69. Perché soltanto tu riesci a zittirmi

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Percepivo dei rumori attorno a me, ma ero troppo pigra per alzare la testa.
Questa, infatti, mi stava per scoppiare e sembrava che niente potesse rimediare.

Aprii un solo occhio, trovandomi come prima vista il soffitto bianco sopra di me.

Avevo le lenzuola candide e profumate sul mio corpo ad avermi coperta durante la nottata, ma non ricordavo di essermi spolta.
A dire il vero, non ricordavo niente.

Una serie di immagini si riproducevano sfuocate e confuse, senza completarne il senso.
Andavano troppo veloci e non riuscivo a stare loro dietro.

Cautamente, mi strofinai gli occhi e mi tirai lentamente su.
Invano, perché una fitta lancinante allo stomaco mi fece piegare in due dal senso di nausea che avevo.

Raccolsi i miei capelli in tempo per lasciare un ricordino sul pavimento.
In sobbuglio, intontita e pallida, mi pulii la bocca con dei pacchetti di fazzoletti che tenevo per precauzione su un cassetto del comodino.

Con gli occhi ancora gonfi, mi alzai cauta per pulire quel che avevo combinato.
Mentre mi abbassai, un senso di tormento m'investì.

Se in un momento di sconforto come l'uscita di casa di mio fratello mi aveva ridotto così... significava che ero come mio padre?

Tale padre, tale figlia, si dice.

Rabbrividendo alla sola penosa idea, mi sorressi al letto, ancora vittima del post-sbornia di cui mi ero dimenticata cosa si provasse.

Mi ero ubriacata una sola volta, poiché lo reggevo veramente bene, l'alcol.
Esperienza personale, dato che papà me ne faceva ingoiare a litri per testare la mia resistenza in casi di estremo bisogno da quando avevo circa undici anni...

Ciò equaleva a dire che ci ero andata giù pesante quella volta.

Con le mani passanti sul mio volto per svegliarmi del tutto, mi concentrai solo allora sul busto totalmente nudo di Ash riversato dirimpetto a me.

Mi impanicai, come fosse stata la prima volta.

«Tu... io...no, no, no! Tu non eri ubriaco, vero?».

La sua mascella aveva un profilo segnato e non mi sfuggì la solita fossetta che diede sfocio ad un sorrisetto impertinente.

«VERO?!», alzai la voce, nel panico.

«Anche se fosse, cosa pensi ti cambi?».

Lo guardai sbalordita, non poteva dire sul serio.
Mi legai del tutto i capelli in una coda bassa e frettolosa, mentre mi insultavo mentalmente.

Si scostò dalla parete e si avvicinò lentamente a me.
Con sguardo fiero, azzardò ad infrangere il mio spazio che mi spettava di diritto.
Giunse con la bocca fino all'orecchio, e per una frazione di secondo chiusi gli occhi per interrompere l'impatto visivo.

«O forse il problema è che... non ricordi e vuoi ricordarlo?», sibilò, sensualmente.

Mi irrigidii, scuotendo la testa.
Una folata di vento smosse le tendine colorate, ma non bastò per far sì che prendesse le distanze.

«Rilassati, non ero ubriaco», mi garantì, con una nota di sofferenza.
Mi rilassai in parte, ma un sospiro di sollievo mi tradì.

«Ma...», continuò, «ciò non toglie che io accidentalmente abbia dimenticato il preservativo e ti abbia messo incinta del mio futuro figlio. O preferisci una figlia? O perché no, entrambi? Ti ci vedo bene con la pancia accentuata, i fianchi e il seno largo, le smagliature, gli sbalzi d'umore che hai sempre avuto. Il matrimonio quando lo vuoi fare? Prima o dopo? E i nomi? Sentiamo... dobbiamo dibattere anche su questo? Come possiamo creare una famiglia se non ci sopportiamo?».

Immobilizzata, mi focalizzai sui suoi occhi, per avere conferma che si trattasse della verità e nient'altro della verità.
Persi dei battiti quando il mio sangue arrivò al cervello.

Non poteva essere...
NO, NO, NO!

Mi bagnai le labbra, alla vista delle sue screpolate quanto le mie.
Erano allo stato brado, allo stesso punto di com'erano quelle della sottoscritta.
Tutto combaciava.

La sua risata sincera, non malsana, mi fece ricredere.
Eppure in fondo in fondo mi ereditò un amaro nei meandri del mio organo vitale per eccellenza.

«Avresti dovuto vedere la tua faccia!», mi sbattè in faccia il suo infantile scherzo, a mia nota di pessimo gusto.
Non riuscivo a parlare con lui, ogni qual volta ci provavo, le parole mi morivano allo stroncare della nascita.

«Perché mi guardi in questo modo? Hai sentito che ti ho detto?», si beffò di me, al punto da ricevere un bel ceffone in pieno.
Seppi comunque contenermi, afferrai le mie cose, e mi chiusi in bagno.

Non avevo dimenticato quel che provavo dalla fine delle elementari, ma ormai avevo seppellito quel che sentivo che avrei retto quel segreto con me dentro la tomba.

Ero rimasta paralizzata, ancora, come fossi appena stata colpita da un Pietrificus Totalus.
Rabbrividii nuovamente, quando le mie labbra sentivano freddo con me.
Continuai a rimanere enerme, finché il calore non raggiunse pure i neuroni.

«Ma che diamine di risveglio...», sussurrai, ripensando all'incrocio di quegli occhi bramosi di ghiaccio e fuoco in contemporanea.

Anche in quel momento, nonostante gli anni, le parole mi morirono in gola.
Avrei voluto gridargli contro quanto fosse stato frivolo di cortesia, carente di buon gusto e di tatto data la situazione.
Ma la bocca non mi produceva fiato.

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora