51. È tornato

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Mi abbassai alla sua altezza; studiai i suoi vestiti, il suo volto invecchiato precocemente, la fede che portava ancora.

Lo smossi con un piede, ma non reagì.

«Papà», lo chiamai.

Guardai ogni singolo angolo della vecchia casa. Mi diressi in avanti, fu la prima ad entrare. Mi morsi il labbro per un solo attimo.

«Cazzo, quanti pezzi di me ci sono sparsi in questo posto», mi dissi tornando in casa quando i miei genitori si erano già separati da due anni.

La mia piccola anima innocente da bambina era colma di assenza, malinconia, nostalgia mixata a rabbia, delusione, rimprovero per me stessa e quel che la circondava. Udiva ancora le risate dei due piccoli bambini giovani e spensierati correre sotto il London Eye, sporcarsi mentre gli ambulanti offrivano del cibo, confondersi tra la miriade di turisti di ogni nazionalità. Provavo gelosia per quella cittadina, tanto grande e famosa da ammirare con il fiato sospeso, talmente bella che doveva essere mia, e di nessun'altro.
Poggiai la mano sulla scrivania e un flashback si riprodusse:

«Papà! Papà! Papà!», gridavo entusiasta a trentadue denti.

«Che c'è, piccola?», era il modo del padre di chiamare la figlia in maniera affettuosa. Aveva sempre saputo della sua forza e aveva sempre creduto nelle sue capacità.

«Ci sono Jane e Kevin qui fuori!! Posso andare, vero?», lo pregavo con voce stridula. Non corrispondeva al mio carattere.

«Hey, attento ai fogl-», l'uomo sospirò, vedendo i suoi preziosi documenti al suolo.

«Scusa, papà», mormorai mortificata in risposta, seriamente mortificato. La pelle più ruvida del Signor Stevens scivolò sul legno mogano su cui stava lavorando.

Lo superai nel recuperare quel che aveva combinato, risanai il suo senso di colpa in un abbraccio. Lo strinsi forte, petto contro petto, cuore contro cuore.

«Papà?».

«Sì?».

«Ora posso andare da Jane e Kevin?», misi immediata il broncio e congiunsi le mani.

Lui sorrise, scuotendo la testa.

«Certo che puoi. Ti raggiungo appena posso».

La piccoletta che era in me si fiondò sulla porta ma mi bloccai di spalle. Mi voltai, quasi volessi accertarmi che lui fosse ancora là.

«Papà?».

«Sì, Hayra?», riprese posto, mettendo mani sui importanti fogli ma mi guardò dritto nelle palle degli occhi.

«Ti voglio bene».

Un sorriso increspò le labbra del genitore.

«Anch'io te ne voglio e vorrò per sempre, tesoro. Ora vai».

Terminato il flashback, spostai la mano dalla scrivania, lasciandola scivolare fuori e rimanendone così l'impronta. Era lo stesso luogo dove anni fa ara avvenuto quel ricordo che mi aveva accolto come una doccia gelata in pieno inverno. Mi ripresi, sbattendo le palpebre dalla trance che l'aveva stregato per una manciata di soli secondi.

Gli avrei voluto dire così tante cose, ma non ci sono mai riuscita.
A volte mi dimenticavo di questa realtà. Vedevo i volti sorridenti delle persone che parlavano dei loro genitori, dei loro programmi, delle feste e dei compleanni, degli anniversari.
Avevo perso le speranze di vederlo spuntare da qualche parte con le braccia aperte e ripulito.
E quando capivo che non sarebbe venuto mai per me, per dirmi che sarebbe andato tutto bene, provai un minimo di amore per me stessa nel ripetermelo da sola.
Sentivo la sua mancanza dentro le vene, mi mancava anche se non lo facevo vedere, la seconda persona che volevo mi crescesse. Mi mancava tanto. E io... non potevo fare niente.
Non potevo curarlo allora e non potevo curarlo dopo.
Mi mancava quando fingeva di essere al pieno delle forze quando in realtà era distrutto dalla stanchezza e quindi fingeva. Fingeva perché sapeva che io avrei insistito per portarlo a letto, ma non ero ancora abbastanza forte per sostenere il suo peso. Continuavo a fingere, non era cambiato poi tanto da quel punto di vista.
Mi mancava avere la famiglia felice, quella che tutti dovrebbero avere.
Odiavo quelle sedie vuote a tavola.
Sognavo che un giorno avrei sentito la sua voce, roca ma non troppo parlarmi con gentilezza e pentimento, ma... non me la ricordavo più.

Mi passai le mani sui capelli.
Doveva restare, doveva rimanere con me.
Se mi voleva bene come diceva, perché cazzo se n'è andato?
Perché anche lui?

Sollevai il suo corpo infreddolito che si strinse a me in cerca di protezione e calore, mentre caricai il suo peso su di me. Lo sorressi con un braccio attorno al mio collo, mentre lui era semi cosciente.

Entrai usando le chiavi con cautela.
Non volevo svegliare nessuno, perciò prestai attenzione a compiere passi non impacciati.

Lo buttai a peso morto sul divano e rimasi a puntarlo dormire pesantemente.
Tastai le mie tasche, ammirai una vecchia foto ritraente noi quattro sotto l'albero di natale.

Una lacrima calda scivolò accidentalmente, ma la reprimetti, cacciandola via.
Nell'altra tasca presi il mio telefono, le mie Airpods e mi cullai sotto le note di The end di Pearl Jam.

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora