La porta della camera ospedaliera di Linda viene chiusa alle spalle di Sketch, che mi si avvicina e dopo aver appoggiato la mano sulla mia spalla mi dice: «perché non sei voluto entrare con me?»
La mia testa rimane china mentre penso a come rispondere. Cosa avrei potuto dirgli? Forse che i ricordi che avevo su noi due, sulla nostra infanzia e sulla nostra amicizia decennale, fossero soltanto un parto della mia mente, e che non sarei riuscito a sopportare quelle incongruenze con la vista di Linda in coma. La colpa di tutto quello che le è successo. «Non sono neanche sicuro se dovrei entrare a vederla, forse... forse è meglio che me ne vada.»
Aspettare nel corridoio mi fa ricordare la scena di attesa di Crais avvenuta nelle riprese. Quanti strati di realtà e quanti di finzione si sono accavallati in questi mesi? Non riesco a capire se sia stata la mia vita a influenzare le riprese, o se quelle siano stato un monito per tutto quello che mi sarebbe successo.
«Sei venuto apposta per incontrarla, anche per vedere quello che è successo con l'incidente.» La stretta al cuoco si fa più forte. «Non scappare.»
Eppure vorrei proprio farlo, da tutto e da tutti, anche da me stesso. Forse tutto quello che avevo fatto fino a questo momento non era stato altro che quello: fuggire.
Cerco di ricompormi e dopo aver salutato quello che per me, come Rifit, è stato soltanto un buon conoscente, entro nella stanza dove riposa Linda.
La ragazza è attaccata a un respiratore e una moltitudine di tubicini partano dal braccio per collegarsi a flebo e altri macchinari di cui ignoro la funzione. Tutto questo per un gesto, per una mia singola azione sconsiderata.
Prendo uno sgabello e mi siedo accanto al letto. I medici ci hanno detto che parlarle può aiutarla a riprendere conoscenza, che può sentirci. Appoggio la mia mano sopra la sua, facendo attenzione a evitare una specie di clip attaccata al dito medio.
«Mi dispiace.»
Se soltanto avessi dato retta a te e al tuo ragazzo, a quello che volevate dirmi.
«Mi dispiace.»
Se soltanto mi fossi fermato per un secondo a riflettere.
Dall'incidente tutto quello che avevo visto fino a quel momento, il mio essere Hart, prende dei contorni indefiniti e quello che si delinea al suo posto è un passato che volevo dimenticare.
La mia casa paterna si trovava alla fine di un lunghissima discesa rispetto al resto del paese in cui vivevamo. Alla fine di quella strada c'era la nostra casa, lì dove la campagna si apriva nel suo verde sconfinato. Ero sempre stato un tipo esuberante ed energetico, quasi iperattivo. Correvo e ruzzolavo nei prati tutto il giorno, per l'immensa gioia di mia mamma.
Il mio vecchio lavorava in giro per il mondo, ritornando a casa sporadicamente. Nonostante questo lo ricordo come un buon padre, affettuoso, o almeno lo era stato fino a quando non si rese conto che ero diverso da quello che si aspettava.
I ragazzi, i maschi, passano tantissimo tempo insieme da piccoli, azzuffandosi, giocando e rotolandosi insieme. Credo di essermene reso conto alla fine di una partita di calcetto, negli spogliatoi. Quello che avevo provato in quell'occasione mi aveva fatto sentire inadeguato, sbagliato.
Poco tempo dopo, una sera mia mamma non mi aveva avvisato del rientro del mio vecchio da uno dei suoi viaggi, per farmi una sorpresa. Non sapendolo mi ero ritrovato in camera. Avevo preso l'abitudine, da un po' di tempo, di rubare un paio di cose di mia mamma, come le scarpe coi tacchi o vestitini, e provarli.
Quando i miei mi scoprirono, la mamma fece di tutto per spiegare che fosse soltanto un gioco innocuo, eppure lo sapevo, l'avevo scorto nello sguardo del vecchio: aveva unito tutte le stranezze capendo tutto quanto.
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Redshift - ZAIRISHA
Science Fiction"L'immagine sussultava cercando nella stanza e scorrendo sul viso di vari individui fermandosi su di uno in particolare: Sion. Un volto crudo all'interno di morbidi lineamenti. Gli occhi sottili erano piccole gemme, comete incandescenti precipitate...