34. Ho sbagliato

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Era come se tutto si fosse mescolato dentro creando una reazione chimica distruttiva.
L'aria era nociva, la polvere mi entrava negli occhi.
Appena rientrai in casa, Ash mi si parò davanti.

«Non farai entrare di certo uno sconosciuto in casa mia», indicò Noah con sguardo accusatorio.

«Casa tua, intanto, è casa nostra; non sei l'unico a pagare il mutuo e i soldi che ho li guadagno regolarmente. Casa mia, porto chi voglio. Casa tua, porti chi ti pare», misi in chiaro.

«Uh, te le ha cantate bene, amico».

Ash serrò la mascella.

«Si può sapere chi diamine sei per chiamarmi "amico"?», gli ringhiò contro.

«Pace e amore, Ash. Rilassati».

«Come sa il mio nome, Hayra?».

«Oh andiamo, perché nessuno mi riconosce? Avanti, siete ciechi? Non sono cambiato così tanto!».

«Cazzo, Noah! Sei davvero tu?!», gli diede una pacca sulla spalla facendolo accomodare.
Mugugnai qualcosa di negativo verso il mio coinquilino ed entrai anch'io dopo aver risposto giacca e il resto al proprio posto.

«Allora, che mi racconti?».

«Un postaccio... l'Africa è davvero povera, ho visto cose che non vi potete immaginare. Malattie prese come si respira l'aria, morti, assenza di cibo e acqua tutto tranne potabile, feriti non curati, sangue, sangue e ancora sangue».

Mi alzai per prepararmi un thè.
Dalla cucina potevo udire la loro conversazione dove andasse a parare.

«Sei stato coraggioso, hai avuto le palle di affrontare una cosa più grande di noi. Il tuo gemello come sta?».

«Non ricordi ancora il suo nome? Sei impossibile! Te lo avrò ripetuto non so quante volte!».

Le guance di lui presero un colorito di imbarazzo, mascherato con qualche tocco di tosse falso.

«Sta bene, alle prese con il lavoro. Tu invece?».

Gli offrii del thè caldo che sapevo non avrebbe rifiutato.
Era il suo preferito, non ne faceva a meno.
Mi sorrise ed io ricambiai.

«Vi vedo alla grande, ragazzi», ci guardò di sottecchi e io guardai male Ash.

«Non glielo hai detto?!», sclerai.

«Sei incinta?», curiosò il mio amico.

«COSA?! NO!».

Quando Jane serviva non c'era mai.
Un dato di fatto approvato innumerevoli volte.
Mi aveva accennato una certa uscita con un ragazzo carino che presto mi avrebbe presentato.

«Io e lei non stiamo più insieme. Capito? Io, lei: finito. Smettetela di chiederlo tutti, okay?! Cazzi nostri!».

«Wo wo, abbassa i toni. Non volevo scomodarti, era solo una teoria. Dovevo averlo capito, d'altronde passavate le ore a litigare nemmeno foste una vecchia coppia di sposi ultra novantenne. Nonostante questo, vi vedo davvero bene. È un piacere rivedervi».

Sorseggiai dalla mia tazzina, mentre Ash iniziò la conversazione sul calcio.
Non ho mai eccelso in un educazione fisica, nemmeno alle superiori finché le ho frequentate.
Non avevo grandi riflessi nè voglia.
Il calcio, soprattutto, l'ho sempre visto come una grandissima perdita di tempo.
Parere personale, prima che possiate dire qualunque cosa contro di me: dei coglioni che rincorrono una palla, che fingono falli, che collaborano tra compagni di squadra come collettività e che al di fuori neanche conoscono i propri nomi, che si montano la testa per due goal e che fanno scenate per mettersi in mostra in mondo visione.

Davvero meritano di essere gli idoli dei bambini al di sopra dei medici?
Davvero meritano i miliardi?

Mi assentai per la durata di qualunque cosa stessero parlando, il fuori gioco o qualcosa del genere.
Optai per chiamare Fred che ancora non era a casa.

«Hey, si può sapere dove sei? Sono le sette di sera?».

«Non mi rompere! Sto tornando!».

Gli riattaccai in faccia, portando il cellulare vicino al viso.
Presi un respiro profondo per evitare di arrabbiarmi e attesi la cosiddetta "resa dei conti".
Dovevo soltanto mantenermi lucida.

Una volta salutato Ash, solo una mezz'oretta dopo si presentò mio fratello.

«Dammi il telefono».

«No».

«Ho detto: dammi il telefono».

Avevo ancora il vestito elegante addosso e qualche filo di mascara sulle ciglia.
I capelli erano morbidi e piastrati sulle punte.

«Tu puoi uscire dove, quando e con chi ti pare e io no?».

«Esatto».

«Non è giusto!».

«Alla mia età farai quel che vorrai, ma finché vivrai sotto questo tetto non continuerai di questo passo. Non lo permetterò».

Lo guardai scura in volto negli occhi: erano arrossati.
Una morsa allo stomaco mi immobilizzò.

«Dai, lasciarmi andare!».

Non reagii e lui mi scanzò in fretta, sfiorandomi la spalla.
Me lo aveva confidato, era stato sincero con me.

Era colpa mia, solo mia.

Me ne aveva parlato, non l'ho seguito, non ci sono stata.
Ci era caduto, ancora.

Ed io lo avevo trascurato.

Occhi indiscreti mi facevano i raggi X al punto da innervosirmi solo e soltanto con lui.

«Che hai da guardare?», gli urlai contro e salii in fretta le scale.

Lo avevo lasciato solo per dei giorni credendo di fargli del bene, e invece avevo ottenuto il contrario.
Avevo fatto sì che quel che avevo creato nel corso degli anni fosse andato perduto.
Forse avevano ragione chi mi criticava non abbastanza, forse avevano ragione loro che dicevano di avere esperienza.

Non ci avevo capito niente.

Avevo sottovalutato la questione.

E avevo perso anche mio fratello.

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora