La prima volta che lo vidi

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Avevo trascorso insieme a mio padre e mia madre ogni estate della mia esistenza in una località diversa del mondo. Europa, Australia, Africa, Sud America. Ovunque, davvero. Essere figlia di due genitori ricchi e di successo aveva agevolato molte situazioni durante la mia adolescenza. Non era mai stato un vanto per me, però. Non ero il tipo di ragazza che amava esibire ciò che possedeva. Mi sentivo sola, a dire il vero. Il più delle volte, ecco, sentivo di avere tanto, troppo e nulla al tempo stesso, e non capivo come fosse possibile anche soltanto pensare una cosa del genere. Mi sentivo in colpa quando mi capitava di riflettere su quella mia condizione assurda; durante le sere fredde d'inverno magari, con la testa appoggiata al vetro  gelido della finestra, i libri di scuola aperti sulla scrivania di mogano e Dustin nella mente.

Già, Dustin Wall. Il ragazzo più desiderato della scuola, nonché mio compagno di classe, nonché mio vicino di banco dal primo anno all'ultimo. Che storia straziante, quella mia e di Dustin. Straziante, sì, come tutte le storie mai nate. O meglio, era nata, ma soltanto nella mia mente di ragazza ingenua e sognatrice. Perché è vero, ero così, sul serio. Molte persone credono che la ricchezza sia una specie di lasciapassare per tutte le situazioni importanti della vita, e invece sbagliano. Non è un luogo comune affermare che il denaro non compra la felicità. Se qualcuno me lo avesse domandato, avrei risposto che davvero felice non ero mai stata.

<<Tieni, Millie>> disse mio padre sedendosi accanto a me sull'amaca che era montata in veranda, porgendomi un bicchiere enorme pieno di aranciata ghiacciata. Lui brindò con la sua bottiglia di birra e mi sorrise. Quel tintinnio leggero si mescolò all'aria che giungeva dall'oceano a pochi metri da noi e poi volò via. Rimanemmo in silenzio per alcuni istanti a sorseggiare le nostre bibite, ciascuno ancorato ai propri pensieri. Eravamo arrivati a Portway da un paio di giorni e non era successo nulla di particolare. Avevo sistemato i bagagli e trovato una stanza per me tra le sette a disposizione e poi avevo semplicemente dormito. Il viaggio era stato stancante, lungo diverse ore, e così alla fine ero crollata. Adesso era quasi il tramonto e l'oceano di fronte  a noi sembrava tranquillo, pacato.

<<Vado sulla spiaggia, papà>> dissi dopo aver bevuto l'aranciata per metà.
Mio padre mi guardò e inarcò le sopracciglia.
<<Oh. Aspettavo che lo dicessi, sai?>>
Ridemmo entrambi e mi domandò se volessi compagnia.
<<No, non è importante. Sono soltanto due passi. Ascolterò un po' di musica e sarò a casa per cena, d'accordo?>>
<<D'accordo. Vorrà dire che il tuo chef preferito cucinerà qualcosa di strepitoso per te, questa sera.>>
Mi diede un bacio sulla guancia e poi mi salutò.
<<Fai attenzione, Millie>> disse, guardandomi mentre mi alzavo dall'amaca.
<<Promesso>> gli risposi, convinta che ci fosse poco da cui tenersi in guardia a Portway.

Presi la Mountain Bike che mi aveva accompagnato per tante scorribande in passato e alla quale ero affezionatissima e incominciai a pedalare lungo il viale che mi avrebbe portata fuori dalla nostra villa.

Una volta all'esterno ebbi la sensazione che l'aria che proveniva dall'oceano fosse un po' calata, ma non appena voltai l'angolo e raggiunsi la strada a senso unico che conduceva alla spiaggia mi resi conto che non era così, anzi. La sentivo più forte adesso, e sembrava anche più profumata.
Smuoveva i miei capelli lunghi e mi faceva il solletico, regalandomi sensazioni piacevoli.

