55. Guerra

60 10 0
                                    

Seduta sul muretto davanti casa, guardavo il cielo totalmente nero senza niente a illuminarmi.
Con le gambe unite per riscaldarsi, con gli occhi che cercavano la seconda stella a destra, come diceva Peter Pan.

Il mio vocabolario era pieno di "forse".
Forse avevo sbagliato a confidare nelle stelle, nonostante fossero in tante.
Forse dovevo affidarmi a me stessa, ma con quale forza di volontà?

I capelli mi ricadevano dietro la schiena, la felpa di cinque taglie in più alla mia mi rivestiva e impediva al gelo di sorprendermi.
Mi accarezzai una parte dei capelli per consolarmi, poteva sembrare patetico ma mi aiutava.
Ero sola, quindi giocava dalla mia parte.

Tirai allo scoperto un pacchetto di Malboro e sorrisi al ricordo della piccola me stessa di cinque anni.

«No, papà!! Ti fa male! E se poi ti senti male? E se poi ti succede qualcosa? Mi vuoi lasciare qui senza nessuno? Io non voglio andare negli orfanotrofi, mi dicono che sia brutto!».

La frequenza, i trucchetti che escogitavo disegnando scarabocchi come fossi una detective nel pieno di un Giallo, erano formidabili.
Riuscivo in qualche modo a toglierle, a buttargliele, anche se lui si lamentava su quanto costassero e io rispondevo con "E chi ti ha detto di comprarle?".

Ero una tipetta tutto pepe già all'epoca.

A distanza di anni, mi rigirai la sigaretta tra le mani.
Volevo spezzarla in due, ma non riuscivo a trovare dei pro al momento.

Chiusi gli occhi nuovamente.
Un'altro giramento di testa dovuto allo stress si ei-presentò più forte.
Premevano forte ma, tra un tiro di nicotina e l'altro, i problemi per un lasso di tempo breve svanivano.

Mi rilassava, sebbene mi stessi riempiendo i polmoni di spazzatura.
Il filtro stava ormai finendo, rimasi a guardarlo diminuire mentre mi assorbivo fino all'ultimo il relax della sensazione.

«È da tempo, che non fumavi», mi fece notare.

«Non sono affari tuoi».

«Pensi che stia qui a farti la morale? Fai quel che vuoi. E poi, fumo anch'io», scrollò le spalle e si accese anche lui la cicca.
Con la gamba piegata sulla parete di casa sua, macchiava la vernice bianca con la suola.
Mi soffermai a pensare quanti cuori avesse calpestato.

I jeans bucati rivelavano le sue gambe mezze scoperte, la sua collana d'oro si muoveva ad ogni suo oscillamento e riproduceva un suono non da attirare attenzione.

Kevin mi avrebbe sgridata, se fosse stato ancora con me.
Mi avrebbe detto che era sbagliato, che mi nuoceva e che non aveva alcun beneficio.

Lui e Ash erano due persone totalmente diverse.
Io amavo Kevin.
Se amavo lui, quindi Ash era solo una stupida teoria.
Non provavo niente, se non una profonda necessità di cacciarlo fuori dalla mia mente.

Era il male.
Era proibito.
Sarebbe stata la mia fine.

Rabbrividii, mentre l'ennesimo mal di testa mi colpì.
Premeva insistentemente, così decisi di coprirmi meglio.

«Ti presterei la mia felpa, se solo mi importasse qualcosa di te».

Sorrisi sadica, alzandomi e gettando la sigaretta.

«Non mi stupisce. Prima di parlare e dare della fredda a me, pensa a guardarti allo specchio», azzardai.

Notai le sue vene nelle braccia guizzare a quella mia constatazione.
Si avventò su di me, tenendo le braccia attorno al mio corpo senza minimamente accennare a toccarlo.

Per il fremito dell'attimo respiravo affannosamente.
Tremavo sotto il suo notevole fisico, leggermente rivelato dalla camicetta.
Non era solo quello;
Erano i suoi occhi.
Erano ancora i suoi occhi a guardarmi con odio, con passione, con desiderio di vedermi sotto al suo dominio.

Era il mio libro dimenticato sullo scaffale ma sempre primo.
Era il labirinto in persona, pieno di enigmi.
Non era nè bianco nè nero, ma grigio.

Mentre rimanevo a contemplare ciò, lo guardai rientrare disinvolto e soddisfatto.

Riconfermai la mia teoria:
Ash Cohen, non so cosa ti abbia fatto ma, se vuoi la guerra, guerra avrai.

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora