45. No è no

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«E beh? Dov'è il problema?».

Lei portò le mani davanti alla faccia e scoppiò a piangere.
Singhiozzava, e la gente attorno a noi guardava me in maniera famelica.

«Blue... hey, scusami... non... non volevo farti del male. Ho detto qualcosa di sbagliato? Io... non volevo».

Mi fermò all'istante con un gesto della mano.
Mi sorrise felice, era commossa.

«Perché non sei come gli altri?».

«Io-».

«Certo, fai errori come tutti. Ma perché tu sei così rara? Sì, rara. Fanno tanto i moralisti, dicendo di accettare la LGBT + comunity, dicendo che "fino a che non vengo importunato va bene" e poi sono i primi che "potete andare da un altra parte? Ci sono bambini qui. Come lo spiego"?.

«Blue.. io non posso capire quello che stai passando ma, seguendo il mio ragionamento, se è amore non vedo perché dovrebbe essere il problema. Cioè, dovremmo preoccuparci del male che ci assorbiamo accorgendocene o meno e non di questa "diversità". Davvero, in questo secolo, si parla di anormalità? Ma non devi stupirtene. Gli uomini bianchi etero non possono capire. Mi chiedo cosa sarebbe accaduto in un mondo parallelo, là dove io sono quella etero in un mondo di omosessuali. Non spreco parole per questo argomento, ama chi vuoi. Tanto, per giudicarci, se vogliono, troveranno il modo. Per qualunque cosa, io ci sono. Voglio solo scusarmi a nome delle persone incommentabili che mi dispiace molto per ogni discriminazione che stai ricevendo. Non lasciarti condizionare da loro, ama sul serio chi vuoi, dove vuoi e senza paura. Se hai bisogno di un appoggio, sai dove trovarmi».

A passo svelto mi congedai dalla secondogenita della famiglia Cohen.

Sorpassai il Tamigi e mi affrettai a prendere un taxi.
In attesa di qualcuno che potesse darmi un passaggio, non potei non reagire ai fischi di ragazzi idioti.
Con il mio bellissimo ed emozionante dito medio, li zittii.

Non credevo fosse così facile, solitamente non lo era.

Raggiunta la meta, con la spesa che avevo fatto poco prima, iniziai a poggiare ogni busta di plastica e ad apparecchiare.

«Hayra, volevo... scusarmi, abbiamo ricominciato male», si scusò Chase, dal nulla.

Non ero tanto convinta, ma quel giorno ero in vena di positività e quindi accettai.

«Ti aiuto», si offrì.

«No, posso fare da sola», insistii.

«Non fare l'orgogliosa, lasci che-».

«Ho detto no. So farlo da sola».

Niente di personale, la testardaggine era parte del mio carattere.
Lo era anche l'essere permalosa ma non lo avrei mai detto a voce alta, tanto meno ai quattro venti.

«Certo che tu e mio fratello fareste una coppia perfetta», sputò ironico alzando le mani in segno di resa, per poi lasciarmi sola come desideravo.

Ignorai prontamente la frase che mi veniva ripetuta di continuo e iniziai a sistemare la tavola.
La rabbia di quell'espressione usata mi fece accatastare i bicchieri di fretta solo per il gusto di distruggerli e ricominciare per calmare.

Piatti puliti, tovaglioli, posate come specchi, bicchieri di vino e acqua per me erano serviti.

Mancava solo la cena.

Bussai alla porta di Fred, stava studiando.

«Hey, tra un quarto d'ora la cena è pronta. E vedi di non ammalarti improvvisamente domani, ho il colloquio con i tuoi cari professori».

Il suo sorrisino timido mi fece capire quanto fosse agitato, così sbirciai il suo quaderno di matematica.

«Quello è negativo», gli indicai, avvicinandomi alla porta.

«E se dovesse andare male? Domani, intendo».

«Sono sicura che non andrà così male. Vero, Freddie?».

Spalancò gli occhi e fece bene.
Quando lo chiamavo "Freddie" era peggio di "Fredrick".
Il traduttore di sorelle maggiori dice: "Fà che vada bene o ti stacco braccia e gambe, le butto ovunque in ordine sparso e te le faccio cercare per come puoi".

Lui mi sorrise falsamente e tornò a guardare la pagina per metà riempita.

«Hey, ma andava bene! Era positivo!».

«Ciao!», gli feci la linguaccia e scesi di fretta le scale.

Dovevo svolgere i miei lavoretti o sarei stata buttata fuori da questa casa.
Io sapevo arrangiarmi, ma se l'ambiente aiutava Fred, questo e altro.

Preparai qualcosa alla svelta, una pizza italiana fatta in casa.
Avevo la faccia, i capelli, gli abiti bianchi di farina e proiettai i miei piani futuri all'ennesima doccia della giornata.

Faceva piuttosto caldo in quel periodo, perciò era di routine volersi lasciare invadere di acqua gelida.

Portavo rispetto per le mie origini italiane, anche se - di italiano - sapevo solo "ciao", "buongiorno", "prego".

Terminata la cena, ero rimasta solo io.
Ero tranquilla quando si parlava di silenzio.

Da piccola ero proprio sbadata, ne combinavo di tutti i colori.
Una volta avevo infilato il gatto nel forno perché mi avevano letto sul giornale che ai gatti piaceva il caldo.

Povero gatto, se ci ripenso ancora mi sento in colpa...
Stava bene, eh, quando lo hanno tirato fuori...
Cioè... era vivo.
Non so come, ma era vivo.

Parlando del diavolo, una parte della tovaglia era troppo lunga e accidentalmente poggiai le scarpe sopra.

Vorrei poter tirarmela e dire che, in quel momento, il principe dei miei sogni mi aveva preso in tempo.
Ero stata chiaramente salvata, caduta tra le braccia del mio primo amore che mi avrebbe portato nel suo castello incantato dove sarei stata una reale con figli da crescere senza problemi economici.

Triste realtà: caddi a peso morto sul pavimento e feci cadere gli ultimi bicchieri che erano rimasti.

La avrei pagata cara.

Toccai il punto dolente che era sotto la maglia;
Alzai fino al seno quest'ultima, per controllare cosa mi fossi fatta.
Perdevo sangue, sangue mischiato alla farina di prima.

Ero una specie di Cenerentola in una versione del Gobbo di Notredame.

«Metti a posto», mi tese la mano Ash, ringhiando.

Osservai le vene sporgenti sul suo braccio bianco scuro rispetto a me.
Il suo sguardo era impassibile, il ciuffo copriva una parte della visuale.

Prima di morire, mio nonno mi disse:
"Per salvare te, devi affondare qualcun'altro".

Non esitai.
Mi afferrai prontamente a lui, sfiorai il tatuaggio che aveva sul polso e i suoi occhi castani brillarono come uno dei filtri di Instagram che avevo intravisto la sera prima.

Feci leva sul mio peso, mi affidai a lui concedendogli di potermi avere per un amaro attimo.

Gli sorrisi, mostrando le mie fossette che più volte aveva sfiorato.

Con una mano che premeva il punto delicato che faceva male, con l'altra mantenevo il contatto fisico con lui.

Il suo sguardo mi inebriava, mi accecava, non mi faceva vedere il sole nonostante non ci fossero nuvole, neve o nebbia d'intralcio.

Tracciai i lineamenti della sua lanterna disegnata e lo vidi socchiudere gli occhi in un respiro flebile.

Era il mio momento e non me lo sarei lasciato scappare per tutto l'oro del mondo.

Lo spinsi a fondo, buttandolo dov'ero caduta io in basso.

«Lo sai: non devi toccarmi», pronunciai ferma.

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora