61. Consapevolezza

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Sbadigliai portando la mano davanti alla bocca.
Mentre bevevo il mio solito caffè mattutino a tavola, mi sistemavo la giacca lilla che avevo per ripararmi dalle temperature drasticamente scese.
Con una coda fatta male sul petto, mi ripetei che avrei dovuto rifarla nuovamente.

Passai le mani su i segni violacei sotto gli occhi e rivolsi un occhiata alla finestra.
Pioveva come di norma, ma il sorriso di inizio turno mi fece tornare la voglia di uscire.

Avevo una settimana di ferie perché avevo lavorato più del dovuto nell'ultimo periodo, così potevo permettermi di dedicarmi a quel che più mi appassionava: la lettura, la scrittura, il volontariato.

Diedi il buongiorno a Fred che mi salutò in un abbraccio.
Lo guardai confusa, da quando aveva iniziato a crescere, non era mai tanto affettuoso soprattutto con me.

«Tutto bene?», chiesi premurosa.

«Sì... io... volevo ringraziarti», si schiarì la voce, guardandosi attorno.

«Per?», domandai per ferire il suo orgoglio.

«Ti sei fatta in quattro per me quando non eri obbligata a farlo e... sei una stronza! Lo sai!».

Risi appena, spingendolo dolcemente via.

«Ti voglio bene anche io, anche se tu non me lo dimostri abbastanza», mi presi gioco di lui.

«Non sorridete, non voglio vedere i vostri denti fino alla mia morte», entrò annoiato Chase, biascicando un "che palle".
Aveva ripreso tra le mani lo studio del padre che lavorava come dentista.

Al mio tre feci un segnale a Fred, il quale sfoggiò il sorriso più lucente di sempre.
Io lo imitai al suo doppio dito medio.

La piccola Amy, oggi di visita, si stava annoiando a morte.
Stava facendo dannare suo fratello, il quale rischiava di esplodere seriamente.
Non ne poteva più, e io non potèi non mostrare la mia riconoscenza alla bambina.

Però avevo un cuore, così mi offrii.

«Amy, come va l'esplorazione della luna?».

«Male, i miei genitori hanno detto che sono troppo piccola».

«Sciocchezze, la luna non è solo quella che vedi in cielo».

La piccola, senza capire, mi si fiondò tra le braccia ed io non persi la facilità di prenderla al volo.

«Allora... ti va di venire con me in un bel posto pieno di persone? Ci sono anziani che hanno bisogno d'aiuto, ma anche tanti bambini della tua età che hanno bisogno di personcine come te. Che ne dici?».

«Sì!! Posso fratellone, vero? VERO?».

La mia nemesi con fare antipatico mi rivolse uno sguardo lampante. Captai il suo segnale come un interprete che non aveva la minima idea di cosa l'altra persona stesse dicendo.

Preferiva impazzire con la sorellina piuttosto che lasciarla a me.

Voleva la guerra? Bene.

«Amy, sai il numero di tua madre a memoria?».

«Certo!», dettò ogni numero lentamente, per ricordarsi come si chiamasse.
Una volta terminato, la donna dietro all'apparecchio telefonico, mi diede il permesso.

Uscii così vittoriosa, senza rivolgere di uno sguardo o di una parola Ash.
Mi sentivo alla grande, stavo avendo la meglio.

Stavo riuscendo ad alzarmi da terra, nonostante i suoi tentativi di abbassarmi a qualche centimetro verso il volo.

Mi ero cambiata in fretta in un qualcosa di comodo, avevo vestito la piccola con il cappotto giallo e degli stivaletti graziosi di gomma.

Facemmo a corsa sotto il diluvio a chi arrivava prima e ritrovai la mia infanzia perduta.
Attimi con lei mi fecero ricordare quella parte di me che, con nonna Pearl, ancora rimaneva ingenua.
Andava a pari con i pensieri della mia età, che non esistevano.

Ero felice, e quella felicità portava il cognome di Cohen.
Peccato che solo il fratello, in quella famiglia, aveva mutato l'idea positiva.
Perché, l'unica cosa che aveva suscitato in me, era un nuvolone nero.

Mi odiai, però.
Mi odiai, perché stavo pensando a lui senza alcuna ragione imminente.
Ne dovevo uscire, non potevo replicare.
Non potevo sbagliare.
Non potevo scegliere la persona che mi aveva tolto il suolo.

***

«Si è addormentata tra le mie braccia, si è divertita molto, mi dispiaceva svegliarla», passai alla mia nemesi la sorella, profondamente dormiente.

Il modo in cui lui studiò la mia forma di guardarlo mi mandò ancora una volta a fuoco.
Rafforzò la stretta sulla futura astronauta, cullandola in maniera affettiva.
Il volto rilassato, concentrato sul primo obbiettivo che non aveva a che fare con sé stesso.

Sarebbe stato un bravissimo padre, un giorno.

«Che vuoi?».

«Perché non le fai vedere come sei davvero?».

«Perché voglio sia pronta a tutto. E poi da quando ti interessa?».

«A me non interessa di te. Interessa di lei. Non farla crescere prima, ha tanto tempo da sfruttare».

«Non ci riesci proprio ad ignorarmi, eh?».

«Tu non ti preoccupare di quello».

«Sei sicura il nostro sia un addio?», mi chiese sfrontato, con quella faccia da sfacciato che avrei voluto calpestare con i tacchi a spillo.

«Sono troppo brava negli addii, lo sai bene», baciai la fronte ad Amy, il quale mi regalò un piccolo sorrisetto nel sonno.
Sotto al respiro di lui, sfiorai malauguratamente la sua mano.
Era fredda, contro la mia calda.

Scattai al suo cospetto, persa di nuovo nei suoi occhi mielati che mi giocavano un brutto scherzo.
Qualcosa, eppure, era cambiato.

Lui era... diverso.

Scottata, ma non sottomessa, me ne andai con una consapevolezza dentro.

Non era più vendetta.
Era ignoto.

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora