LIVAccarezzai la testa a mia figlia. Dormiva.
Pareva fragile , stordita e stanca, nulla di lontanamente paragonabile all'uragano colorato di risate che solitamente era ed il mio cuore sanguinava alla vista della mia bambina ridotta in quello stato. E quando pensai di aver terminato tutte le lacrime che avevo a disposizione, altre ne sopraggiunsero senza alcuna difficoltà mentre non potei far altro che starmene lì , paralizzata e con un dolore muto nel petto, a toccarle la manina piccola dove sul dorso era attaccata la flebo tramite la quale le somministravano il cortisone per via endovenosa.
Sospirai, provando inutilmente a cacciare fuori dallo stomaco tutto quell'atroce sgomento che mi addolorava e m'impediva di respirare. Infine, restai lì a guardarla e a vegliare su di lei pensando a come mi sarei potuta togliere la vita se le fosse successo qualcosa. Se Ryder non l'avesse portata in tempo in ospedale o i medici non sarebbero prontamente intervenuti.
Non servì neppure pensare ad un modo poiché sarei morta di crepacuore senza neanche accorgermene. I dottori ci informarono che l'avrebbero tenuta sotto osservazione per almeno una notte poiché le fosse salita anche un po' di insolita febbre. Io restai in camera con lei per tutto il tempo, il padre attendeva fuori. Per quanto fossi arrabbiata con lui, una parte di me lo desiderò al mio fianco. Avevamo avuto un cedimento come coppia, ma tutto in sua presenza si alleggeriva e sembrava più semplice da affrontare. Inoltre, meritava di stare lì tanto quanto lo meritavo io.
Uscii dalla stanza della bambina solo nell'attimo in cui un'infermiera venne a controllarla e ad aggiustarle la flebo o a misurarle la febbre fino a che Austin, il quale avevo dimenticato di avvisare, mi chiamò informandomi che fosse già a Galveston per l'incontro stabilito in mattinata. Tirai su col naso udendo il cellulare squillare mentre lui, mi rivolse immediatamente uno sguardo, curioso di scoprire con chi avrei parlato. Julia, invece, era occupata a chiamare qualcuno giù in fondo al corridoio e non avevo ancora ben chiaro il motivo della sua perenne presenza. Sia lì, che nella mia vita...cazzo!
"Ciao..." mi allontanai di poco, sentendo comunque i suoi occhi ambrati e sofferenti punzecchiarmi la schiena ininterrottamente "...mi dispiace, io-...no, non sto piangendo. Ho solo avuto un problema e-....no, mia figlia-...» gettai un respiro sentendomi soffocare dalla disperazione «-...mi dispiace di non averti avvisato ma mi chiedevo se potessimo rinviare il nostro incontro. Ma no, non serve che tu venga." Parlai lanciando un'occhiata a Ryder che si irrigidì capendo si trattasse di Austin. I lineamenti del suo viso si indurirono e per poco non sputò fuoco e fiamme dagli occhi. "Grazie."
Spensi la telefonata e rimasi ferma davanti alla porta numero centotredici in attesa che mi facessero rientrare per stare con la piccola.
«Vuoi...» prese parola ma non mi voltai a guardarlo «...che ti porti qualcosa da bere? Sei chiusa in quella stanza da ore e-...»
«Sto bene, ti ringrazio.» Risposi con un filo di voce massaggiandomi gli occhi che bruciarono instancabilmente. Non seppi cosa dirgli. A quel punto sarebbe stato totalmente inutile sbraitargli contro. In lontananza udii il fragore di un tuono, segno che avrebbe piovuto di lì a poco. «Tu vai se vuoi...» gli indicai la sua amica che si era un po' rotta le palle di restare lì sulle panche del corridoio «...rimarrò io qui con la bambina.»
Tanto gli impedivano comunque di entrare.«No, non se ne parla.» Replicò dandomi l'impressione che si stesse lasciando divorare dai sensi di colpa, ma ciononostante, quelle furono le uniche frasi che scambiammo in tutto quell'arco di tempo. Uno strazio dopo l'altro.