Capitolo 33

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Christopher's POV

Delusione.
Questo ho visto nei suoi occhi.

Le parole, dalla mia bocca sono venute fuori senza che io me ne rendessi conto.

Ho lasciato alla mia impulsività ancora una volta di avere la meglio.
Ho lasciato che le mie labbra fossero ancora una volta peccatrici.
In modo diverso dalle altre, ma lo ho fatto.
E questo non va bene.
Non va fottutamente bene.
Perché lo so.
Non le chiederò scusa.

L'orgoglio e qualcos'altro non me lo permetteranno mai.
Ed è brutto perché io so di aver sbagliato, ma non ci riesco.
Non riesco a chiederle scusa.
Scusa, cinque lettere che non riesco a pronunciare, nemmeno ora, mentre la vedo correre via.
Lontana da me.
Me ne sto fermo a lottare con la parte più forte di me senza nuovere un dito.
Semplicemente non faccio un cazzo.
O meglio la guardo.

Vedo i suoi capelli ramati, che come onde mosse dal vento sferzano l'aria. Vedo le sue braccia delicate, avvolgere il suo busto così esile, così fragile.
Vedo la sua schiena sussultare ed io lo so, l'ho capito che ora, mentre mi dai le spalle tu stai piangendo.
Stai lasciando che delle lacrime calde solchino il tuo viso candido, tracciando così sulla tua pelle tutto il male che le mie parole ti hanno fatto.
E ancora una volta, anche se lo so, io rimango qui, con le mani in tasca senza fare niente per farti smettere di piangere, perché io sono fatto così. Sono fatto male lo so.
Ma non posso cambiare.
Per nessuno.
Nemmeno per te.

"Merda" mormoro avvertendo una strana sensazione alle tempie.

So che io ho un limite; una specie di porta oltre la quale non posso andare, perché è lì che si trovano tutto il buio della mia vita. Oltre quella porta ci sono la rabbia, l'odio, la follia, la merda che non riesco ad accettare, ma soprattutto ci sono loro, che giocano ad un tavolino con in mano le carte delle mie decisioni, mi manipolano, mi usano senza ritegno.

Ecco perché non posso varcare od aprire quella porta, il mio limite, perché sennò gli darei il via libero. Gli darei la possibilità di controllarmi più di quanto non lo facciano già. Perché loro ci sono sempre, se non sono nella mia mente, sono lì, sulla mia schiena, che ad ogni occasione buona, si fanno sentire.

Sento il loro fiato sul collo.
I loro artigli arpionarmi le spalle.
La loro voce sussurrarmi piano nelle orecchie, cose che non vorrei sentire.
Ci convivo ormai da anni.
Non mi lasciano mai.
Sono così presenti da far schifo.
I miei demoni.
Ecco di cosa parlo.
Dei miei fottuti demoni, perché sì, io non ho un angelo, io ho solo i miei demoni.
I demoni custodi.
Ecco cosa ho.
Dei cazzo di demoni custodi pronti a rovinarmi la vita più di quanto questa non sia già una merda.

Con la mano che trema dal nervosismo prendo il pacchetto di sigarette per poi sfilarne una.

So che sto per perdere il controllo.
Lo sento.
Esploderó.
Ancora una volta.
Ed io non voglio.

Cerco nella tasca dei pantaloni l'accendino nero dove spicca il disegno della fenice e sorrido di fronte a quell'immagine.

La fenice, l'uccello di fuoco che rinasce dalle sue ceneri dopo la morte.

Un tempo ci speravo.
Credevo di riuscire a risorgere dalle mie ceneri un giorno; mi sarei spogliato di tutti i mie problemi, sarei morto. Spiritualmente.
E solo allora io, sarei risorto, sarei rinato più forte.
Ma non è così, tutt'altro.
Le ceneri oramai, mi stanno inghiottendo; mi stanno ricoprendo del tutto non lasciandomi scampo.

Mi rigiro l'accendino tra le mani con ancora il sorriso amaro sulle labbra.
Cazzate.
Tutte queste sono cazzate.

Accendo la sigaretta aspirando con rabbia il fumo, che sento arrivare fino ai polmoni, probabilmente neri come la mia anima.

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