74. Come hai capito di provare Amore?

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Con la faccia premuta sul suo petto, i capelli a coprirmi fastidiosamente la faccia bagnata da lacrime amare che ormai non scendevano più, le mani di Ash scoprivano la mia schiena come un tesoro nuovo.

Era questa la sua specialità;
Riusciva a trovare un punto unico anche in ciò che già aveva esplorato.

Era in grado di farmi dimenticare quanto mi conoscesse attraverso il suo magico tocco.
Mi estraniava da quello che il mondo realmente era.

In quella situazione, l'ennesimo puzzle di me era stato regalato a tavolino a lui.

«Grazie», mormorai, appena udibile.

Lui non mi rispose, riprendendo a disegnare cerchi piccoli e grandi sulla mia schiena nuda.
Delicato come se io fossi un fiore, aveva un tatto sottile, rispettoso.

Parlava effettivamente meno, di quando io lo avevo conosciuto.
Portava dietro i tratti da bambino vispo ma al tempo stesso la sembianza da uomo.
I capelli scuri, gli indumenti casual, l'assenza totale di unghie e le dita lunghe e fini.

Chiusi gli occhi per un attimo sfuggente, beandomi della sua colonia che aveva invaso i miei vestiti.

La distanza mi aveva lacerato angoli che neanche credevo di possedere.
I vuoti, come tali incolmabili, componevano chi ero.
E per questo mi odiavo, perché non riuscivo a far rimanere chi volessi.

Perché, quando capivo di voler qualcuno, era troppo tardi.

«Stai bene?», gli domandai senza alzare lo sguardo, tanto ero rossa di vergogna.

«Sei davvero strana, tipetta. Sei la prima a stare male, però ti interessi di come stanno gli altri prima di te. Questo lo chiami progresso, per amare chi sei?».

Non aveva torto, ma io proprio non riuscivo ad amarmi.
Ero ancora segnata dei capitoli precedenti e delle parole non riuscivano di certo a "curarmi".
Era più forte di me, influenzare l'umore di chi avevo attorno.
Perché tutte le vite erano importanti per me, tranne la mia.

Non mi ero mai spinta troppo oltre, ma semplicemente avevo questo senso di difesa che mi faceva scattare sull'attenti nell'aiutare qualcuno.
Perché sapevo aiutare, ero davvero brava.
Brava nel salvare tutti, tranne me stessa.

Mi fece alzare la testa verso di lui e prese di fretta un elastico che portavo al polso sinistro.
Non gli chiesi cosa avesse per la testa, le parole non uscivano più perché avevo sprecato abbastanza energie.

Con gesto naturale, creò una coda bassa e fatta male.
Non era per niente carina, e ancora una volta feci per scioglierla.
Non perché non fosse perfetta.

Chi aveva imparato a conoscermi, sapeva che cercavo la perfezione ovunque, ma non in me, nè come primo o secondo luogo, ma bensì ultimo.

«No. Non scioglierla», mi comandò, impulsivo.

«Non mi sento a mio agio».

«È colpa mia», dichiarò ancora, impuntadosi sui miei capelli.

«Non c'entra», lo guardai fuggente.

«Ti ricordo chi ero. Puoi negarlo, e magari mi hai davvero perdonato. E in questa fottuta storia c'è un intreccio assurdo perché ti dò dell'incoerente perché non ti ami, quando nemmeno io mi amo. Sarebbe stato tutto più facile, se solo...se solo ci amassimo».

«Dove vai con quella coda così orribile? Sembri una strega, lo sai? Perché non la sistemi? Sei davvero ridicola in quel modo», mi accusò sotto lo sguardo attento dei compagni che ridevano a crepapelle attorno a me.

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora