60. Insinuosità

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ASH'S POV

Doveva farsi piccola piccola.
Volevo schiacciarla come un moscerino sotto il mio peso pesante rispetto al suo.
Doveva soffrire.
Doveva cadere in basso, troppo in basso per tornare a galla.

Avrebbe strisciato ai miei piedi, prima o poi.
Faceva parte del mio piano malefico, di vendetta.
Sarebbe stata priva di razionalità.
Le sarebbe stato impedito il dimenticarmi.

L'avrei fatta mia, in ogni senso.

Catturando il dettaglio della porta socchiusa, aveva questo vizio a cui non dava peso, vi entrai.
Piano, la spalancai per sorprenderla magari cambiarsi.
Non mi avrebbe fatto certamente effetto, date le innumerevoli volte in cui l'avevo vista spolta di abiti.

Le insinuosità del suo corpo erano la mia cartina eterna che non avevo bisogno di consultare, la curiosità di vederla sprofondare nell'abbisso di imbarazzo mi spronava a solcare la soglia.

Compii quel passo proibito e mi soffermai davanti alla sua figura snella riversata sul letto mediamente grande per essere singolo.

I suoi occhi non mi rivelavano le iridi ambrate che si schiarivano al sole, poiché chiusi.
Le labbra carnose e grandi erano un invito per me, mi richiamavano continuamente.

Attrazione fisica, chiaramente.

Queste pure erano socchiuse, mi mostravano una parte della sua dentatura.
Le mie orecchie udirono il suo respiro a tratti più pesante, le ciocche di capelli tracciavano il sentiero della sua posizione.
In bilico tra me e la parte opposta alla mia, sfiorai quel tatuaggio significativo.
In pochi si tatuavano qualcosa di realmente significativo, la stellina ritracciata significava che nemmeno il tempo aveva smosso il suo stupido sogno sulle stelle.

Stava perdendo tutto, tranne che quella fiducia in quei astri luminosi idioti.
Perdeva il suo tempo.

Con l'alluce della mano ne seguii i tratti lentamente e mi domandai se aveva portato a termine quella "P" in onore di sua nonna che voleva vicino al collo.
La curiosità di andare oltre i suoi punti che mostrava a chiunque, mi convinse ad andare più giù.

Perché io in fondo non ero gli altri.

Ero la sua nemesi, che più di così non poteva odiare.
Per questo motivo, non potevo essere odiato ancora di più.

Scostai la maglietta che si era dimenticata di togliere invece del pigiama e sorrisi appena nel guardare la lettera delle lettere.
Era stata la sua preferita, insieme alla F.
Associava le persone care a qualcosa di bello, ma non si soffermava - lei, tanto riflessiva - al fatto che non tutto rimaneva come lo avevamo lasciato.

Sul comodino un piccolo carillon mezzo aperto mi mostrava una ballerina rosa, lo sport che aveva praticato fino agli undici anni.
Studiava male a scuola, perché inseguiva ogni impegno.
Tra lo stare dietro ai litigi dei suoi genitori, ai loro baci che considerava belli ma incoerenti, al fratellino non autonomo perché piccolo e le esercitazioni alla sbarra di cui si lamentava con le amiche alle mie spalle.

Portava il peso del mondo sulle sue di spalle, fragili in quanto bambina.
Faceva la dura, ma era delicata.
Era come le stelle che tanto amava, si considerava spenta e a volte luminosa.
Era invece luccicante e buia a intermittenza.

Le mancava qualcosa, le mancava qualcuno.
Sarei stato io.
Avrei colto i suoi segnali, avrei teso la mano, e l'avrei fatta sentire amata.

Infine, avrei rotto il suo piedistallo da reginetta del ballo.
Si sarebbe pentita maggiormente di avermi conosciuto.

La vidi girarsi in una prospettiva migliore per la mia vista;
Il piccolo naso perfetto anche di profilo, il colore delle ciliegie sulle labbra, il materiale di porcellana sul viso.

Era... diversa.

Sotto la luce della lampadina difettosa, con nell'aria la candela profumata di marca, mosse le sopracciglia infastidita da un sogno.

Mi immaginai cosa avrei potuto fare se mi fossi potuto avventurare nei suoi sogni.
Non l'avrei aiutata, l'avrei buttata in pasto al drago, solo per assistere alla sua forza disarmante di tornare da me.

Non proprio da me...

Avvicinò le gambe l'una all'altra ma non le distese, i piedi da Cenerentola che misuravano il trentasei ad occhio e croce, uscirono dal confine tracciato rimanendo nel vuoto.

Una folata di vento la fece stringere sotto le coperte e mi parve di aver colto parte della sua intimità.
Non era intimità guardarla in reggiseno - nonostante mi ci fossi perso - ma era aver saputo esserci durante un piccolo gesto di vulnerabilità.

Mi inginocchiai a lei, guardandola dal basso all'alto.
Rimaneva comunque piccola, ma non a cospetto a me.
Rimaneva piccola ai miei desideri, come quello di baciarla...

Toccai appena il labbro superiore e ne approvai la forma ben fatta.
Ad un palmo dal mio di naso, feci combaciare la parte mancante che, per sottoscritto, mancava, se non c'eravamo noi a completarci.

In quel movimento addolcito dalla passione non a sfondo sessuale, sentii la magia di cui tanti non parlavano ma veniva letta anche dal cieco più grave.
Una scossa attraversò la mia anima, mi mancò l'aria dopo pochi secondi.
Mi staccai scottato da quel qualunque-cosa-fosse-stata e ascoltai il mio muscolo involontario cardiaco: batteva come un cavallo a galoppo nel pieno della corsa.

«Mi fai ancora l'effetto di quella volta e... ti odio. Ti odio. Ti odio», scandii lentamente, per volerglielo stampare nel cervello.

Ma non potè udirmi.

Sconsolato, allibito, le tolsi quel che poteva recargli freddo, poiché sapevo che tendeva a provarlo.
Una questione di equilibrio: io ero infastidito da quell'episodio, lei si sarebbe infastidita nel quel gelido momento seguito fino al mattino.

Voltandomi compresi che volevo sapere a memoria ogni suo insulso tratto.
Avrei proseguito nell'approfittarmene, pensai, fino a che non sbattei a forza la stupida porta.

L'avevo svegliata.
Ero andato in fumo il freddo che volevo farle provare, come il mio piano.

Non era più vendetta.
Era sete di indefinito.

LA FIGLIA DEL CAOSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora