72. Voglio te

73 13 24
                                    

Strecciando ogni singolo nodo con il pettine, mi concentrai sul mio riflesso.
I miei capelli castani scendevano senza ostacoli, lunghi, lisci.
I miei occhi non erano contornati da trucco e sapevano a chi sarei andata incontro a breve.
Il mio fisico era magro per il mio metro e sessanta di altezza, che confrontato all'oltre metro e ottanta centimetri di Ash non era niente.

La vita mi conosceva, sapeva chi fossi.

Il maglione che mi fasciava, copriva perfettamente le mie forme prosperose.
Esso sarebbe stato perfettamente in grado di stringere chiunque io e soltanto io volessi.

Le mie gambe si mossero all'improvviso intente ad affondare l'ennesimo ostacolo.
Erano determinate nell'affrontare la tempestosa tempesta che portava il nome del mio acerrimo nemico.

Non bussai minimamente, vi entrai, senza alcun riguardo alla cortesia.
Lo colsi chiaramente a petto nudo dopo una presunta doccia e, fieramente, non ne rimasi scottata.

Sorrisi, conoscendo ogni singola parte del suo corpo a memoria, formante il più bel dipinto all'interno della mia fervida memoria.

«Tu e la tua amichetta Jane non mi avete fatto dormire questa notte. Non avete fatto altro che litigare sulla tua sbornia, come se tu fossi una ragazzina. E in un nano secondo avete riso e riso e riso, fantasticando di qualche attore scapolo con magari quarant'anni più di voi. Vi siete immaginate insieme qualche fantasia sessuale rivolta a lei o...».

Lo interruppi, aprendo la gabbia del leone affammato.

Lo guardai dritto in quei suoi occhi marroni chiari, squadrando il suo fisico volontariamente mezzo scoperto da lui fino a raggiungere l'ottantesimo centimetro.

«Sei uno stronzo».

«Hayra-».

«Taci, okay? Taci», lui si zittì, stupito dalla mia ferocia.
Nel squadrarlo attentamente per la seconda volta, quasi mi venne da piangere.
La mia anima era rimasta a lui, a colui che mi aveva strappato ogni singola parte di me.

Prima di scontrarmi con la vita e affrontarla energicamente, mi ero ritrovata faccia a faccia con un mostro incarnato in un mio coetaneo.
Come un albero nudo, senza foglie e radici, abbandonata, persa, soffocante dai mille strilli interni che nessuno si era sforzato di sentire.
Gli avevo permesso di annientarmi, poco a poco, in agonia.
Quella bambina era ceduta in un angolino, dimenticata e che nessuno più vedeva.
Piena di graffi, lividi, sanguinava e non veniva soccorsa.
Veniva fatta inginocchiare a cospetto di lui, capo di quelli "forti".
Erano venticinque contro una.
Nessuno osò mai denunciare gli accaduti, che fossero stati complici diretti o indiretti.
Gli occhi puntati su di me li sentivo ancora, non avevano mai smesso di farmi pesare il macigno pesante sul mio dorso.

Camminando a testa bassa per il corridoio della scuola elementare, tramite sgambetto, inciampai.
Sola, raccolsi i miei libri portandoli vicino a me, per non sentirmi totalmente in solitudine.
Presa di mira per il mio carattere insolito, per il mio corpicino magro nascosto sotto taglie e taglie di maglie larghe, la coda bassa, gli occhi supplicanti di chi gridava a chi era analfabeta.
Mi si avvicinò, sorridendomi sghembo.

«Guarda chi si rivede... ti sono mancato, principessina? Vuoi fare un giro sul cavallo bianco?», con la gamba destra si riversò verso di me e mi fece rotolare per due rampe di scale.
Seguita dai miei tomi, finito il percorso, essi mi caddero addosso.
Mi sedetti lentamente, toccandomi la testa, dolorante.
Le risate a fine dell'operato, mi fecero sotterrare dalla vergogna.
Non riuscivo a rispondere, ci provavo, ma ogni suono mi moriva in gola.
Destabilizzata, senza dignità, incassavo i colpi e collezionavo ferite.

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora