35. Lasciami

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«LASCIAMI!».

Si dimenava mio fratello, cercando di sfuggire alla mia forza fisica che sovrastava la sua.
Nonostante fosse un maschio, ero ancora io la più forte.
Certo, sarebbe stata solo questione di tempo prima che potesse superarmi, ma fino ad allora non avrei lasciato che diventasse il mostro che la società imponeva diventasse.

«HAYRA!!».

Il suo corpo, non più tanto piccolo da tenere tra le braccia e da abbeverare o da distrarre con un carillon, si dimenava da me.
Mi temeva, ma voleva incutermi paura.

Quegli occhi rossi, quella grinta, quella faccia rabbiosa che reggeva il mio sguardo mi ricordava che non era più il Fred che conoscevo.

Quelle maledette pasticche, quelle siringhe, quelle canne mi stavano strappando davanti ai miei occhi la persona più importante, una delle poche che mi rimanevano.

Continuavo a guardarlo mentre continuava a volermi impaurire.
Aveva una forza fisica notevole, non si stancava, non si fermava un attimo.

Io però non riuscivo a smetterla di guardarlo nel modo in cui fin da subito mi era entrato nel cuore, quel giorno in cui nacque nell'ottobre di quindici anni fa.

Si batteva per la libertà.

Si batteva perché il suo organismo aveva bisogno di quella droga che lo faceva sentire invincibile e che invecek indeboliva psicologicamente e più.

Lo strattonai a malincuore per mantenerlo fermo.
Il suo cuore batteva all'impazzata, all'unisono con il mio.
Il suo petto si alzava e abbassava, le gambe non erano sincronizzate, così come le sue parole e i suoi movimenti.

Lo trattenni forte a me, come a non volerlo fare scappare.
Ed era vero.

Non volevo se ne andasse.

«LASCIAMI ANDARE!».

La sua voce era sull'orlo di crollare.
Io ero già in un fiume di lacrime che lui non avrebbe ricordato.
Corrucciai le labbra, lasciando che l'acqua amara solcasse le mie guance e si infrangesse sui vestiti.

Ragione per cui mi ero chiusa a chiave e mi ero imposta di non farmi sentire.
L'unica voce che era ben udibile anche da kilometri di distanza era quella di Fred.

Avrei voluto infuriarmi, prima c'ero quasi riuscita.
Eppure non ne avevo lo stimolo per farlo.

Lo guardai mentre, con gli occhi chiusi, si era addormentato sopra le mie gambe.
Intrecciai le mani nei suoi capelli, percorrendo persino il cuoio capelluto.

Avrei voluto gridargli contro, ma era diverso.
Non era mia madre, era mio fratello.
Era una questione diversa.

Nonostante tutto, sapevo che sarei rimasta legata a lui cazzate o no a separarci.

Sarebbe arrivata anche per lui quella fase di confusione, quella di cui provavo più paura.
E infatti, quando si presentò, fui talmente circa da non darle peso.

Me ne pentii.
Fino all'ultima goccia di rimprovero nei miei confronti.

Però non si torna indietro.

Quel che è fatto, è fatto.

Mi concentrai sul viso angelico dell'adolescente che pesava davvero tanto, ma per cui provavo sollievo nel saperlo con me e non in giro.

Da egoisti possessivi forse, io la vedevo solo come volerlo proteggerlo.

Non sarei stata io l'unica e sola, sapevo che sarebbe arrivato il momento di lasciarlo andare, ma preferivo rinnegarlo.

La verità è che il tempo passa e noi nemmeno ce ne rendiamo conto perché siamo abituati a lamentarci di quel che si ha.
Quando si aggiunge qualcosa di nuovo, è di nuovo vecchio, da buttare.
Fino a quando poi ci si rende conto che il vecchio non è per forza brutto.

Perché, alla fine, si torna sempre dove si è stati bene.

Per quanto ci provassi, mi era impossibile lasciarlo.

Iniziava ad essere grande, quasi più alto di me, ma per qualche strana stregoneria per me rimaneva il neonato che aveva imparato a camminare e a parlare con il mio aiuto.

Io e lui contro il mondo, da sempre.

Gli sbottonai la camicia, controllai per prima le braccia, poi le gambe.
Il suo polso era debole, aveva scaricato ogni energia ed era crollato.

Un senso di preoccupazione mi pervase, sempre se mi avesse mai mantenuto in pace una volta tanto, immaginando cosa sarebbe potuto accadere se non fosse tornato a casa.
Se non ci fossi stata io.
Se la situazione avesse preso una direzione diversa.

Lo cambiai con un pigiama pulito che avevo lavato per calmare la mia ansia nell'attesa del suo ritorno e mi fermai a guardarlo.

Sorrisi appena.

«Non importa quello che farai, per me sarai sempre il mio Fred», gli sussurrai.

Mi ero azzardata a dirlo, mi ero peccata di un peccato grosso.

Non me ne Importava.

Gli scoccai un bacio sulla fronte, lo sollevai con fatica e spostai le lenzuola per farlo entrare dentro.
Gli rimboccai le coperte perché ricordo quando mi diceva che, nonostante i quadranta gradi, non si sa mai se per caso sarebbe entrato un ladro cosa avrebbe fatto.

Che strana la psiche umana: non fa altro che illudersi.
Si mostra intelligente ma dà continue prove di stupidità.
Sai bene che, se qualcuno sarebbe dovuto entrare, ti avrebbe visto comunque e ti avrebbe tolto qualunque cosa avessi a coprirti.
Non era uno scudo, ma veniva fatto comunque a costo di sudare.

Gli baciai due volte la guancia, dopo tanto tempo.

"Sono troppo grande, smettila di baciarmi così tante volte. Mi imbarazzi", mi aveva detto.

Sistemai due cuscini, uno a sinistra e uno a destra, in caso dovesse muoversi troppo in preda ad ogni sostanza stupefacente assunta (anche se cadere dal letto e cadere non gli avrebbe di certo fatto male).

Sorrisi scuotendo la testa e lasciai una lettera sul comodino.

"Domani signorino ti staccherò la testa e ci giocherò a calcio. Preparati a riempirti di Oki già in mattinata. Non la passerai liscia. E se proverai a scappare dalla finestra, ci ho messo le sbarre. Nah, non sono pazza. Solo, ti voglio talmente bene da volerti morto❤️".

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora