Capitolo 3.

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Non appena il frastuono del colpo di pistola si diffuse nell'aria, sentii un peso annidarsi nel mio petto e non era dovuto al corpo di Zart che subito dopo lo sparo si era accasciato senza vita su di me. Senza riuscire più a controllarmi scoppiai a piangere. Piansi per la disperazione, per la paura, per l'ansia, ma soprattutto piansi per aver tolto la vita di un'altra persona con le mie stesse mani. Le stesse mani con cui sfioravo e accarezzavo quelle di Newt, le stesse dita che un tempo si divertivano ad arricciare i suoi capelli, gli stessi palmi che una volta stringevano il suo viso e lentamente lo avvicinavano al mio.

Cosa ero diventata? Un mostro? No, peggio. Forse potevo giustificarmi per aver tolto la vita a uno Spaccato, dato che era stata solamente legittima difesa – nonostante lo ammettessi, ancora non riuscivo a perdonarmelo –, ma dopo quell'istante capii che nulla sarebbe stato più come prima, per me. Avevo ucciso un mio amico!
Non trovai neanche il coraggio di guardarlo in faccia: aprii gli occhi e subito fissai le mie mani. Me le sarei immaginate macchiate di sangue, macchiate e sporche come la mia coscienza. Anche se in realtà, ora che le stavo guardando, non lo erano.

Come se mi fossi accorta solo in quel momento di essere tutt'ora ancorata alla pistola con cui avevo fatto quell'orrore, la abbandonai a terra, singhiozzando e frignando come una bambina. L'aggeggio cadde sul pavimento senza produrre rumore e quell'assenza di suoni fu opprimente, ricordandomi ogni secondo che ero sola e che non avrei potuto rimediare a quell'errore.
Strisciai via dal corpo esanime del ragazzo, improvvisamente spaventata. Ero terrorizzata all'idea di essere circondata dalla morte, per quanto fino a quel punto mi fosse stata sempre familiare. Certo, potevo dare la colpa alla W.I.C.K.E.D., potevo dire che fosse solo opera loro, che io non centravo niente, ma sapevo benissimo che era una bugia. Di certo loro mi avevano tolto tutto: una famiglia, il mio passato, degli amici, la pace e la serenità; ma non potevo allo stesso modo incolparli di avermi tolto l'umanità o quello che mi restava, perché quella me l'ero strappata di dosso da sola, premendo un semplice grilletto.

È colpa mia. È tutta colpa mia. Pensai singhiozzando e ritirandomi in un angolino. Mi portai le ginocchia al petto e rimasi così, con occhi vuoti, a fissare il corpo di Zart. Non emettevo un suono, ma dentro stavo urlando perché potevo sentire la mia anima lacerarsi lentamente e sgretolarsi sotto il morso infettato della morte.
I secondi diventarono minuti e i minuti diventarono ore, tuttavia a me sembrava di stare là da un tempo infinito, come se quegli istanti si fossero improvvisamente dilatati. Iniziai a sentirmi sempre peggio con me stessa: la nausea e il mal di testa in aumento, dovuti probabilmente al pianto eccessivo, che ancora continuava silenziosamente.
Riuscii a trattenermi a lungo: legai tutte le emozioni negative insieme e le gettai nel fondo della mia coscienza, accantonandole e mettendole all'ombra; tuttavia dopo qualche istante la mia resistenza iniziò a vacillare e allentai sempre di più il nodo ai miei sentimenti, fino a che non si liberarono del tutto, facendomi scoppiare come una bomba a mano.

Senza neanche volerlo veramente spalancai la bocca e urlai con tutto il fiato che avevo in corpo. Urlai fino a che non sentii il fuoco bruciare nei miei polmoni e quasi mi spaventai nel sentire la mia stessa voce così rotta e... straziante. Quasi disumana.
Dopo aver ricongiunto le labbra e aver ridotto il grido a un sussurro quasi impercettibile, mi sentii immediatamente meglio, così decisi di farlo di nuovo.
Presi fiato e mi portai le mani sulle orecchie. Poi gettai tutto all'infuori, un po' come quando si rilascia tutto il respiro che resta subito prima di riaffiorare dalla superficie dell'acqua.
La mia voce mi arrivò ovattata e soffocata, e la cosa non mi piacque. Volevo sentirlo, il grido. Volevo sentire il dolore, la disperazione e l'affanno di cui ero fatta. Volevo sentire il panico, l'angoscia. Tutto. Volevo sentirmi pronunciare tutto in un singolo, acuto e perforante grido di liberazione.

Lasciai che le mie dita scivolassero tra i capelli, poi quando sentii che l'urlo era prossimo a terminare, mi portai poche dita sulle labbra e le strinsi tra i denti fino a farmi male.
Singhiozzai per la millesima volta e mi sembrò di sputare l'anima. Mi accasciai sul pavimento, sempre con le ginocchia strette al petto, nel tentativo di un abbraccio che risultasse abbastanza confortante da tranquillizzarmi. Ma nulla in quel momento poteva farlo.
Quando riaprii gli occhi, sentii nel petto una strana sensazione di leggerezza, che però sfumò poco dopo, quando ricordai tutto.
Mi guardai intorno, angosciata e terrorizzata all'idea di ritrovarmi davanti il corpo senza vita di Zart, invece la stanza era praticamente vuota se non fosse stato per una figura seduta sulla sedia dietro la scrivania.

J-Janson? Pensai stupita. Senza esitare mi guardai intorno alla ricerca della pistola. Ho già ucciso qualcuno prima, perché non farlo di nuovo? Sarebbe divertente vederlo morire ai miei piedi, dopo avermi supplicata di risparmiargli la vita.
Quando mi accorsi invece che fosse sparita anche l'arma, la rabbia si impossessò di me. Scattai in piedi e senza neanche rifletterci su, corsi verso l'uomo, che se ne stava beatamente seduto a leggere un libro. Ma quando mancava mezzo metro dal raggiungerlo, andai a sbattere contro una parete invisibile. Prima il naso, colpendo quella che sembrava una fredda lastra di vetro. Poi il resto del corpo seguì a ruota, andando addosso al muro che mi fece barcollare all'indietro.

Istintivamente mi sfregai il naso, mentre strizzavo gli occhi per capire come avessi potuto non accorgermi della barriera di vetro. Ma per quanto mi sforzassi, non riuscivo a vedere niente. Nemmeno il minimo bagliore o riflesso, né un alone da nessuna parte. Tutto quello che vedevo era aria.
Nel frattempo, Janson non si era preoccupato di muoversi o di mostrare il minimo segnale di essersi accorto di qualcosa. Così mi avvicinai di nuovo, questa volta più piano, con le mani tese in avanti. Entrai presto in contatto con un muro fatto interamente di un invisibile... Cosa? Sembrava vetro: liscio, duro e freddo al tatto. Ma non vidi assolutamente niente che indicasse che lì ci potesse essere qualcosa di solido.

Frustrata, mi spostai a sinistra, poi a destra, continuando a toccare il muro trasparente eppure concreto. Si estendeva per tutta la stanza; era impossibile avvicinarsi all'uomo alla scrivania. Alla fine, stanca di quello che sembrava essere un altro dei giochetti della W.I.C.K.E.D. per farmi imbestialire, battei sul muro, producendo una serie di rumori sordi, ma non accadde nient'altro.
Solo quando urlai il suo nome, Janson alzò lo sguardo e mi rivolse un sorrisetto.
Non mi disse nulla, anzi, aprì uno dei cassetti e tirò fuori qualcosa, poi mise davanti a sé un fascicolo, lo aprì e cominciò a sfogliare le pagine. Una volta trovato quello che stava cercando, si fermò e appoggiò le mani sul foglio. Poi sfoderò un sorriso patetico, posando lo sguardo su di me, ma senza parlare.

"Allora?" gridai esasperata. "Cos'è tutto questo? Uno scherzo?"
Lo guardai in attesa di una risposta e lui, dopo un'attimo di esitazione, pronunciò poche semplici parole. "Pensi che tutto questo ci diverta? Pensi che ci divertiamo a guardarvi soffrire? C'è una ragione dietro a tutto ciò, e molto presto lo capirai!"
La sua voce era cresciuta d'intensità fin quasi a urlare l'ultima parola, il viso adesso era paonazzo. "Wow." sputai, sinceramente stupita. "Datti una calmata e rilassati, vecchio mio. Sembra che ti stia per venire un infarto. E per lo più dovrei essere io quella incazzata."

L'Uomo Ratto si alzò dalla sedia e si allungò sulla scrivania. Le vene del collo, come corde tese, pulsavano. Si rimise lentamente a sedere e fece dei respiri profondi. "Mi sarei aspettato una cosa del genere da te. Sai, sei sempre stata testarda, ma alla fine abbiamo inquadrato pure te."
La rabbia dentro di me stava aumentando e mi sentivo sul punto di esplodere un'altra volta. Ma mi sforzai di mantenere un tono di voce calmo. Con il tempo avevo imparato che non sarei mai riuscita a estorcergli niente con la rabbia. "Immagino che anche questo è solo un altro dei vostri test. Allora dove caspio andrò adesso? Mi manderete sulla luna? Mi farete attraversare l'oceano a nuoto in mutande?" Feci un sorriso forzato. "Ho appena ucciso un ragazzo – un mio amico, per giunta – e tutto quello che mi vieni a dire è che ti aspettavi che io facessi così?"
"Sì." rispose semplicemente lui. "Tutto è andato secondo le aspettative."

The Maze Runner - RunDove le storie prendono vita. Scoprilo ora