Capitolo 34

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Rimango immobile, come fa Alessio, tutti e due intenti a fissarlo, mentre lui ricambia con quella scintilla di rabbia negli occhi. Non può prendersela con me, io non c'entro niente. Non è colpa mia se sono finita qui, è colpa di quel coglione che ha tentato di molestarmi ieri sera. Però, rifletto, è colpa mia se mi sono ubriacata così tanto no? Ho preso un drink molto forte come prima botta la scorsa notte e poi sono andata un po' fuori di testa, non ero responsabile delle mie azioni, no?

Progetto di dire tutti questi miei pensieri ad alta voce per spiegargli la situazione, ma lui tuona con un: «Andiamo» così duro e freddo che non sembra nemmeno lui.

«Il tuo amico dovrà cercarsi un taxi perché sono venuto in moto.»

«Sei venuto in moto?» chiedo affascinata.

Non sapevo ne possedesse una.
Ma lui risponde alla mia felicità con un altro sguardo pieno di freddezza. Caspita, mi sa che l'ho fatto veramente arrabbiare.

«Perdonami, è che...» mi preparo a stendere il mio discorso di scuse, ma lui mi interrompe bruscamente.

«Ne parliamo a pranzo, è tardi e abbiamo un appuntamento.»

«Scusa tanto, come me ne vado io se Sofia viene con te?» interviene Alessio.

«Te l'ho già detto: chiami un taxi. Non è così difficile, sai.»

«Va bene. Ci vediamo dopo a casa tua, Sof.»

«A dopo Alex» lo saluto.

«Simone, ti prego, lasciami spiegare.»

«No, Sofia. Ti ho detto che ne parliamo dopo, adesso tieni questo», mi porge il casco, «e monta in sella che è tardi.»

Ubbidisco senza ribattere, tanto non servirebbe a nulla. È palese che sia arrabbiato e non lo biasimo di certo.

Anche io lo sarei se il ragazzo che avevo invitato ad un ballo mi telefona solo poche ore prima dicendo di non poter più andare per poi scoprire che è perché è in prigione.

Una volta salita sul suo bellissimo motore che sembra costosissimo, avvolgo le mie braccia alla sua vita per sostenermi e lui sembra per un attimo sussultare, ma poi si rilassa e tramite uno dei due specchietti retrovisori noto che sul suo visto si forma un sorriso. Non appena si accorge che lo sto fissando da lì, sistema lo specchietto e quel suo sorriso svanisce. Ma il mio no, perché so che gliel'ho procurato perciò non è così arrabbiato come vuole far credere.

Gira la chiave e il motore romba, poi partiamo. Sono veramente conciata male: ho ancora addosso il vestitino striminzito pieno di pagliette verdi che avevo ieri sera, i miei capelli sembrano paglia, il mio viso è stravolto dalle poche ore di sonno e dalla sbornia colossale che devo superare ancora. E poi puzzo. Di alcool e di fumo.

Sto per digli che dovrei andare a casa a cambiarmi, ma chiudo la bocca quando riconosco la strada che porta a Manhattan Beach. Mi tranquillizzo ulteriormente e ripenso a tutto il casino. Merda, penso per la milionesima volta.

Mentre ripercorro tutti i momenti che ho vissuto e cerco di ricordare quanto più possibile - ricavandone solo altri flash scollegati - appoggio la mia guancia sulla sua schiena, per quanto mi sia possibile con il casco. Lo faccio senza rendermene conto. E poi lo stringo ancora di più a me. Dopo qualche minuto in questa posizione, realizzo che ha lasciato tutto quello che stava facendo per venire in centrale e per venirmi a prendere, a qualsiasi costo.

«Sei venuto per me!» urlo per farmi sentire, cercando di sovrastare il rumore del vento che mi costringe a tenere gli occhi socchiusi.

«Cosa?» urla lui di rimando.

A summer to liveDove le storie prendono vita. Scoprilo ora