Capitolo 1.

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Giappone - 7/12/1941 5:30 a.m.

"Ammiraglio Yamamoto!"
Urlai.

"Ammiraglio!"

"Ackerman, ne abbiamo già parlato, non ho il tempo materiale per discutere con lei"
Mi ammonì.

"Non possiamo effettuare l'operazione Hawaii, non è concepibile, scateneremo un inevitabile conflitto!"
Gli afferrai un braccio con una presa salda e fredda.

Mi guardò dritto negli occhi con un'espressione che mi congelò il sangue.

"Caporale, la ritengo un uomo abbastanza intelligente da comprendere che se saremo in grado di abbattere la base di Pearl Harbor in America avremo il controllo indiscusso sul Pacifico, questo potere ci serve!"
Mi sputò queste parole addosso noncurante del danno enorme che ciò avrebbe compromesso. L'entrata degli Stati Uniti nella seconda guerra Mondiale.

Era una potenza economica e bellica troppo imponente per essere attaccata così senza preavviso, la trovai un'idea folle.
"Ed io invece le dico che attaccare quella base militare non è altro che un'azione sconsiderata, finiremo per farci ritorcere contro una Nazione troppo grande!"
Mi scostò con un gesto brusco raggiungendo la cabina della sua nave corazzata scomparendo seguito dai suoi uomini.

"Porca troia"
Gridai una volta resomi conto che nulla avrebbe fatto cambiare idea a quell'uomo.

Mi si avvicinarono dei sottoposti.
"Caporale la prego si calmi"
Eld, un ragazzo alto e biondo tentò di placarmi, lo scostai di scatto appoggiandomi alla sponda della nave da guerra sopra la quale ci trovavamo.

Mi chiamo Levi Ackerman, Caporale dell'esercito Giapponese al fronte per combattere nella seconda guerra Mondiale, alleato dell'Italia e della Germania. Vantavo i tipici tratti giapponesi, occhi affusolati anche se di un colore fin troppo chiaro per lo standard, capelli fini e neri rasati sui lati come la maggior parte dei soldati ed un'etichetta impeccabile.

Mi misi le mani fra i capelli, sapevo che quell'attacco ci avrebbe uccisi tutti, si poteva scorgere dal terrore morboso negli occhi dei soldati. Non avevo paura di morire, ma non sopportavo l'idea di far perdere la mia Nazione.

Alle prime luci dell'alba l'attacco a Pearl Harbor venne approvato e gli aerei giapponesi distrussero la base americana nelle Hawaii causando più di 2000 vittime.

America - 7/12/1941 8:30 a.m.

"Tesoro svegliati, presto!"
Mi urlò mia madre dalla cucina.

"Mamma... che c'è..-"
Mugugnai assonnato.

"La base di Pearl Harbor! È stata distrutta!"
Urlò in lacrime lei.

Acquistai più lucidità precipitandomi giù dal letto e raggiungendo mia madre, stava leggendo un giornale e la notizia era stampata a caratteri cubitali sulla prima pagina.

La vidi imprecare e infilarsi le mani fra i capelli color mogano, li avevo presi da lei.
Mi chiamo Eren Jeager, un ragazzo americano, insomma, almeno dalla parte di mia madre, mio padre invece è un medico di guerra tedesco. Avevo dei capelli leggermente più lunghi della norma e lisci, una carnagione mediterranea e due occhi verde smeraldo.
Avevo diciotto anni all'epoca e la leva militare era obbligatoria, sopratutto dopo quello che il Giappone fece all'America.

"Eren sai cosa vuol dire questo?"
Mi domandò fra le lacrime.

La presi in un abbraccio non facendole terminare la frase già impressa nella mia mente. Ero molto più alto di lei e non fu difficile circondarla.
"Non preoccuparti mamma, andrà bene, sono un bravo soldato."
Tentai di rassicurarla, nonostante entrambi fossimo stati consapevoli che quasi sicuramente non avrei fatto ritorno a casa.

"Raggiungerai tuo padre e avrai tutte le agevolazioni, te lo prometto figlio mio, la nostra Nazione non ti abbandonerà"
Mi sussurrò staccandosi dall'abbraccio e guardandomi con le lacrime agli occhi che tradirono il suo sguardo sicuro e fiero.

"Lo so mamma, non preoccuparti vinceremo"

Preparai le valige e nel pomeriggio i soldati americani vennero a prendermi, servivano delle reclute, sopratutto dopo averne perse così tante, di conseguenza non opposi resistenza, avrei aiutato il mio Paese in qualsiasi modo.

Arrivammo in serata al campo addestramento reclute e notai come i ragazzi fossero assolutamente assenti e rassegnati al loro destino. L'America era entrata a far parte del conflitto e lo sapevamo tutti molto bene.

Mi sedetti ad un tavolo dove vi avevano già preso posto altri ragazzi.
Nessuno sembrò notare la mia presenza, erano assorti e mescolavano con il cucchiaio una sbobba che sarebbe dovuta essere la nostra cena, solo un ragazzo dopo qualche minuto aprì bocca, era biondo, occhi azzurri, molto gracile e minuto.
"Sei nuovo?"
Mi chiese con i gomiti appoggiati al tavolo.

"Sì, sono stato reclutato oggi"
Risposi con poca enfasi.

"Come tutti noi"
Aggiunse un ragazzo dai capelli castani, era della mia stessa statura ma con fare più arrogante.

"Mi chiamo Eren"
Mi presentai.

"Sono Jean e il biondo è Armin"
Prese parola il castano.

Posai lo sguardo sul biondo.
"Il tuo nome... non sei americano vero?"
Chiesi forse con troppa sfrontatezza.

"Sono di origini tedesche."
Rispose lui con un velo di timidezza, mi domandai come sarebbe riuscito a scendere in battaglia.

"Anche io Armin, mi chiamo Eren... Eren Jeager"
Lo rassicurai.
La sua espressione si fece più familiare, meno a disagio e mi sorrise, un sorriso pieno che ricambiai subito dopo. C'era qualcosa in quel ragazzo che mi fece sentire come a casa.

"Bene, avete finito di flirtare?"
Ci ammonì il ragazzo castano con fare ironico e saccente.

"Jean finiscila, sei un pivello anche tu, lasciali stare"
Si avvicinarono al nostro tavolo un gruppo di ragazzi, quello che prese la parola era biondo, di grande corporatura e generosi muscoli, era evidentemente un soldato arruolato da più tempo.

"Non ha importanza, moriremo tutti"
Finì Jean roteando gli occhi al cielo.

"Invece dovresti essere così fiero della nostra Nazione, sta facendo di tutto per recuperare al danno di ieri"
Prese la parola un ragazzo molto più pacato, dai modi gentili e non troppo invadenti, aveva i capelli mori e delle lentiggini gli costeggiavano il viso contrastando con la carnagione chiara.

Il castano si diede subito una regolata, quel ragazzo con i suoi modi tranquilli lo aveva messo a tacere.

"Quando realizzerete che questo sarà un genocidio sarà troppo tardi"
Finì Jean alzandosi e raggiungendo le camere.

"Lascialo perdere"
Riprese il ragazzone sedendosi al posto del castano.

"Io sono Reiner"
Si presentò con un cordiale sorriso porgendomi la mano, gliela strinsi senza spendere troppe parole.

"Piacere..."
Risposi assorto, ripensai alle parole di Jean e dei pensieri malsani mi vennero alla mente, a riportarmi alla realtà fu quel ragazzo lentigginoso.

"Io invece mi chiamo Marco e lui è Berthold"
Indicò un ragazzo dietro di lui, molto alto e moro, aveva un aspetto tranquillo e pacato, mi accennò a malapena un sorriso.

La serata finì così, con delle conoscenze e poi tutti a riposo, le camere erano due e accoglievano decine di letti a castello tutti attaccati, non era certo la camera più lussuosa ma a nessuno interessò di dove avremmo dormito, ma solo di poterci tornare.

Quello sarebbe stato l'inizio della fine.

Spazio autrice -
Ciao a tutti cari lettori e lettrici, benvenuti in questo nuovo capitolo della mia vita, (si vi ci trascino dentro♡) questa storia sarà un po' più tosta, insomma, i temi trattati sono delicati e crudi ma spero di riuscire nel mio intento, e se davvero riuscirò ne verrà fuori una storia molto interessante, voglio vedere come la prenderete, se vi piacerà o meno, anche se so che da un solo capitolo non si può dedurre granché, ad ogni modo, spero davvero vi possa interessare il tutto.
Buona serata a tutti murettini.
-Sofia.

𝘼 𝘿𝙖𝙣𝙜𝙚𝙧𝙤𝙪𝙨 𝙂𝙖𝙢𝙚 ➢ 𝘌𝘳𝘦𝘳𝘪Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora