Capitolo 48

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Si dice che non tutti reagiscano al dolore allo stesso modo. C'è chi di fronte ad esso si lascia andare passivamente, c'è chi cerca di reagire, di riprendere in mano la situazione. C'è poi chi di fronte ad esso si dispera. Piange, urla, si dimena. Lascia che ciò che lentamente lo sta consumando dentro, fuoriesca. Cerca di liberarsene inutilmente perché quello resta lì, incastrato tra il petto e il cuore. Ti annienta. Ti rende debole. Ti fa star male.

Nessuno può fuggure da esso. Lo percepisci alle spalle e tu, invano, cerchi di scappare. Corri, sforzando il più possibile i muscoli delle gambe affinché queste vadino più veloci. Ci provi ma è tutto inutile perché alla fine, questo, come un treno ti colpisce in pieno lasciandoti poi a terra stordito e dolorante. E davanti a questo dolore, c'è chi riesce a mostrarsi forte. C'è chi riesce a reagire e chi invece si lascia sopraffare. Lascia che il dolore gli tolga il respiro e lo laceri dentro ed ora, mentre osservo Dan, seduto al mio fianco tremare come una foglia e singhiozzare come un bambino capisco che lui questo sta facendo. Sta lasciando che il dolore lo divori.

"Dan" lo chiamo, con voce tremante, cercando di riportarlo alla realtà. "Ti prego non fare così" mormoro sentendo le lacrime, che prepotenti mi offuscano la vista.

Quando i paramedici hanno trasportato d'urgenza Chanel al New York Hospital, ci siamo precipitati qui.

Subito Madison, dopo avermi stretta in un abbraccio, mi ha trascinata in macchina e siamo immediatamente partite, bruciando tutti i limiti di velocità pur di arrivare in tempo all'ospedale.

Volevo arrivare prima di Dan, il quale sotto choc, è stato fatto salire sull'ambulanza per stare vicino alla sorella. Ma quando dopo aver chiesto informazioni all'infermiere di turno, sono arrivata, insieme a Madison, nell'aula est mi sono paralizzata sul posto. Dan era rannicchiato a terra e tremava così tanto che persino l'infermiera che passava di lì, si è preoccupata per lui. Gli ha toccato la fronte, pensando si trattasse magari di brividi causati dalla frebbe, ma quando con passi instabili mi sono avvicinata a lei e le ho spiegato cosa fosse appena successo lei ha capito. Dan era sotto choc, non rispondeva a nessuno stimolo, a nessuna domanda. Continuava a tenere lo sguardo perso nel vuoto, mentre i denti battevano a causa degli spasmi. Stava annegando nel suo dolore e nessuno di noi poteva fare qualcosa per lui.
Così dopo avergli somministrato un calmante, l'infermiera mi ha intimato di non lasciarlo solo perché in situazioni del genere la nostra mente è instabile. Mi ha detto di tenerlo d'occhio e di provare a distrarlo, ma purtroppo, da quando un'oretta fa mi sono seduta al suo fianco, niente sembra essere cambiato.

Continuo ad accarezzargli i capelli, mentre lascio che il braccio sinistro lo avvolga in un abbraccio.

Voglio fargli capire che non è solo. Io non lo lascio perché noi siamo amici e questo fanno; si stanno accanto nel momento del bisogno ed è evidente che lui ora abbia maledettamente bisogno di qualcuno che gli tenga la mano e che gli faccia capire che non è solo e che in qualche modo le cose andranno meglio.

"Clare" alzo lo sguardo quando le decolte di Madison compaiono davanti al mio sguardo basso.
"Io vado a fare una chiamata... Torno subito" dice, rattristatandosi quando punta gli occhi su Dan.

"Come sta?" seguita poi, riportando l'attenzione su di me.

"Non bene" mi limito a dire, rafforzando la presa sul ragazzo facendola annuire, prima di voltarsi e avviarsi verso l'ascensore del piano.

"Mad" la richiamo al che lei si ferma sul posto, voltandosi di tre quarti.

"Vai a chiamare Christopher vero?" chiedo, e dal cambio di espressione che vedo nella sua faccia capisco che qualcosa non va.

"Che succede?" espongo il mio dubbio, con l'ansia ad attanagliarmi lo stomaco.

"Hunter poco fa mi ha inviato un messaggio dicendomi che non riesce a trovalo. La sua macchina nel parcheggio del blu moon non c'è. Ha bevuto, in questo momento è emotivamente instabile. Ho paura gli possa succedere qualcosa" afferma, prima di voltarsi e riprendere a camminare lasciandomi lì, con un inquietudine addosso che mi fa diventare gli occhi lucidi.

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