46. Spine

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Aprii gli occhi.

Sentivo la testa pesante, dovevo aver dormito molto.
Mi stirai un po' e mi legai i capelli nelle solite treccine infantili.

Guardai le mani, erano piccole e paffute come il mio visino.

Mi persi dentro il vestito che la nonna mi aveva cucito con le sue, di mani.
Era rosso fuoco, brillantinoso, con una stella enorme sul petto piatto.

«Nonna, nonna! Posso uscire fuori?».

L'anziana signora mi sorrise, allacciandomi i lacci delle scarpette.

«Sì, tesoro, vai pure. Però rientra prima di pranzo, va bene?».

«Vuoi che ti aiuti dopo? Così dopo sarai libera e potremo andare a guardare le stelle», le ricordai e fece sì con il capo.

«No, tu vai pure a giocare. Ci penso io».

All'uscita di un grande portone, mi ritrovai faccia a faccia con l'asfalto della cittadina.
Faccia a faccia con un bambino sui sei anni, mi guardai indietro per capire se stesse cercando effettivamente me.

Aveva gli occhi come la più bella foglia d'autunno, chissà quali segreti conteneva.

Le labbra sottili contagiarono in me un sorrisetto.

«Apri la mano e chiudi gli occhi».

«Non posso. Nonna dice che non devo accettare niente dagli sconosciuti. Non dovrei nemmeno parlarti. È un classico, davvero non lo sai?».

«Fidati di me, perfavore».

Sul palmo della mia mano si posò una rosa rossa.

«Non mi piace il rosso», avevo un occhio aperto ed uno no.

«Di blu non se ne trovano tante, devi accontentarti».

«È molto graziosa».

«Ora fai scendere le mani più in basso».

Seguii le sue istruzioni e irrimediabilmente lasciai cadere il fiore al suolo in un tonfo sordo.
Sangue e ancora sangue scorreva dai pori di una mano ferita.

«Ahi! Perché lo hai fatto?!!».

«Credevi davvero che avessi tolto le spine?
Se davvero la avessi amata, non mi avresti chiesto perché non le avessi tolte. Le avresti amate comunque, nonostante il dolore. Perché quelle spine fanno parte di lei».

Mi svegliai di soprassalto.
Ricordavo solo quei suoi occhi e le labbra.
Non capii per quale malato motivo la mia mente avesse riproposto una scena simile.

Con la sveglia delle sette una nuova giornata aveva inizio.
Mi lavai i denti, mi cambiai dal pigiama largo e stravagante che nascondeva ogni mia forma.

Mi presentai in perfetto orario a lavoro, dove gestivo naturalmente il mio turno fino a nuovo ordine.
Buffo, il ripensare alla vecchia me.
Quella bambina tanto piena di sogni, con le mani unite che formava il cuore verso il cielo.

All'inizio volevo fare la veterinaria, poi la parrucchiera, ancora dopo l'astronauta, addirittura l'insegnante.
A mia nonna sarebbe piaciuto la dottoressa, così l'avrei curata quando sarebbe aggravata.
Mi incolpai tanto, quando morì.
Ma, se guardavo il cielo e intravedevo una sfumatura diversa, stupidaggine o no, la sentivo come se fosse ancora qui con me.

Sorrisi dal balcone, mentre allestivo i tavolini prenotati.
I capelli erano contenuti da un elastico per una questione di igiene, ma risultavano scompigliati.
La brezza in fondo rimaneva piacevole, rinfrescava l'afosità.

Non me ne lamentavo, se ripensavo a come stavo messa fino a qualche mese fa da numerevoli anni a questa parte.

Verso le dieci avevo chiesto una pausa in modo da presentarmi a scuola, poi sarei rientrata come da regolamento per completare e guadagnare il solito stipendio.

Salii le scale che conducevano alla sala ricevimenti e attesi la libertà dei docenti.
Guardandomi attorno ricordai con quanta poca voglia continuavo a trascinare quello zaino in spalla pesante e con quanta fatica mi alzavo la mattina alle cinque e mezzo perché dovevo arrivare laggiù a piedi.
Non avevo nessuno che potesse accompagnarmi, nè tanto meno che si interessasse dei miei voti o di presentarsi ai colloqui.

Non mi piaceva essere pressata, ma nemmeno invisibile.
Avevo un istruzione modesta, conoscevo le basi, ma avrei voluto dare di più.
Fino a che tenevo il passo ero una studentessa nella media, non avevo voti alti ma nemmeno insufficienti.
Inutile dire che le circostanze non mi hanno permesso di terminare gli studi come avrei voluto.
L'università rimase quindi in uno dei miei sogni nel cassetto serrato e con la chiave dentro al tombino.

«Stevens», dissi una volta accomodata, quando la donna iniziò a scorrere il dito sul registro cartaceo e poi a smanettare sul computer.

«Oh, sì, prima sezione F, ricordo bene. Niente da dire, suo figlio è un ragazzino a dir poco eccezionale. Ottimi voti, presta attenzione, dialoga bene con i compagni. L'unico difetto potrebbero essere le assenze che nell'ultimo periodo però vedo diminuite. È stato poco bene?».

Non mi soffermai sul fatto che mi avesse scambiato per la madre, ringraziai ogni Santo per non avergli dato la mia stessa insegnante delle superiori.
Come uno scherzo del destino, lui aveva scelto la mia stessa scuola per sua assoluta decisione.

«Nella mia materia non ho nulla da dire. La avverto però che c'è una materia in cui non eccelle».

«Sta avendo lezioni private di spagnolo, lo sto seguendo per come posso».

«Si sta sbagliando di materia. Il problema è la matematica, nel suo caso».

Mi sentii un pesce fuor d'acqua.
Non ero riuscita a seguirlo come avrei dovuto e me ne incolpai.

«Sono stata informata del suo problema con l'asma, tenuto in considerazione durante educazione fisica. Ma crediamo che suo figlio sia discalculico, dovrebbe accertarsene».

Cercò un foglio in particolare, poggiando gli altri da parte.

«Vede? Qui ha confuso un "uno" con un "sette" e non è un semplice errore di svista poiché lo ha ripetuto altre volte. Qui non ha ben capito cosa gli è stato chiesto e qui ha totalmente errato i calcoli. Devo spiegarle-».

«No, la ringrazio. Ci sono passata io per prima e... mi occuperò io. Non si preoccupi».

Si mostrò comprensiva e mi fece piacere conoscere un professoressa ancora amante della propria professione.
Aver conosciuto l'origine del suo allontanamento dalle mure scolastiche mi alleggerì, su questo sapevo come agire.

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora