53. Algida Regina Delle Nevi

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Seduta sulla sedia avevo davanti la solita scena di mio padre non cosciente.
Girai in senso orario il cucchiaino dentro un bicchierino di vetro con del caffè amaro, riflettendo su dove avessi esattamente sbagliato.

Ash mi avrebbe portato all'esaurimento nervoso.

Con le mani davanti alla bocca e la mente altrove, pensavo a cosa avessi fatto.

Stavo provando dei... sentimenti per quell'essere.

Ancora una volta mi complimentai.
Complimenti, Hayra, per aver mandato di nuovo a fanculo la tua vita.

Con quella constatazione, compresi che avrei dovuto mantenere le distanze da lui.
Non sarebbe stato facile convincerci, ma non impossibile.

Mio fratello scese le scale ancora in dormiveglia, fino a che non guardò il peso morto sul sofà.

«Sta bene, non so come», gli dissi.

«Me lo hai portato qui...».

«Beh, è quello che volevi e quello che in tanti hanno. Non c'è niente di straordinario».

Inclinò la testa.

«Secondo te è vivo? Respira?».

«Nostro padre è immortale. Se è sopravvissuto a ogni dose di droga e alcol assieme, non morirà di certo ora», risposi distaccata.

«Come ci riesci? Ad essere tanto fredda, dico».

Lo sono diventata con le esperienze, avrei voluto fargli presente.
Quella bambina timida, sciocca, che non contestava le prese in giro, aveva lasciato spazio ad una donna a tutti gli effetti; logorroica, solare, altruista ma anche fredda, diffidente e con la risposta sempre pronta.

Si matura, chi prima e chi dopo, in meglio o in peggio.
È tutto nelle nostre mani.

«Buongiorno, non lo sapevi? Tua sorella è l'Algida regina delle nevi piena d'odio e rancore, non perdona neanche se le porti un diamante di valore. Non capisco come ancora non sia nella transizione totale dell'apatia», quell'idiota del mio coetaneo si immischiò e sentii la rabbia ribollirmi nelle vene.

Mi rendeva bipolare.
Era capace di farmi cambiare umore con le parole e questo potere che esercitava non era positivo.

«Non stavamo parlando con te, per tua informazione. Non è carino spiare le conversazioni altrui», stizzita, gli squadrai solo il basso.

Le sue scarpe si mossero fino ad aggirare il divano, il suono suonava come tacchi in un aula con riscontro ed eco.
Seguii ogni passo anche voltando la testa e mi portò a guardare ancora mio padre.

L'uomo mugugnò qualcosa di incomprensibile e io di impulsività mandai via mio fratello.

«Sono grande ormai! Sono pronto a ogni cazzata che spari!», si difese.

«Non lo metto in dubbio, ma è una cosa tra me e lui. Capisci?».

«No, non capisco!», salì le scale infuriato e sospirai.
Gli adolescenti erano complicati da trattare, anche se lo siamo stati.

Tornai al punto di partenza, guardando con astio il mio fardello.

«Vale anche per te», scandii.

Lui mi sorrise, facendomi scuotere il cuore.

«Per quanto la tua voce dica questo, per quanto le tue labbra dicano questo, io so che non lo vuoi».

«Ma di che stai parlando? Io non ho bisogno di te, sono-».

Il suo interrompere alimentò il mio odio, pregai me stessa di non azzardare altro.

«Abituata? È triste, non dovresti», si toccò i capelli nel vano tentativo di sistemarli.

«Non ho bisogno del tuo parere».

«Lo stai rifacendo», mi mostrò le sue fossette pronunciate con furore.

«Aaaah, perchè sto perdendo tempo con te?», alzai la mano di papà per togliergli la maglia e sperare in una reazione solo ed unicamente per Fred.

«Perché sai che ho ragione, sai che ti ho capita dove nessuno lo ha fatto. Che ti costa ammetterlo, in certe circostanze, sono diventato uomo».

«Uomo? Non farmi ridere. Solo perché indossi una cravatta, uno smocking per ogni ora, non vuol dire tu lo sia. Indosserai le sembianze, ma a me non inganni. Con me non puoi».

«Tu pensala come vuoi, ma hai bisogno di condividere la parte più tenebrosa di te che assorbe involontariamente ogni tuo sentimento e lascia spazio al cervello. Prima o poi ogni tuo neurone scoppierà».

«Progressi. Tu nemmeno ce li hai i neuroni».

«Uhm, stai giocando a fare la simpatica? Sai che ne penso io invece?», osò avvicinarsi a me di troppo, mentre la mia schiena premeva sul bracciolo dell'arredo domestico su cui riposava l'uomo che mi assomigliava esteticamente.
Il suo corpo era vicino che bastava poco per essere sfiorato da me e premeva, premeva, premeva.

Era come quando a letto la persona domina, lui mi stava dominando.
E non potevo essere sottomessa, non da lui.

«Hayra...», un sussurro diverso da quello che Ash stava per compiere, mi fece scattare.
Anche il mio coetaneo ne rimase sorpreso quanto me.
L'ansia era palpabile nei suoi tratti, ma non nei miei.
Forse ero sentimentalmente insensibile sul serio.

Espirò un respiro l'uomo che avevo amato nonostante i suoi errori.
Lo stesso uomo che aveva provato crescerci dopo l'uscita di scena di nostra madre, quello che nell'infanzia era stato assente per lavoro, ma era lo stesso uomo che non aveva saputo combattere il dolore e aveva lasciato il posto a dei figli più fragili e piccoli che appena gli arrivavano a metà altezza.

Toccai la sua fronte, era calda.
Scottava, come scattavo quando Ash mi incastrava in trappola.
Ne fui destabilizzata, di come quella metafora giunse a me.

Afferrai il termometro, ma iniziò già a delirare.
Mi mostrò i suoi occhi scuri di poco, aprendoli con sforzo.

«Mi dispiace... di averti lasciato dopo Katherine», esalò un respiro pieno di sofferenza per la temperatura che saliva e scendeva senza tregua.

Rimasi immobile e rigida a guardarlo, senza pretendere che parlasse una seconda volta.

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora