CAPITOLO 50

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JULIETTE


No, quella notte non avevo dormito affatto, ma proprio per niente.

Non ero riuscita a chiudere occhio ed ero andata nella cameretta di mio figlio almeno tre volte, per guardarlo, accarezzarlo e rendermi conto che senza di lui mi sarei sentita vuota, persino con il lavoro dei miei sogni e tutto il resto. Quattro anni prima avevo preso la scelta migliore della mia vita, decidere di tenerlo e più tempo avevo passato a guardarlo, più mi ero resa conto che era lui la mia forza, la forza che mi sarebbe servita ad affrontare tutto ciò che stava accadendo così all'improvviso.

Al tempo stesso però, più tempo avevo passato a coccolarlo mentre lui dormiva, più milioni di pensieri che avevo accantonato per anni, erano tornati ad assillarmi.

Wayne era tornato e sapeva che avevo un figlio ma non sapeva che era suo, il che mi portò a domandarmi se ci avesse perlomeno pensato, se per un secondo lo avesse creduto, ma da ciò che mi aveva detto la mattina prima, ipotizzai che pensasse che io avessi un altro uomo quando in realtà, il mio unico uomo era un bimbo di tre anni.

Glielo avrei dovuto dire? Erano quelle quattro parole a starmi opprimendo dal giorno prima, o forse da anche più tempo, ma mentre da dopo il mio unico tentativo di dirglielo ci avevo messo una pietra sopra, dopo il suo ritorno non riuscivo a capire cosa fosse giusto fare. In fin dei conti era colpa sua, lui non mi aveva richiamata, lui era sparito senza più farsi sentire quindi di colpe non ne avevo. O perlomeno mi risultava più facile vivere credendolo.

Alla fine però avevo deciso che la risposta a quel quesito era molto semplice: no, non glielo avrei detto.

Era meglio così, mio figlio aveva il suo equilibrio e io il mio, stravolgerli entrambi per colpa sua non era neanche ipotizzabile, non lo avrei permesso.

<<Mamma ci sei?>> La voce di Christian mi tirò fuori dai miei pensieri che quella mattina si erano fatti più insistenti, riportandomi alla realtà, dove ero intenta ad infilargli una maglia che mi resi conto di stargli mettendo al contrario. Aveva l'etichetta sul petto.

<<Scusa amore, la mamma è solo un po' distratta stamattina.>> Mio figlio era persino più empatico di me e riusciva a rendersi conto che ero assente, all'età di soli tre anni. Un piccolo psicologo.

<<Stai bene?>> Il suo visino angelico divenne corrucciato dalla preoccupazione e lo vidi quasi sul punto di piangere, quel bimbo si preoccupava più per me che per se stesso, già a quell'età.

<<Ma certo tesoro mio, sto benissimo, sono solo un po' stanca.>> Risposi prontamente prima che potesse pensare che fossi vicina alla morte e cose simili, quel bambino aveva un'immaginazione fervida, mentre nel frattempo gli sfilavo di nuovo la maglia per mettergliela nel verso giusto.

<<Allola vai a fale la nanna.>> A quella risposta non riuscii a non sorridere, aveva sempre qualcosa con cui ribattere e una soluzione ad ogni problema.

<<Magari piccolo, ma devo andare a lavorare.>> Una volta infilata la maglia, si appoggiò alle mie spalle per aiutarmi ad infilargli i pantaloni, mettendosi in equilibrio su una gambetta ogni volta che serviva.

<<E io posso venile?>> Era capitato a volte che lo portassi, nei giorni in cui ero particolarmente certa che non mi sarei dovuta muovere dal mio ufficio, e a ripensarci era da un po' che non lo riportavo ma non mi sembrava per niente il caso in quei giorni.

<<Oggi no Chris, la mamma ha molto da fare.>> Avevo un'intera missione da organizzare, la squadra da allenare e altre decine di cose da fare e da pensare, dovermi preoccupare anche di lui non mi avrebbe permesso di lavorare concentrata.

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