33. Noah

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Noah mi fissava con gioia.

Spostavo di continuo i capelli, non sapevo dove potessero stare meglio.

Una mano ignota si appoggiò sulla mia spalla ed io sussultai.
Un ragazzo poco più grande di me non era capace di stare in piedi, questo non sfuggì al mio amico che gli ringhiò contro.

«Ti conviene spostarti», asserì serio, prendendomi la mano e portandomi lontano dalla folla di gioventù che si divertiva.

«Sei solo?».

«Sei sola?».

«No, sono con Jane. Non so dove si sia cacciata».

«Ti vedo bene. Fred?».

«Sta bene, dovresti vederlo. Continua ad andare a ripetizioni di spagnolo».

«Hai trovato un tutor migliore di me? Impossibile», scherzò.

«Ah-ah, molto divertente. Tu che mi dici?».

«Io niente di che. Sono in cerca di un po' di svago», bevve dal mio bicchiere colmo di alcol.

Seguii il movimento sciolto in cui lo fece, la maniera in cui la sua testa si era alzata leggermente verso l'alto per mandare giù e di come avesse inghiottito senza sforzi.

«Perchè da queste parti?».

«Ogni tanto passo di qui per vedere che si dice. Ma vedo che niente è cambiato».

«Non cambia niente qui, sono le persone a farlo. O forse nemmeno, forse nessuno cambia sul serio».

«Hai preso in considerazione il corso di scrittura a cui ti avevo iscritto al liceo?».

«No, vedi... sono venuta via prima».

«Hai smesso di andare a scuola? Perché? Eri così brava, tranne nell'ultimo periodo che ti eri lasciata un po' andare anche nelle materie che ti piacevano di più. Il prof di letteratura ti adorava, vedeva in te una scrittrice brillante con una voglia di fare incredibile. Che ne è stata della ragazzina che abbiamo conosciuto?».

Sorrisi leggermente.

«Avevo perse interesse. Tutto qui», deglutii, scuotendomi un po'.

«Mi sto annoiando, facciamo un giro?».

«Cosa? Hai visto un ragazzo carino? Da quando sei gay?».

«Ho detto che non sento nulla!».

«Oh, okay! Usciamo!».

Lo sbalzo di temperatura mi avvolse, dal caldo atroce che c'era là dentro a quello gelido da non riuscire quasi a camminare.

«Fa freddino».

«Dovrei avvisare Jane», pensai a voce alta.

«Non ti sentirebbe. Allora, mon amour», mi baciò la mano prendendosi gioco di me.

«Smettila, scemo».

«Quel coglione di Kevin dove si è cacciato? Non ci credo che non è venuto, siete sempre insieme voi tre! La squadra che non si separa nemmeno in un incendio!».

Abbassai lo sguardo.

«Non lo sai?».

«No, cosa?».

Presi un respiro profondo.

«Hayra, cosa non so?».

«È morto quattro anni fa, Noah».

Quelle parole acquisirono amarezza solo dopo averle pronunciate.
Non ne rimaneva niente.
La consapevolezza mi lasciava incompleta, prosciugata da quel che avrebbe dovuto riempirmi di ragione.

Tornavo sempre a lui.

Anni insieme non potevano essere buttati via così.

Un senso improvviso di rabbia mi prese con sé.
Mi tenne stretta a quanto fosse tutto programmato il nostro destino, o chiunque ci fosse stato lassù.

Il mio cervello rimembrava l'assenza della persona che più volevo avere accanto, che in un modo o nell'altro, c'era.
C'era, e almeno lui doveva rimanere.
E sarebbe rimasto, se fosse stato per lui.

Me lo aveva promesso.

Mi strinse a sé con prepotenza.
Mi stritolava, per essere certo di star avvolgendo ogni parte di me.
Scintille sui nostri corpi stavano luccicando più del cielo stellato che anche quella sera non aveva tardato a vegliare sulla mia persona.

Un occhiata al cielo, mentre avevo appiglio di Noah tra le mie braccia, volò ai nonni.
A Kevin.
A persone che non avrei mai conosciuto.
Ad altri che ancora non avevo avuto modo di pensare negli ultimi anni ma di cui non mi ero dimenticata.

«Va tutto bene», mi sussurrò in un soffio, facendomi gelare.

Non credetti a mezza parola per principio, ma lasciai correre per non distruggere il momento.

Le sue vene sulle braccia mi circondavano i fianchi, le mani scorrevano sulle mie braccia e lasciavano un certo tepore.

«Grazie», ricambiai nonostante la sprovvista.

Delle grida lontane mi fecero staccare.

Jane mi stava cercando ovunque con quell'aria perfetta ma preoccupata.
Il vestito rosso le fasciava le forme inesistenti, ma il minimo di push-up che portava copriva la sua insicurezza.
Per me era una bellissima ragazza perché aveva una bellezza particolare.

Quando mi vide, si tranquillizzò e mi raggiunse.

«Torniamo dentro, dai. E non scomparire più!».

«Jane.. non mi riconosci nemmeno tu?».

«Noah...Oddio! Sei tornato dalla missione in Africa!», captai la sua emozione nel rivedere una faccia conosciuta dopo tanto.

«No, non sei cambiata nemmeno tu».

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora