XLIII (2)

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A N G E L

«Ancora non capisco il perché tu non mi abbia mai detto di avere un amico così affascinante!»

Questa è più o meno la frase che mi sono più sentita dire da Bea durante l'ultima settimana. Sembra molto che il rientro a casa sia stato traumatico persino per lei che non era mai stata a Brooklyn.

«Perché Richard è un vero playboy»

E questa è stata la risposta più comune che le ho dato.

Ma a lei è importato poco, tanto che ha ricordato con occhi sognanti i dettagli del loro incontro. «È stato un weekend fiabesco, tra lui, il matrimonio, l'atmosfera americana», afferma. «È davvero un altro mondo»

Le rivolgo un sorriso. «Già, mettere piede a Brooklyn è sempre simile ad un sogno lucido»

Bea si siede al mio fianco, mentre sistema accuratamente i lacci delle scarpe.

«Non mi hai ancora detto com'è stato»

«Mi sento più libera, più forte anche. Sono riuscita ad affrontare a testa alta sia Duncan che Joseph, mi sembrava una cosa impossibile», le rispondo.

Ed è la verità, per quanto sia stato difficile e a tratti molto doloroso, avevo davvero bisogno di togliermi quel peso.

«Io ero sicura che ce la potessi fare, sei forte Angie», risponde lei. «Anche se ancora non mi capacito di come tu sia riuscita a stare con un presuntuoso del genere»

«Il nostro amore è stata una meteora: indimenticabile, luminoso, ma con la consapevolezza che dovesse finire»

Se dovessi immaginare una sensazione simile a quando ci siamo detti il fatidico addio, sarebbe stata sicuramente il dolore di un cuore che viene strappato via dal petto.

«Eppure si vede che lo hai amato tanto...»

E l'ho amato. L'ho amato davvero con tutta me stessa.

Accenno un sorriso. «Ha una fidanzata. Ed io devo vedere Damiano più tardi»

Damiano mi ha accolto con un enorme mazzo di fiori quando siamo arrivate all'aeroporto. Lui ci tiene a me, ci tiene davvero, con lui potrei avere una relazione sana ed essere felice. Le montagne russe di cui mi parlava un tempo Joseph sono adrenaliniche, ma dopo esserci stata per troppo tempo ti portano solo ad un grande giramento di testa.

Tornare alla quotidianità è stato un vero e proprio pugno nello stomaco. Forse perché tornare a Brooklyn mi ha fatto capire quanto la mia vecchia vita fosse diversa da quella attuale.

Mi trovo nel bancone del bar in cui lavoro, è in pieno centro, dunque è colmo di gente a qualsiasi ora del giorno. Non posso negare che una parte di me vorrebbe davvero tanto essere accanto a Callie in questo momento: porta in grembo il suo bambino e pensare che potrei perdermi questo periodo della sua vita è devastante.

Ma d'altra parte mi rendo conto che non mi sono trasferita qui senza una motivazione, dunque forse ciò che davvero è destinato a me in questo momento è servire cappuccini agli adolescenti italiani che saltano le lezioni per venire al bar.

«Per me un espresso»

«Un cappuccino di soia»

«Un succo di arancia»

«Ti avevo detto con latte di mandorla!»

Il proprietario del bar mi richiama per l'ennesima volta questa mattina. «Americana, datti una mossa, guarda quanta gente c'è!»

Se c'è una cosa che ho capito in questo ultimo anno, è che Jeremiah aveva una grande forza di volontà a fare questo lavoro. Lavorare a contatto con la gente non è affatto semplice, soprattutto quando hai un datore di lavoro bastardo.

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