell'istante, riuscendo a concludere la seconda serie.

Ritirai le gambe e poggiai la nuca contro il poggiatesta, crollando sfinita.

<<Oggi stai seriamente facendo schifo, vai a pranzare con gli altri.>> Lo guardai stralunata non riuscendo a credere ciò che avevo appena sentito, ero riuscita a star dietro a tutti i suoi ordini senza lamentarmi mezza volta, eppure a quanto diceva non avevo fatto nulla di degno di un suo buon giudizio.

<<Stronzo.>> Bisbigliai alzandomi dall'attrezzo, afferrando la mia borraccia da terra.

<<Hai detto qualcosa?>> Si voltò a guardarmi, con una freddezza glaciale e, per quanto ne avessi voglia, mi trattenni dal rispondergli in malo modo solo perchè avevo una fame assurda, dopo tutto ciò che mi aveva costretta a fare.

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