27. Giovedì

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Seduta sulla confortevole poltrona di pelle nel salotto, giravo canali tranquillamente.
Una televisione di questa grandezza ed efficienza, nella casa vecchia, ce la sognavamo.

Avevo guardato per un po' "Vite al limite", facendomi diverse domande.
Molta gente si chiede: "come ci si può volere tanto male al punto da ridursi in quello stato?".
Nel mio modesto parere, credono semplicemente di star facendo la cosa giusta.
Tu non porti avanti qualcosa che reputi errato per te, quindi continui.
Ci si può odiare e non siamo da biasimare.
D'altronde, in un mondo pieno d'odio, cosa possiamo aspettarci?
Io, in maniera diretta, le reputi soltanto persone tanto sole.
Non sono strati di grasso, sono persone con dei sentimenti.
E se si arriva a ridicolizzarsi in televisione raccontando la propria storia, si ha suo serio bisogno di qualcuno accanto.

Avevo finito il turno al locale in anticipo quel giorno, perciò avevo tempo per godermi la santa pace.
Ero sola in casa, perciò decisi di fare qualche ricerca.
Fred era a scuola, era nella media in fatto di studio ed ero tanto orgogliosa di lui.
Gli altri due invece erano bloccati nel traffico, questo almeno avevano scritto sul gruppo dove io puntualmente visualizzavo e non rispondevo.
Da Inferno, lo so.

I canali non consigliavano niente di interessante così iniziai a giocare con il telecomando.

Due squilli mi fecero sobbalzare.
«Stevens?», la voce dell'impiegato che mi aveva assunto come cameriera mi stava cercando.

«Sì?».

«La pausa è saltata. Uno dei suoi colleghi si è ammalato, perciò deve venire a sostituirlo».

Questo equivaleva ad un extra, e un extra significava soldi in più.
I miei occhi luccicarono e sorrisi.

«Sto arrivando», riattaccai e in tutta furia raccolsi i miei stracci.
Mi presentai in maniera accettabile, indossai il camice apposito e iniziai a segnare gli ordini.

La solita routine: sorridi alle persone che varcano la porta, mantieni la pazienza nella loro indecisione di ordine, pensa alle persone che si spaccano la schiena ogni giorno, cammina avanti e indietro e soddisfali.

La storia si ripeteva con orari sballati.
Alcune volte capitava di giorno, altri di pomeriggio, altri di sera.
Non mi dispiaceva se questo valeva a dire sterline per mandare avanti due persone e la villetta per qualche giorno in più.
Mi costava ammetterlo, ma ero anch'io più tranquilla.
Vivevo con tre maschi, ma due erano d'aiuto economico quindi non potevo avere niente de dire.

Bob mi fece un segno di raggiungerlo in cucina.
Mi pulii meglio l'indumento che avevo e lo seguii sempre pronta al peggio.

«Il capo ti cerca».

Il capo?
Dannazione, una volta tanto che andava tutto bene!

Mi lasciò davanti ad una porta nera, mi rivolse un occhiata di incitamento e mi affrettai ad entrare senza voltarmi.
L'uomo era di spalle, a giudicare da quel che vedevo era in giacca e cravatta.
Le scarpe lucide nere erano sopra un banco soppresso da libri che erano dietro la propria scrivania.

In quel momento, per distrarmi, mi piacque pensare che la sua mancanza di capelli fosse dovuta allo stress e mi fece ridere mentalmente senza che nemmeno fosse una battuta esilerante.
La sedia girevole si mosse nella mia direzione, i suoi occhi marroni scattarono su di me.

Ebbi un esitazione, poi il suo sorriso mi fece improvvisamente rilassare.

«Stefan», gli sorrisi di rimando.

«Hayra, allora sei sul serio tu».

«In carne ed ossa».

«Non sei cambiata affatto dall'ultima volta. Quanti anni avevi? Dieci?».

«Quattordici», annuii ancora sorridente.

«Ti trovo bene», si versò del caffè bollente nella tazza bianca.
Era poco più della cinquantina, un soggetto colto ma rassicurante.
Il cartellino sul camice mi fece rialzare immediatamente lo sguardo.

Stefan Cohen.

«Lui non mi ha più parlato di te, da quando...beh».

«È riservato, lo sappiamo entrambi molto bene. È qui, signore, per parlare di motivi lavorativi o della mia vita privata? Perché, con tutto il rispetto, non sono intenzionata ad aprire bocca».

«Hai ragione, ma puoi darmi del tu».

«Preferirei tenere il passato come passato. Non voglio che influisca con la mia professionalità. Se dovessi incontrarla al di fuori di qui sarò ben contenta di fare una chiacchierata innocente, ma non durante il mio turno. È tutto o posso andare? Ho dei clienti da servire».

«No... sei sempre tu», scosse la testa in un sorrisino.

«Senti, non riesco a non darti del tu in questo contesto poi prometto di provarci», riprese, «Ho pensato a lungo in questa faccenda e mio figlio mi ha parlato di te, dei tuoi... ultimi piccoli inconvenienti tra la casa e il resto. Così, dopo averci messo buona parola con mia moglie, abbiamo concordato sulla residenza della casa dove Ash e l'altro mio figlio che immagino hai già conosciuto vivono. Ovviamente tuo fratello è il benvenuto. A proposito, il piccolo Fredrick come sta? Quanti anni ha?».

Parlava, parlava, parlava, ma mi perdevo più della metà dei suoi discorsi.

«Quindici, ma...h-ho capito bene? Mi sta dicendo che la casa di Ash sarà anche mia d'ora in poi?».

«Sempre meglio della gatta buia in cui sei stata finora. Non pensi? Oh, Patricia mi ha chiesto di salutarti, ci siamo involontariamente ritrovati a parlare di te in ricordo di qualche anno fa, sai... dopo tanti anni di matrimonio si perdono le idee sui discorsi da trattare», sorseggiò il suo liquido fumante aspettando una mia reazione.

«Io... non so cosa dire, grazie. Con permesso».

Mi fece accomodare fuori.
Il resto della serata lo passai a pulire per cima e per fondo il posto con un unico pensiero in sottofondo.

Una cosa era certa: Ash era un uomo morto.

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora