19. Ho perso?

126 28 18
                                    

All'alba mi obbligai ad alzarmi dal letto.
Jane, come tutte le persone sane di mente, dormiva ancora poco distante da me.
Mi alzai quindi piano, attenta a non svegliarla, per prepararmi un caffè.

Girai lo zucchero dentro alla tazzina e ne bevvi il contenuto senza bruciarmi la lingua.

Sfiorai i miei capelli - che più che capelli era un nido scompigliato - e sospirai.
La immersi nell'acquaio e la lavai subito per non avere qualcosa in sospeso.

Mi sfilai il pigiama e indossai dei vestiti lavati due giorni prima dalla sottoscritta e controllai il telefono: ancora nessuna chiamata.

Mi divorai le unghie, poi scossi il capo.

Raggiunsi la cameretta di Fredrick per darle una sistemata.
Ogni suo gioco era rimasto come lo aveva lasciato, ovvero in disordine.
Le fodere dei cuscini erano state tolte, le coperte con i Simpson e qualche suo scarabocchio di quando aveva otto anni con l'indelebile e i poster di supereroi della Marvel.

«Buongiorno Fred», sussurrai, fingendo fosse lì.

Stavo uscendo di senno, chiaramente.

Sfiorai il cassetto dove tenevamo gli album di ricordi di famiglia, c'erano foto solo mie e sue.

Sorrisi al ricordo di un piccolo mascalzone che piangeva e piangeva per del latte, o che si lamentava per ricevere attenzione.

La mia preferita era quella che ritraeva una bambina vestita di rosa sui setta anni con in braccio che più che un neonato sembrava un bambolotto.
Gli stavo dando il latte, appunto, dal biberon.
Sorridevo allo scatto di quella macchina fotografica che mi ha accecato per anni, mentre il più piccolo di appena qualche settimana era taciturno tra le mie braccia.

Accarezzai la fotografia, per poi richiudere il cassetto.

Notai i segni che simboleggiavano la crescita di altezza di mio fratello.
Chissà se a breve mi avrebbe raggiunto.
Non avevo un altezza smisurata, anzi, ero piuttosto bassa di statura.
Non ci avrebbe impiegato tanto.

La casa strillava di nostri episodi che custodiva in segreto.
Come quella volta che quasi mangiò la nostra tartaruga di terra perché l'aveva scambiata per una di quelle caramelle gommose a forma di animali.
Come quella volta che mi fece dannare perché aveva perso il suo Teddy Bear per eccellenza.
Come quella volta che finse di essere una spia in incognito perché aveva guardato un film la sera prima nonostante glielo avessi proibito e mi infuriai così tanto che non gli parlai per due giorni.
Come quando mi storpiava le canzoni straniere e mi faceva ridere quel suo "non so cosa sto dicendo ma mi piace la musichetta".
O come quando si infilava sempre in mezzo e mai di lato nel letto perché voleva essere protetto da un probabile mostro che sarebbe spuntato da un momento all'altro.
O ancora quando si imbrattava i capelli di gel appiccicoso e io passavo le ore a sistemarglieli.

Una lacrima solitaria solcò i miei occhi e non la lasciai fuggire via.
Ogni tanto mi serviva, altrimenti sarei scoppiata davanti a qualcuno e non potevo permetterlo.

La cancellai solo dopo aver sentito dei rumori.

«Ma buongiorno stellina», le sorrisi.

«Ancora niente?», sbadigliò, sedendosi.

«Ancora niente».

In effetti non c'era nemmeno un messaggio da Kevin, strano.

Sentii bussare ripetutamente alla porta.

Mi affacciai dal terrazzo e vidi il mio ragazzo con uno striscione con su scritto "andrà tutto bene amore mio❤️".

Non ero una tipa da smancerie, ma mi piacque il suo carisma, la sua buona intenzione di sollevarmi il morale.

Formai un cuore con le mani, eravamo in una relazione rosa e fiori.
Io lo ero.
Incredibile, ma vero.

Ero circondata dalle persone più importanti per me, mancava solo Fred.

Mi feci aria con le mani.
Quando avevo le cosidette "caldaie" e quindi sbalzi di temperatura, significava che l'ansia continuava ad avere la meglio.

Un altro bussare insistente mi fece sobbalzare.

Corsi immediata alla porta, senza curarmi di chi potesse essere.
Il mio sesto senso mi aveva condotta nel giusto.

Mi bloccai ancora.

Scarpe nere, jeans, mani grandi, maglietta azzurra, viso roseo contornato da un sorrisetto di guerra vinta.
I capelli castani erano scompigliati, mentre circondava con un braccio il collo del mio fratellino.
Ash me lo aveva riportato indietro.
Lo aveva fatto davvero.
Mi aveva riportato indietro la mia famiglia.

I suoi occhi castani erano puntati contro come un faro puntava agli scogli di notte.

Le fossette erano visibili, non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso.

Il corpicino di Fred mi si buttò addosso, non ci andò affatto piano.
Mi stringeva forte, mentre piangeva sommessamente.
Più ricambiavo, più mi sentivo in dovere di fare di più.
Non staccavo il contatto visivo da quello del mio coetaneo, mentre Jane e Kevin ci raggiungevano al sentire i pianti sommessi e non strozzati di mio fratello.

«Sei a casa adesso», gli sussurrai baciandogli la fronte e cancellandogli ogni goccia d'acqua amara.
Ero stata presa in sopravvento, le mie labbra erano ancora spalancate dallo stupore di riaverlo con me.

Sapevo che quegli occhi castani di Ash non portavano a niente di buono.
Deglutii, senza staccarmi dal mio pestifero.

La mia migliore amica sorrideva, Kevin un po' meno.

Non ne compresi precisamente il motivo.

«Hai vinto», mi ripetè Fred forte per farmelo capire del tutto.

«Ho sul serio vinto», sorrisi, mentre Ash era rimasto taciturno sulla soglia.

L'emozione era tanta, sprizzavo gioia da ogni poro ma la reprimevo per tenerla ancora con me.

Niente più di quel momento poteva rendermi felice.
Niente di più.



LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora