13. Mi basti tu, brother

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I love the way you lie
-Rihanna

I giorni seguenti erano trascorsi tranquillamente tra un caffè al bar e qualche uscita di coppia con Kevin.
Per quel sabato avevamo deciso di uscire dagli schemi, per festeggiare il nostro primo mese di fidanzamento.

Avevamo alloggiato una camera per una notte in una città vicina.
Non avevo standard alti per una questione di soldi, ma per il mio ragazzo non c'erano "ma" che tenesse.
Pagò tutto lui, compresa la guida turistica.

Prese in braccio, fu allora che io mi attorcigliai alla sua vita con le gambe.
Mi sorreggeva con forza, nonostante non avesse il fisico adatto.
Giocò con il lembo della mia canottiera leggera, conducendomi in camera.

«Lo facciamo?», mi sussurrò, accarezzandomi la mano.

Lo guardai e annuii.

Prese uno shot alcolico per aggiungere un po' di "pepe" ai suoi prestigiosi movimenti più scelti nella nostra prima volta in assoluto insieme.

«Non sei vergine?», spalancò gli occhi, dopo averlo constatato a sue spese.

Esitai.

Chiusi gli occhi per qualche secondi, inspirano ed espirando.
I ricordi venivano a galla e io non potevo permettere che si insinuassero in un momento intimo e felice.

«No, non più», ammisi.

«Oh», boccheggiò, deglutendo lo strano liquido.

Il suo modo di perforarmi mi era piaciuto, tuttavia gli avevo chiesto di andare avanti senza fermarsi.
C'era qualcosa nei suoi movimenti, nei suoi modi di fare, di agire, che mi ricordavano Ash.

«No, fermati», lo bloccai, sedendomi.

«Che c'è?», si tirò su anche lui.

«Non mi piace. Non così. Non come lui. Ho capito quel che vuoi fare, ma non devi».

«Eri tanto attaccata a lui... credevo-».

«Hai detto bene. Ero».

«Cosa vuoi che faccia quindi?».

«Sii te stesso, non la sua copia. Se sono qui con te è perché voglio che ci sia tu. Altrimenti a quest'ora sarei avvinghiata a lui e sai quanto voglia cancellare quel pezzo della mia vita».

«Hai ragione. Scusa», mi accarezzò i capelli e gli sorrisi.

«Vuoi parlare o-».

«Hayra Stevens sei la persona meno prevedibile che io conosca. Fino a poco tempo fa non ne volevi sapere, ti vergognavi a metterti in costume in spiaggia e ora...beh guardati».

«Si cambia. Si cambia», ripetei più a me stessa che a lui.

«Sei cambiata per lui?».

«Non si cambia per una persona. Si cambia per sé stessi, per essere più forti quando il mondo ti cade addosso. Ora taci».

***

Dagli spalti osservavo mio fratello giocare abile.
Dominava quella palla con dono naturale, senza fatica, che praticamente ignorava.
Era nuvoloso, ma l'afa non ci lasciava respirare come avremmo dovuto.

Non gridavo, non facevo il tifo, non applaudivo perché non volevo distrarlo o metterlo in soggezione come tanti altri genitori facevano.
C'ero io, solo io, per vederlo.
Eppure, ero così fiera.

Gli sorridevo ogni qual volta lui si girava per vedermi, gli alzavo il pollice in su e gli annuivo dolcemente per spronarlo a dare il meglio di sé.
Portava il numero 8 sulla schiena, il nostro numero fortunato.
Aveva una maestosità, una logica diversa, da quella degli altri.
Splendeva di originalità, di passione, di voglia di dare tutto quel che poteva in campo.

Correva con le scarpette adatte sul campetto verde sintetico, con una grinta e gioia di fare da far accapponare la pelle.
Concentrato, senza girarsi verso di me nel bel mezzo del dribbling, intento a scampare gli avversari, accompagnava quel pallone tondo con i piedi.
E poi quel goal.
Quel goal che mi aveva regalato, sorridendomi di nuovo.

Ero fortunata ad averlo.
Tanto fortunata.

«Però, ci sa fare il ragazzo».

Lo guardai, quasi scottata da quella voce profonda e rude.

«Cosa ci fai qui?».

«Smettila di pensare che il mondo giri attorno a te. Non è come pensi tu».

«Che cosa vuoi, Ash?», mormorai a denti stretti.

Lui si alzò di scatto, applaudendo e conducendo le mani ai lati della bocca.

«VAI FRED, FALLI NERI!», gridò felice, facendo quel che io mi ero imposta di non fare.

A discapito di quel che pensavo, lui gli sorrise a sua volta e riprese a correre ancora di più.

«Sono qui per lui. Mi ha invitato, sono arrivato appena ho potuto», mi rispose tenendo gli occhi ancorati al mio giocatore preferito.

Avrei voluto cacciarlo, urlargli contro, ma se Fred lo aveva fatto, significava che volesse anche la sua di presenza.

La mia forse non era sufficiente?
Non era abbastanza?

Mi diede noia, come se non avessi fatto tutto quel che avevo fatto.

Decisi di passarci una pietra sopra, ignorando quel troglodita.

Fred.
Era Fred che contava.
E se lui stava bene, stavo bene anch'io.

Chiesi ad una signore di scambiare posto, mantenendomi lontana.
Ci ero cascata più volte, quando stavamo insieme, ai suoi giochetti.
C'ero cascata nuovamente, presa dalla foga del suo ritorno.
Ero impegnata, sarebbe stato diverso.
Eravamo due puntini distinti, due rette parallele che non si sarebbero mai più incontrate.

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora