24. Lunedì

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«Quindi cosa vorrai fare da grande?», continuava imperterrita mia nonna.

«La dottoressa. Voglio curarti quando starai male perché i dottori, anche se fanno paura, curano sempre tutti».

Un crudele scherzo del destino quello di portarla via da me solo pochi dopo mesi quella conversazione.
Dormivamo insieme, perché si agitava spesso e voleva avere al suo fianco qualcuno che la riuscisse a calmare.
Avevamo invertiti i ruoli; lei era la bambina, io l'adulta.
Le raccontavo favole moderne e poi quelle classiche, ma non proseguiva mai la frase dopo di me come faceva una volta.

«E vissero...», attesi che completasse, che pendesse dalle mie parole.
L'anziana emisse solo qualche mugolio infastidito, aprendo la bocca.
Un sussurro inudibile fu quel che mi diede in cambio.

«Felici e...».

Tossì, portando la mano davanti.
Fu in quel momento che capii che non avrei fatto in tempo a diventare la sua salvatrice, quello che lei era per me.
Non le avrei mai dimostrato quanto le dovevo nemmeno con tutto il tempo dei mondo quanto le volessi bene, non avrei avuto modo di trapiantare in me il suo malessere.

«E contenti...», sussurrai sorridendo appena quando tastava le sue mani ruvide sulle mie.
Mi faceva male, poiché portava ancora la fede che graffiava la pelle, ma lasciavo perdere.

Da quando la vecchiaia l'aveva paralizzata, avevo imparato a stirare, a fare il bucato, ad apparecchiare e sparecchiare, a cucinare, ad andare e tornare da sola dall'asilo.
Avevo persino trovato un modo per sviare gli assistenti sociali, questo finché nonna era in vita.

Rimaneva la pianticina sul davanzale, qualche pianta grassa di rimpiazzo ai nostri fiori che per un periodo avevo quasi odiato, disegnavo solo noi due insieme contro l'universo.

Mi aveva lasciata.
Anche lei se n'era andata.
Da un giorno all'altro, il suo profumo si era dissolto, la sua figura poco a poco andava a dimenticarsi, la sua voce era un eco che non udivo, il suo armadio pieno nella quale mi avvolgevo per sentirla con me era quel che mi rimaneva.

Al suo funerale non riuscii a presentarmi.
Non accettavo quel corpo che diceva di essere nonna Pearl, come poteva anche solo avvicinarsi?
Le cerimonie servono per i vivi, non per i morti.

«Hayra?».

Alzai lo sguardo verso Fred.
Non capivo perché la mia mente contorta mi avesse riportato a lei, ma non ne feci una grossa questione.

«Sì?».

«Volevo avvisarti che vado a fare un giro».

«Oh, va bene. Grazie per avermelo detto».

Annuì, lasciando la porta aperta.
Decisi di rendermi utile e di scendere di sotto per la preparazione della cena.
Iniziai ad apparecchiare da sola, a cucinare e a sistemare dando un tocco femminile in una casa di tre maschi.

Chase mi raggiunse in un sorriso raggiante.
Sfiorò il lembo della mia canottiera mentre non lo guardavo.
Le sue dita disegnavano piccoli cerchi sulla mia pelle.
Erano prima grandi, poi andavano a rimpicciolirsi.
Raggiungevano il mio collo, le spalle, poi lentamente si posavano più in basso.

La ragione era annebbiata da qualcosa di forte.
Il mio corpo si era riscaldato, si accendeva ogni qual volta veniva toccato.
Usava le unghie per tracciare il tragitto, per sottolineare l'effetto che mi provocava a livello di attrazione fisica.

«Principessa...», sibilò sull'incavo del mio collo.

Deglutii ad occhi chiusi.

«Non-», lasciai un respiro uscire dalla mia bocca, avevo alzato la testa verso il mobile ancora aperto.

«Non sai cosa ti farei se fossimo soli», riprendeva in senso sexy.
«Dai, rilassati un po'», si inclinò per lasciarmi piccoli baci sulle labbra, con l'intento di andare oltre.

«Lasciala», esordì una voce rauca e fredda, molto decisa su quel che aveva rilasciato.
Quando le mie orecchie avevano catturato il suono non esattamente melodioso, una scossa mi aveva pervaso di punto in bianco.

«È arrivato il principe? Quale onore», rise strafottentemente.

«Ash, lascia perdere», scrollai il suo fratellastro di dosso, assumendo distanze.

Serrò la mascella, fissando in maniera burbera e violenta Chase.

«Ti conviene andartene».

«Lei non vuole».

«Io credo di sì».

Ero totalmente inerme davanti alla discussione, seppure ne fossi il centro.

«Credo dovresti andartene», continuai a guardare fredda Ash.

«Visto, fratellino? Non ha bisogno della tua presunzione».

Fu un attimo; Ash si scaraventò sul fratellastro senza neanche pensarci.
Erano bastate poche frasi per far sì che la rabbia si espandesse e vulticasse su qualunque respiro potesse avere l'altro tra una botta e l'altra.
Schivava per come poteva, ma il mio coetaneo era veloce da prevedere ogni sua mossa.
Un destro, un sinistro, e la faccia di Ash si gonfiava.

Mi chinai davanti a Chase per difenderlo.
Guardavo Ash con astio, disgusto.
«Dovresti seriamente andartene adesso», fui diretta e coincisa guardandolo in cagnesco.

Si passò le mani sui capelli, sfiorando qualche graffio e livido. Continuavo a fissarlo schifata, fino a che non abbandonò incazzato la cucina.
Respirava affannosamente, lo sentivo anche da lontano.
Non me ne importava, la sua impulsività spesso mi spaventava.

«Stai bene?», mi ero abbassata alla sua altezza e gli avevo allungato il ghiaccio per sgonfiare l'occhio nero.

Sputò sangue, portando la mano alle labbra. Faceva fatica a mormorare o a tirarsi su.

«Non preoccuparti. È all'ordine del giorno».

«Lo so bene», digrignai i denti nella direzione del ragazzo che aveva la mia età nel guardarlo andare via.

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora