47. Non sei stupido

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C'era un tempo in cui odiavo andare a scuola.
Alle elementari, tra il bullismo dei miei compagni di classe che mi schernivano per indossare abiti di seconda mano e per la matematica.

«Possibile che non riesci in un calcolo così facile?», mi ripeteva il maestro.

Io guardavo i numeri.

10 + 15 = ...

Spostavo lo sguardo sull'uomo sulla quarantina che aspettava scrivessi qualcosa.
Volgendo la testa verso la lavagna nera e i quadretti bianchi enormi, quei numeri cambiavano.

Parevano sette, dieci, venti, cinquanta e poi cambiavano.
Ancora e ancora.

I simboli mi facevano perdere le staffe, mi confondevano.
Mantenevo il sangue freddo, mentre una mano si macchiava di gesso bianco che mi irritava la pelle.

Rimanevo impalata, mentre i miei petali appassivano sotto le risatine alle spalle.

«A posto», lo sguardo umiliato del mio insegnante mi fece vergognare fino all'ultimo respiro, anche dopo aver chinato la testa sul banco.

«Sono uno stupido», sentii singhiozzare Fred della sua camera.
Le mani erano strette a pugno, cercava di risolvere un calcolo algebrico.
Non lo invidiai, quella materia scolastica era sempre stata un incubo per me.
Preferivo latino.

Chiamatemi pure un' aliena ma quelle possibili percentuali che individuassi il risultato giusto in infiniti numeri a cui nemmeno sapevo arrivare, mi destabilizzava.

Era il senso di sentirmi non all'altezza, non abbastanza intelligente, probabilmente con qualche malattia o disturbo.

Disturbo.

Quando ebbi tutto più chiaro, i docenti si mostravano più umani ma non esattamente clementi.
Avevo diritto alla calcolatrice, ma di logica non ne avevo.

Il mio era definito come "disturbo", uno di quelli veri e propri che mi pesavano sulle spalle ad ogni occhiataccia o sprono a "dar di più" solo perché "avvantaggiati".

Gli alzai il viso dolcemente e gli asciugai le lacrime.

«Posso?».

Al suo permesso, mi sedetti accanto a lui.

«Che cos'ho che non va? Perché non sono uguale a loro?», pianse, guardandomi con le pupille ingrandite.

«Perché non me ne hai parlato?».

«Avevo paura che non mi potesse capire».

«Non sarò sempre aperta a capirti, perché non sono perfetta e arriveranno tanti di quei momenti in cui sbaglierò. Però voglio dirti che, per me, non sarai mai troppo grande. Non sarai mai troppo grande o troppo "mio fratello" da non poterti supportare».

«Ogni volta che vedo un numero mi sento impotente, come se lui fosse talmente potente da risucchiare ogni mia probabilità di vittoria. Ho studiato, la teoria la so, ma quando vedo un problema, un equazione, una disequazione... vado in tilt. Se mi viene spiegato il procedimento forse riesco a farlo ma se me ne fanno vedere uno diverso con lo stesso svolgimento sono punto e a capo. Io... credo di essere uno scemo».

«No, Fred, non lo sei affatto. Hai solo delle difficoltà ed è normale. Troverai sempre chi ti dirà di non essere perfetto, ma chi lo è? Albert Einstein e tanti altri grandi nella storia hanno fallito dei test, eppure se ne parla ancora oggi. Vedrai che con le giuste compensazioni, piano piano, riuscirai a stare al passo. Per qualunque cosa, parlane con me. Hai capito?».

«Ho proprio la negazione, parto con il presupposto che non mi riuscirà mai. Cioè... come poso lo sguardo su questi quadretti ho l'indigestione peggiore di tutti i tempi».

Io gli sorrisi.

«Sai che cos'ho fatto io quando avevo undici anni? Sono scappata dalla lezione. Volevo rompermi la gamba per avere un pretesto di andarmene via. E sai che cos'ho fatto? Sono corsa di fretta e invece mi sono rotta un dito. Fin qui, non c'è nulla di divertente. Ho raggiunto il bar della scuola, sono inciampata ancora e la signora che era al bancone ha sputato il caffè addosso ad una delle professoresse peggiori dell'istituto. E non è niente».

Soffiò il naso in un fazzoletto e io gli chiusi quaderno e libri per farlo calmare un po'.

«Ti ho raccontato di quella volta in cui eravamo in posa per la foto di classe e un piccione ha pensato di fare i suoi bisogni sulla tua cara professoressa di matematica? Avrei voluto scattare una foto, sarebbe stato grandioso. Avresti sul serio dovuto vedere la sua faccia. Hey, immaginatela così ogni volta che ti metterà sottopressione. E, ad ogni modo, tranquillo. Per il resto ci penso io», gli feci l'occhiolino e la sua stretta in un abbraccio mi fece ritrovare l'amore di cui avevo bisogno.

Gli scompigliai i capelli, in un sorrisino veloce.

«Non lasciare che ti mettano i piedi sotto terra. Un domani, il povero lavorerà per il ricco sbruffone. Fidati», gli baciai la guancia e, dopo aver varcato la soglia tranquilla, mi precipitai in cucina.

Solita routine dietro i forni, tra primi e secondi piatti.
La porta rivelò gli altri miei due coinquilini e automaticamente roteai gli occhi.
Per fortuna un'altra giornata stava finendo.

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora