71. Non toccarmi

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Sotto la luce fioca dei primi lampioni accesi e con il calare della notte sulla nostra cara capitale inglese, passeggiavo per il semplice gusto di farlo.

Mi piaceva mantenermi al passo, rimanere attiva, piuttosto che marcire su un divano, lamentarmi di non aver goduto niente dalla vita senza neanche averci provato per fatica.

Tuttavia, il pensiero di mio fratello lontano da me era un eterno girone dantesco di cui avrei peccato aldilà della morte.

Quel piccolo ometto che stava crescendo a dismisura scandiva le mie giornate, era parte integrante della mia quotidianità, ora stravolta.

Ash era silenzioso.
Mi aveva detto che doveva fare un giro, ma io avevo capito che voleva semplicemente tenermi d'occhio.

Era un gesto che apprezzavo, ma che ugualmente mi mandava in encandescenza.
Ero perfettamente in grado di badare a me stessa da sola, senza il suo aiuto.
Anche perché non poteva fare molto, se non niente.

Era antipatico, troppo silente, ed io troppo logorroica per i suoi gusti.
La cosa peggiore era che io sapevo il motivo per cui mi confrontavo a lui.
Non era per noia, ma era una fondata coscienza che approvava quel che sapevo da tempo.

Era timido sotto certi aspetti e non gli si addiceva, poiché  ero abituato al vero Ash.
Quel bambino che giocava a "guardia e ladri" al parco, quello che faceva l'esibizionista su quella bicicletta che mi ero ripromessa avrei bucato le ruote quando mi girava attorno con l'intento di infastidirmi.

Ricordai anche quando riusciva a fischiare in maniera strana con le mani e di quanto io ci avessi provato senza esito soddisfacente.

Dalla parte opposta rispetto alla mia strada, camminava calciando di tanto in tanto i sassolini che gli sbarravano il passo, segno di voler togliere ogni ostacolo lo potesse fermare.

Altro punto a sfavore che mi riconduceva alla realtà; lui si concentrava nell'escludere eventuali dilemmi, al punto da riuscirci.
A me, invece, risultava spontaneo farlo.

Se lui avesse dovuto condividere una fetta di me, avrebbe accurato ogni fetta della mia oscurità.
Il nero avvolge ogni individuo, ed è un dato di fatto.
Ma, la mia personalità, era appena in piedi.

Se lui si fosse soltanto avvicinato, avrebbe potuto buttarmi giù come il vento fa con le foglie.
Avrebbe potuto spogliarmi di ogni ramo, o decidere di procurarsi come nido per assestare le mie molteplici ferite.

In una relazione, malauguramente per certi punti di vista, si è in due.
Se uno dei soggetti cade, è chiaro che l'altro lo segua.
Io, nonostante tutto, non ero cattiva di cuore.
Quella bontà, quel piccolo desiderio di vederlo davvero realizzato, superava il mio egoismo verso un caos più gradibile ma meno ordinario.

Volevo fosse stabile, ma senza di me.
Perché lui poteva riuscirci, non aveva bisogno di una mano in più perché, solitamente, è proprio colei che ti abbatte.

Un pianto isterico mi fece riconnottere alla realtà: il mio sguardo attento scatto ad una figura veloce poco distante da noi.

Incappucciata, sotto le nuvole che coprivano un cielo stranamente sereno di una via poco frequentata che però conduceva nella nostra casetta, qualcuno stava lasciando qualcun'altro sul ciglio della strada.

Non ci fu razionalità in quel lampo di azione; corsi immediatamente sotto le foglie spezzate e bagnate, facendo risuonare il suolo dei miei stivali sul terreno.
Spedita, mi affrettai a raggiungere la creaturina avvolta in un panno all'interno di un misero cestino ornato da un solo fiocco azzurro.

Il neonato si dimenava piangendo sommessamente, mentre guardavo la sua, credo genet rice, allontanarsi a corsa da lui senza più voltarsi.

Crack.
Fu niente di meno del mio cuore che si ruppe.
Quest'ultimo batteva forte, mentre liberavo il piccolo superstite da una sorte non benefica con cui si era ingiustamente ritrovato a dover fare i conti.

Un esserino tanto ingenuo e indifeso, davanti ad un enorme prova che si sarebbe ripercossa una volta cresciuto, senza alcun esempio.

Scontrai quei suoi occhi di un grigio-azzurro indefinito, impauriti, annebbiati da qualche lacrima a rigargli le guance.
In un primo momento, non sapevo cosa fare o cosa dire.

Ero semplicemente ferma, sul petto una personcina in più che non pesava poi tanto.
L'unica pesantezza che provavo era interiore.
Non cercai Ash nemmeno con lo sguardo, ma bensì la giovane "madre" che doveva avere qualche anno meno di me, da quanto avevo avuto modo di notare.

«HEY! TU! NOO! NON PUOI LASCIARLO QUI!!!», gridai a pieni polmoni in quella via disabitata, con l'unico econdella mia voce che non venne coperta da tuoni, lampi o pioggia.

Il figlio aveva ripreso a piangere ancora più forte, ciò non contribuì ad un suo ritorno.
Una lacrima scivolò anche sul mio volto e compii qualche passo in più fino alla svolta dell'angolo.

«TORNA INDIETRO! NON PUOI FARLO! NON COSÌ! CAZZO, TI PREGO!», le sbraitai contro, finché non rimasi priva di fiato.
Era scappata via, senza essersi assunta la giusta responsabilità e "lavandosene totalmente le mani".

Strinsi il fagottino al petto, mentre con una mano toglievo il residuo della piccola goccia d'acqua che era traboccata dai miei occhi.

Dovevo metterci una pietra sopra, o non ne sarei seriamente mai uscita.
Non era un processo immediato, poteva richiedere più tempo del previsto, dipendeva di quanto io ne avessi bisogno.

Sarebbe stato più semplice se non avessi mai conosciuto mia madre; non avrei avuto ricordi, ripensamenti, non avrei provato niente per una sconosciuta che non aveva condiviso con me.
Anche con mio padre era lo stesso, ma riuscivo a mettermi nei suoi panni in modo migliore.
Lui si è ritrovato a dover cambiare vita: ha sbagliato con noi, certo, ma era solo sbandato dal dolore di far parte di una famiglia di cui ormai non c'era più niente da fare.
Mentre, realisticamente io, girovagavo tra rabbia e malinconia costanti.

«Shhhh...tesoro, va tutto bene», lo cullai, studiando le sue manine infreddolite, il suo pannolino ancora pulito e la fame che poteva avere.
Non mi sarei incasinata in un affare non mio, non avrei potuto permettere che la mia vita venisse sfasciata e condizionata da un altro componente.
Ciò non significasse che lui non avesse diritto ad una seconda possibilità.

Non lo avrei lasciato lì, quello era poco, ma sicuro.
Per niente al mondo avrei permesso che qualcuno venisse lasciato a sé stesso, nel nulla, a lottare contro il trauma d'abbandono ripercosso ovunque e in ogni senso.

Avevo un senso di maternità sviluppato, ma avevo ancora molta paura.

Tornando indietro, trovai Ash ancora fermo, a squadrarmi.

Non mi domandò come stessi, perché sapeva precedere la mia risposta.
Azzardò ad avvicinarsi, ma mi ritrassi.

«Non mi toccare», lo superai, tentando nel frattempo di riscaldare il piccoletto che già dormiva.
Ero presa dall'enfasi di un momento che avevo reso mio, al punto da non pensare all'aiuto che il mio coetaneo avrebbe dato per aiutare qualcuno in difficoltà.

«Che hai intenzione di fare? Fondare un asilo?».

«Non è divertente», lo ammonii, raggiungendo a piedi - nonostante ci avessimo impiegato più tempo del previsto - ad un ospedale.

Non mi permisi di renderla una persona malvagia, colei che lo aveva abbandonato, perché non avrei mai saputo cosa l'avesse spinta a tale gesto.
Bensì, la odiai.
Usai un sentimento forte per descrivere il disgusto di chi abbandona qualcuno di più fragile, sapendo di non poter dare la vita sperata nè in casa nè abbandonandolo su un marciapiede come se fosse stato un fottuto sacchetto della spazzatura.

Avrebbe trovato metodi alternativi, nel ventunesimo secolo se ne trovano eccome.

Lo lasciammo in custodia, fornii la descrizione della presente madre impressa nella mia mente, compilando qualche modulo e assicurandoci che avesse potuto avere tutto ciò di cui necessitava.

Rimasi qualche ora in aggiunta, giusto per essere certa che venisse visitato e testato in fatto di salute e se si potesse sapere qualcosa dei genitori biologici.
Da quanto avevo udito, però, era già una corsa alla ricerca di adozione.

Lasciai quindi l'edificio con Ash mezzo addormentato - dato che aveva dormito sopra di me per metà notte in sala d'attesa - verso le quattro del mattino.

«Alla fine ti ho toccata», infierì, inserendo le chiavi nella serratura della nostra villetta.

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora