48. Sfumature

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Durante una passeggiata normale, mi soffermai su un vecchio campetto abbandonato in pieno verde.
I miei nonni italiani vivevano in campagna, forse per questo ne ero attratta.
Non avrei cambiato la mia amata città per alcun motivo per una questione di abitudine.
Immaginare il freddo della sera persino d'estate, la troppa quiete, il troppo silenzio, l'incomodità di doversi spostare per la minima commissione non si avvicinava a com'ero cresciuta io.

Dopo una camminata non esageratamente lunga, sistemai il mio zainetto nero su una spalla.
Seduta sugli spalti, afferrai la borraccia d'acqua e ne bevvi qualche sorso.
Era una giornata calorosa, i raggi solari picchiavano da incendiare.

Dopo essermi guardata attorno, optai per giocare.
Non tanto in alto, un solitario canestro da basket se ne stava per le sue.
Una palla adeguata arancione vicino al palo fece ricorso alla mia attenzione e la presi in prestito per qualche tiro.

Un rumore estenuante di passi non mi distolse di fare canestro.
Mi concentrai sul punto preciso, piegai le braccia e le ginocchia, dopo di che presi lo slancio e tirai.

«Posso?», una voce sinistra mi fece scuotere l'anima.

Non risposi, mi limitai a non guardarlo ed a passargli la palla.

In secondo piano era il modo in cui Ash manovrava la palla, in primo c'era la prospettiva del suo fisico sbilanciato che era l'unica cosa che potevo permettermi di guardare senza imbattermi nei suoi occhi.

I muscoli in continua tensione, le gambe piegate, le dita lunghe.
Era sudato, lo stesso sudore gocciolava su di lui fino a cadere.
Era lo stesso effetto che mi aveva fatto sotto la doccia, le mie guance fortunatamente non prendevano mai fuoco poiché la mia carnagione chiara non svelava mai i miei veri ormoni.

«A Jane piaci», una ragazzina sui dodici anni gli rivelò davanti al solito campetto di basket.

«Non ricambio», scrollò le spalle, la palla girò attorno al canestro ma non vi entrò.

Risi imbarazzata.

«Che c'è di tanto divertente? Non è la tua amichetta del cuore?», sottolineò, ritentando nel tiro.

«Pensavo a, se lei che è molto bella non ti piace, le persone come me cosa dovrebbero dire».

Portò la palla sotto il braccio sinistro, schiacciandolo.

«Nah, tu sei più carina».

Alzai lo sguardo verso quei suoi occhi ambrati e deglutii.
Una massa di persone si avvicinò a noi ridendo e scherzando.
Julie, la riccia più popolare dell'istituto, mostrò i suoi denti bianchi coperti dall'apparecchio.

«Scherzavo», sussurrò, ma non abbastanza piano per non avermelo fatto udire.

«Non è che ti va un giro?».

«Un giro? Io e te?», innarcai un sopracciglio.

«Che c'è di male?».

«Tutto! No, vai da solo», recuperai la palla.

Assumevo inconsciamente dei comportamenti bipolari e ripensandoci con la testa di un altra età mi sarei presa in giro da sola.

«Oh andiamo, che c'è? Ti imbarazzo così tanto?», si avvicinò a me, pericolosamente.

Indietreggiai fino a toccare il muretto dove si siedevano le persone per assistere.
Ero ad un palmo dal suo naso, un batticuore improvviso si impossessò di me, mentre il suo viso si avvicinava al mio.

«Allora...che c'è? Non ti va?».

Deglutii, perdendo l'uso della parola alla vista dei suoi soliti occhi.
Erano sempre gli stessi, quelli che avevo conosciuto in tenera età, e che ancora mi avevano in pugno.

«Sapevo che avrei potuto contare su di te», se ne approfittò.

In silenzio, a piedi nudi, camminavamo sulla riva.
Il mare di fine agosto lasciava quel non so che di malinconia, come se ogni onda che si ripercuoteva impetuosa sugli scogli volesse lasciare il segno forte fino alla prossima estate.
Quelle sue onde fortificate non si perdevano d'anima, avevano persino la forza di riprovarci ancora nonostante venissero stroncate e nonostante sapessero a cosa stessero andando incontro.

Alzai lo sguardo, lo sorpresi a guardare la distesa immensa di acqua salata mentre i suoi occhi assumevano un colorito che mi rimase inpresso.
L'essere umano cerca il nero o il bianco, poi finisce per innamorarsi delle sfumature.

Il rumore che mi rilassava in incredibilmente era da sfondo al silenzio che non ammetteva nostre parole.

I suoi pantaloncini neri luccicavano perché bagnati e illuminati dagli ultimi raggi solari sempre meno calorosi, con lo sfondo di un cielo aranciognolo e rossastro.

Era sereno, il panorama.
Non si poteva dire lo stesso di lui, che era perso.
Conoscevo il suo sguardo come le mie tasche, quel tardo pomeriggio non era come le altre volte.

Era perso.
Perso in una nube che perdeva sostanza mentre veniva trapassata dall'aereo.
Perso come un pastore senza gregge.
Quanti passi deve compiere un uomo prima di capire di essere solo?

Non fiatai, non gli chiesi come stesse.
A dire il vero non riuscivo a dire una parola di senso compiuto e mi terrorizzava.

Avevo paura, di star dimenticando Kevin.
Avevo paura, di star dimenticando me stessa.
Avevo paura, di star dimenticando il dolore che mi aveva inflitto proprio lui.

Si fermò verso di me e mi stupì quel sorriso che mi regalò.
Non lo aveva mai fatto, non a me.
Con il buio della notte che stava scendendo e con lei le prime stelle, il suo sorriso fu il faro per un marinaio.
Quando nemmeno la stella polare era riuscita a condurmi a casa, quel sorriso mischiato a quei suoi occhi dannati, mi avevano messo in sobbuglio.

Distolsi lo sguardo, guardando oltre a lui e posandomi su un ombrellone lasciato aperto che stava venendo via a causa del vento.
I capelli erano scpmpigliati e me ne dannai poichè mi ero imposta di lasciarli sciolti.

«Te lo avevo detto», udii il suo tono di voce abbassarsi di tono, ma alzarsi di ego.

Guardai la sabbia, prendendone un granello per fingere di non importarmi di quel che aveva da dire.

«Non puoi sfuggire da me, Hayra. Nemmeno se lo vuoi».

Si gettò in acqua con le braccia in avanti, lentamente veniva inghiottito dall'acqua.
Si avventurò verso il largo, finché non riemerse, guardò in alto e aprì la bocca per riprendere fiato.

Mentalmente mi ripetei la frase.

«Non puoi sfuggire da me, Hayra. Nemmeno se lo vuoi».

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora