70. Quella bicicletta sbandata

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Uscita dal bagno, guardai il ragazzo che continuava a squadrarmi come fosse la prima volta che ci fossimo visti.

«Sei rimasto con me?», domandai, insicura.

«Cosa ti fa pensare che mi fosse andato di perdere tempo con te? Tra noi, l'unica cosa che ci può essere, è sesso», alzò un sopracciglio verso di me e io abbassai lo sguardo.

Lo sapevo, e non era per quello che ci ero rimasta male.
La mia prima notte di passione non era stata con Ash e nemmeno con Kevin.
C'era un ragazzo, un certo Jackson, a cui vendetti anima e corpo.
La media d'età era tarda, se venivano considerati i canoni della società con cui si perdeva la verginità.

Da piccola credevo che la persona con cui sarei andata a letto sarebbe stata sempre mia.

Guardando Ash, asserii che non sempre l'amore si trova subito.
C'è chi lo incontra tardi ma sa cogliere il momento e chi lo coglie troppo tardi.
E poi ci siamo noi, conosciuti troppo presto e destinati a non amarci mai.
Non totalmente, non con ogni forza.

«Io... devo andare a lavoro, sono in ritardo».

«Non credi sia il caso di prendere la macchina? Sono secoli che non ti vedo guidare e hai tra l'altro perso il bus», mi fece presente e ne ottenni conferma guardando l'orologio attaccato al muro.

Mi maledissi, rivolgendo lo sguardo poi alla mia macchina parcheggiata in un angolo da anni e nella stessa posizione.

Lui mi sorrise malvagio, uscendo dalla mia stanza.
Vestendomi con abiti più formali, afferrai le chiavi e mi preparai psicologicamente.
Beh, più o meno.

Chase si stupì, seguendo ogni mio movimento.

«Buongiorno a te. Non fai colazione?», mi salutò.

«Non ho fame e sono di fretta», spalancai la porta e mi avviai fuori dopo aver ricambiato i saluti.
Avevo tralasciato la parte che conduceva alla camera di Fred per non affrontare un buco nel petto.

Avvisai il mio datore di lavoro che sarei arrivata in ritardo a causa di un incidente stradale, mentendo spudoratamente.
Il lavoro mi serviva, per mantenermi economicamente e per tenermi impegnata.
Erano casi eccezionali quando decidevo di avere il giorno libero, ferie incluse.

Sospirai pesantemente, inserendo le chiavi nell'apposito spazio.
Aggirai il volante con le mani e puntai gli occhi sullo specchietto che mi inquadrava.
Toccai la retromarcia, sospirando ancora.

La pelle d'oca invase ogni angolo della mia pelle, al primo movimento che l'automobile eseguì.
Sudai freddo e poi caldo, poi caldo e di nuovo freddo.

Il respiro si appesantì, gli occhi spalancati, l'ansia che mi stava risucchiando tutta in una volta.
Non ce la facevo, non ci riuscivo.

Il suono di un campanello destò la mia attenzione, facendomi abbassare il finestrino.

«Non ricordo la strada per andare al tuo cazzo di locale, ho fame e non mi va proprio di condividere la cucina con quel fratellastro che mi ritrovo. Potrei usare un navigatore, ma la bici non lo ha. Perciò, avanti e non farmi perdere la pazienza. Sei la mia unica soluzione. Sali e guidami», mi studiò nuovamente, cogliendo la mia agitazione.

«Muoviti», mi richiamò, facendomi cenno di salire sulla sua bicicletta.
Era nera, alta, di marca.
Poteva permettersi molto di meglio con i soldi che aveva, ma non accettava uno spicciolo dai ricchi genitori conosciuti in tutta Inghilterra.

Amava l'adrenalina, le moto, ma niente superava la sua bicicletta.
C'era da sempre, doveva avere parecchi anni, ma la sua altezza elevata gli aveva permesso fin da piccolo di potersela permettere e poi non era più cresciuto, forse neanche mentalmente.
Dall'alto del suo un metro e ottanta o poco più, d'altronde, non ci si può aspettare altro.

Mi faceva innervosire quando, con quello stesso "trabiccolo", mi girava attorno in cerchio più volte, fino a farmi girare la testa oltre che a qualcos'altro che nemmeno avevo.

Come un girone dell'inferno, da bambino si divertiva a non darmi tregua.
Anche quando gli urlavo di lasciarmi in pace, che ne avevo abbastanza di lui e delle sue prese in giro che mi facevano odiare la scuola, anche se la preferivo alle mura domestiche.

«Allora ti muovi o no?», spazientito, mi ringhiò contro.

Io annuii e, scesa, mi posizionai dietro.
Mi appoggiai alla sua schiena, stringendolo forte.
Stava godendo, si stava approfonditando dei miei punti deboli e ne ero consapevole.

Era ridicolo, eravamo tornati a quegli anni con una semplice abitudine.

Con il vento che mi muoveva i capelli, con il mio petto e la schiena incuervata, ero meno intimorita se c'era lui.

Perché lui era la chiave che dava accesso al mio cuore, in negativo e in positivo.
Tutto riconduceva a lui, perché nel bene e nel male, c'era sempre stato.

Un viaggio scosceso con le strade perfette londinesi e qualche semaforo che segnava il classico traffico dovuto, tra l'altro, a turisti stranieri che ancora non avevano capito come funzionasse la guida dalle nostre parti.

Mi permettè così di osservarlo di nascosto, anche se invano.
Era bello, cazzo.
Concentrato sull'obiettivo di giungere, con la sua calma apparente nonostante i clacson impazienti che lo mandavano a quel paese perché non rispettava le piste ciclabili e qualche ciuffo sulla fronte.

Il profumo di menta, da quella prospettiva là, si sentiva ancora di più.
Mi destabilizzava e mi piaceva.
Ne ero dipendente al punto da avergli rubato un profumo e due e di tenerli tutt'ora in un angolo che non scoprirà mai.

La sua giacca di pelle scopriva la sua camicetta, il suo collo con qualche mio segno sopra, e le sue labbra serrate ma non più screpolate dal freddo.

Feci scendere la mano sul suo busto e lo vidi opporre resistenza.
Sorrisi appena, nel provocarlo.
Oltre a leggere le insegne stradali, sapeva cogliere i miei richiami silenziosi privi di parole.

Perché noi, con gli occhi, sapevamo comunicare.
E non sapete quanti dibattiti abbiamo avuto all'oscuro dei baci volgari di chi si teneva per mano.
Con la nostra complicità e chimica, bastavano due occhi marroni per essere di proprietà dell'altro.

Ero sua e lui era mio, in una relazione non amorosa ufficiale.
Ero una donna libera, ma avevo accurato che il filo di Arianna e Teseo era anche il nostro.

La leggenda giapponese del filo rosso aveva avuto la meglio in qualche storia, e la nostra l'aveva indovinata.

Cuore contro cuore, freddo contro caldo, mi aveva salvata dal nostro che c'era in me in auto.
Non aveva atteso un ringraziamento, nonostante il suo catterino.
Sapeva che non lo avrei ringraziato.

Il fatto era che lo aveva fatto comunque.

Quella bicicletta sbandata era stata da testimone di un amore immaturo rispetto agli altri, ma più aggressivo.

Nel silenzio, la nostra condanna era stata scritta ed entrambi l'avevamo letta.

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora