17.. La mia vita è in rovina

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Il tribunale era immenso.
Gli aspettatori erano di tutte le età, la maggior parte dalla sessantina in su, quindi con più esperienza in ambito giuridico.

Ero vestita elegantemente, adatta a quell'occasione che mi stava mangiando viva.

Il mio avvocato era al mio lato, rispettivamente come quello contro di me che stava accanto ai signori Dreamy.

Fissavo la loro certezza negli occhi, mentre io di sicurezze garantite non ne avevo.

Fredrick era confuso con un altra marea di gente alle mie spalle.
Lo leggevo nei suoi modi di fare, la paura di perdere l'unica persona che gli rimaneva.

Il giudice diede inizio alla sentenza che tra non molto mi avrebbe portata all'esaurimento nervoso e a seguito al mattatoio.

Dopo più di mezz'ora, passò la parola alla famiglia che mi avrebbe portato via Fred.

«Sono vent'anni che abbiamo provato ad avere una famiglia a tutti i costi. Mi rendo conto che questa sentenzia sia stata frettolosa, ma la verità è che ho cinquanta due anni e non posso più aspettare. Posso accettare di avere un erede diverso da me fisicamente, con un carattere non mio nè di mio marito, ma non rinuncio ad un mio desiderio. Ora che lui mi si è presentato davanti nella mia vita come una manna del cielo, non ho intenzione di perderlo. Non posso. Con tutto il rispetto, ma dubito che la ragazza sappia essere abbastanza matura da capire cos'è meglio per un quasi adolescente».

La giuria annuiva ad ogni sua frase, mentre io perdevo a mia volta punti.
Ash e Kevin erano pronti ad appoggiarmi, o almeno il mio ragazzo sì.

«Voglio solo mettere in chiaro quanto voglia questo dono del cielo. Non potrei mai avere cattive intenzioni, dopo tutto quello che ho passato. Siate ragionevoli», fece la teatrale, appoggiata dall'uomo che aveva il suo cognome.

L'entrata in sala di una donna mi fece gelare il sangue.
Rabbrividii, senza riuscire a guardarla nemmeno nelle pupille.

Mia madre era lì.

Si sedette con sguardo inchiodato su di me, era neutrale.

Attesi la disputa tra avvocati e degli imputati interrogati tra un occhiata alla mia genitrice e l'altra, finché non ottenni la parola io.

Mi schiarii la voce.
Presi un respiro profondo, dopo un attimo di esitazione.

«Sono stata per anni dietro i servizi sociali ed è quel che volevo non accadesse mai a lui. Ogni giorno venivo trascinata obbligatoriamente da una casa all'altra con lo scopo di avere una vita migliore che in quelle condizioni mi sarei solo potuta sognare. Li invidiavo, di quel che per loro era scontato. Bevevo dai rubinetti, quando l'acqua era servita in bottiglia di vetro sul tavolo. Mia madre ha tradito mio padre davanti ai miei stessi occhi, mentre ero soccupe della sua pressione psicologica e malata, sessista, con l'unico piacere di avere un compagno che potesse soddisfarla sessualmente. Sono stata forzata al silenzio, per non rendere partecipe mio padre, mentre la donna che amavamo ci soffiava diritti e motivi per continuare a coltivare rispetto reciproco e ammirazione. Sono stata costretta a farmi andare a genio la persona che vedo come unica ragione per la quale i trentadue anni di matrimonio dei miei genitori è terminato. Ha scavato la mia verginità nel profondo, un qualcosa che non potrò più riavere, un qualcosa per cui tuttora mi sento macchiata. Mi piacerebbe dire che tra i miei è finito tutto per l'infedeltà di lei che credevo il mio angelo sceso per salvarmi, ma... non posso non pensare che non sia stata in parte colpa mia. Mentre quel mostro si approfittava di entrambe, mia mamma ne era cosciente. Non ci ha mai messo bocca. E nemmeno io. Avevo tredici anni, Fredrick sette. Gli ho fatto da scudo, per non rovinare la sua infanzia che tenevo sotto artigli».

Ci fu una pausa.

«Vorrei dire che questa è stata l'ultima volta, ma non lo è stata», sorrisi sadicamente.

Ancora silenzio.
Avevo non sono due occhi su di me, ma bensì tutti quelli dei testimoni.

«La mia mente era un cimitero che si ricostruiva dopo essere andato a pezzi, ma trovava sempre motivi per crollare ancora e ancora, a fondo. L'ho provato quando mia madre se n'è andata di casa, lasciandoci senza neanche voltarsi, senza un minimo di buon senso. Mio fratello dormiva, io no. L'ho rincorsa, le ho gridato contro di rimanere, ma l'unica cosa che potevo vedere era la sua schiena e le valigie, assieme ai suoi piedi che agivano da vigliacchi mentre si allontanava dal sangue del suo sangue. Mio padre è un alcolizzato, dipendente dal fumo e dalla droga. Esce senza dire niente, quando torna è inevitabile che ci si accorga della sua esistenza perché collassa al suolo. Quando ero figlia unica, all'unico compleanno che mi organizzò, mi fece un regalo. Ero felicissima, il primo suo pensiero rivolto a me. Cos'era? Beh... polvere bianca. Lascio a voi metabolizzare cosa fosse, e non aveva la marca della farina. Ci sarebbe troppo da raccontare, ma mi fermo qua. Era inevitabile che fossi qui a parlare di qualche piccolo aneddoto per poter arrivare fino al vero punto cruciale. Viviamo in una Londra perfetta, visitata e invidiata a livello mondiale, in un quartiere non malfamato.
Ma fisicamente le mura della nostra casa non reggono. I muri sono quasi di carta pesta, il divano è praticamente nel bagno e i letti lasciano appena spazio per metà corpo. Non vi voglio mentire, perché questo non fa di me la persona che evito di essere da sempre. Sono inesperta di maternità, direte forse, ma maternità non significa crescere un altra vita? Essere madri significa solo ed unicamente dare alla luce un essere umano o è di più? Perché, se rispondete la prima, siete dalla parte di nostra madre e questo vi dovrebbe fare al quanto riflettere».

Nessuno fiatava.

Mio fratello continuava a guardarmi.
Kevin non muoveva un muscolo, girato da una direzione opposta alla mia.
Mia madre giocava con i suoi capelli.
Ash aveva imputato le sue iridi marroni nelle mie di altrettanto colore.
L'unico a vedere in faccia la realtà.

«È un grosso lavoro, il mio. Non ne vado fiera di quel che mi è successo, e di sicuro in questa sala troverò gente che mi si scaglierà contro, che etichetterà senza conoscermi. Sapete; io non voglio togliere la possibilità di essere felice a mio fratello, sto lottando per far sì che la abbia. Non sono un egoista, non sarei qui altrimenti a farmi in quattro nonostante faccia a lotta per arrivare a pagare le bollette a fine mese. So le carte in tavola intestate a lui, le vedo come luccicanti d'oro e di scintille. Ma conosco lui e so che non è di qualche sterlina o camera lussuosa di cui ha bisogno. Parliamo di maturità, ma solo guardando l'età. Potete sminuirmi, dirmi che non mi atteggio come una della mia età o che non sono vestita di marca e per questo mi rende una poveraccia non degna di avere la custodia di un bambino. Io non ce l'ho e credo che ci sia ancora tanto da lottare. Ma se due persone come mio padre e mia madre sono diventati genitori, so per certo che posso esserlo anche io. Non voglio pietà, compassione, aiuto. Voglio solo che mi ridiate mio fratello indietro perché ne morirebbe. Ne morirei, senza lui. È l'unico che mi resta. L'unico che, se dipendesse da lui, resterebbe. Stiamo combattendo per lui, ma nessuno ha chiesto cosa ne pensasse davvero».

Il giudice prese improvvisamente parola.

«Signorina Stevens, ho ascoltato con attenzione la sua storia. Ho avuto anche io la sua età, ho avuto dei figli con la sua età. Costruire qualcosa con suo fratello, averne la custodia, equivalerebbe perdere ogni svago della sua gioventù. Si rovinebbe gli anni più belli. Sarebbe pronta? Dovrebbe trasformarsi come se si trattasse della sua stessa vita...».

Guardai la donna dai miei stessi tratti somatici, poi l'uomo seduto più in alto di tutti con i documenti tra le mani.

«Sono dovuta diventare pronta. Certo, che accetto», sorrisi vedendo il mio piccolo pestifero già undicenne con gli occhi illuminati.

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