Giunsi al fondo di quella strada e mi ritrovai di fronte a una seconda strada, ma chiusa alla sul lato più estremo. Alla mia sinistra c'era un vecchio e grande cancello verde e arrugginito, spalancato, oltre il quale c'era una specie di locale pieno di tavolini all'aperto, musica a tutto volume e videogiochi. Era pieno di gente e ne fui stupita perché non me lo aspettavo. C'erano tanti ragazzi e tante ragazze oltre che adulti e bambini di tutte le età.
Sulla mia destra, invece, c'era un altro cancello, anche questo aperto, che conduceva all'interno di un parcheggio custodito, o almeno così diceva il vecchio cartello appeso fuori e scritto a mano, con il pennarello. Tre dollari per tutto il giorno.
Esitai per un istante, lanciai ancora un'occhiata al locale con i tavoli esterni e infine entrai nel parcheggio. Ero certa che ci fosse un altro modo per raggiungere la spiaggia ma non avevo voglia di tornare indietro. Non trovai nessun custode ad attendermi per chiedere i tre dollari e soltanto in quel momento mi resi conto che ero uscita di casa senza portare del denaro con me. Percorsi la strada sterrata cercando di non toccare le tante automobili che erano state chissà quante ore ferme sotto quel caldo sole di giugno e dopo alcune decine di metri vidi finalmente di fronte a me, in lontananza, l'oceano e la spiaggia. Si stendevano oltre una piccola duna rialzata, che nascondeva dal lato opposto - di fronte ai miei occhi- una tavola calda coperta per metà da una tettoia in legno. La superai contando a prima vista una decina di persone sedute a consumare bibite e gelati e raggiunsi la duna. La attraversai portando la Mountain Bike a mano e quando fui in cima mi sedetti a terra per qualche istante, sentendo la sabbia calda posarsi sulle mie gambe nude. Rimasi immobile così ad osservare la natura che mi circondava. Il sole sarebbe tramontato di lì a poco e colorava di arancione quella piccola parte di paradiso. Subito sotto i miei occhi c'era uno stabilimento, probabilmente frequentato dai clienti che pagavano i tre dollari del parcheggio, mentre sulla destra, una o due miglia più a ovest, si stendevano metri e metri di spiaggia libera.
Era laggiù che decisi di andare.
Così, sempre con la bici portata a mano, scesi dalla duna e raggiunsi lo stabilimento. Evitai i primi ombrelloni occupati dai clienti e cercai di evitare lo sguardo del ragazzo seduto al banco del primo gabbiotto di fronte alla passerella che conduceva direttamente alla riva.

<<Dove sta andando, signorina?>> domandò però lui, paralizzandomi.
Mi voltai a guardarlo e abbassai per un istante la testa, imbarazzata.
<<Io... ecco, un... sono qui soltanto da due giorni e non sapevo che questo fosse uno stabilimento privato. Vorrei... vorrei raggiungere la spiaggia libera e...>>
Lui, un ragazzo con dei corti capelli biondi e piuttosto muscoloso, mi sorrise accarezzandosi il bicipite destro.
<<Prego, madame>> disse <<vada pure.>>
Ancora più imbarazzata di prima sorrisi a mia volta, domandandomi intanto quanto fosse scemo.

Madame, pensai. Come gli è venuto in mente di chiamarmi così?

Dopo alcuni istanti e dopo aver evitato diversi bagnanti raggiunsi finalmente la riva dell'oceano. Camminai lungo la costa diretta verso la spiaggia libera, seguendo la direzione disegnata dal sole calante. Superai un paio di bagnini ancora più muscolosi del ragazzo che avevo incontrato al gabbiotto e finalmente fui fuori dallo stabilimento. La spiaggia libera si stava svuotando a poco a poco. Qualcuno si divertiva sulle tavole da surf, parecchio oltre il limite definito dalle boe. Qualcun altro cercava invece di godersi gli ultimi innocui raggi di sole mentre altri ancora, coppie di innamorati, si baciavano e scherzavano, ridevano, sorridevano.

Tutto ciò che hai sempre sognato anche tu, eh, Millie?

Sospirai e mi sedetti sulla sabbia, appoggiando la bicicletta accanto a me. Tirai fuori le cuffie dallo zaino che avevo portato e le attaccai al telefono.
Dalla riproduzione casuale della mia musica partì "90 days", un pezzo nuovo di Pink, che adoravo.

"I'm here but I'm in pieces
And I don't know how to fix this
And I don't know how to fix this, no"

E fu in quel momento che lo vidi per la prima volta, mentre la mia testa si perdeva tra quelle note malinconiche e l'acqua dell'oceano correva a perdifiato contro il bagnasciuga e si  andava a scontrare con i miei piedi e le mie gambe.

Lo vidi ad alcune decine di metri dal punto in cui mi trovavo. Era da solo, seduto sulla riva, come me. Indossava una camicia bianca sbottonata davanti e un paio di jeans strappati. Era scalzo e a terra accanto a lui c'era una bicicletta che sembrava un po' più grande e molto più vecchia della mia. Stava fumando una sigaretta e il vento gli accarezzava i capelli scuri e lunghi, spettinandoli. Nonostante la distanza che ci separava riuscivo a vedere attraverso quella camicia aperta il suo fisico scolpito e abbronzato da chissà quanti giorni di sole.

"If I'm just somebody that you are gonna leave
And you don't feel something when you look at me
You're holdin' my heart, mmm, would you say?
Just let me down slowly and I'll be okay"

Lo guardavo e sentivo lo stomaco tremare, senza una ragione.

Lo guardavo come una bambina guarda dalla vetrina un giocattolo stupendo ed è triste perché crede che non potrà mai averlo. Io, che avevo sempre avuto tutto tranne che una vera storia d'amore, mi sorprendevo a provare proprio quella sensazione.

Lo guardavo e la spiaggia, l'acqua e il vento scomparivano, come spazzati via da uno schiocco di dita.

Capii così che cosa volesse dire chi parlava di colpo di fulmine. Era semplice e devastante al tempo stesso: qualcosa di impossibile da controllare. Era una sensazione che dalla pancia veniva su e attraversava tutto il mio corpo, per esplodere poi nella mia testa e farsi largo tra le parole che stavo continuando ad ascoltare.

" 'Cause you made this shit so easy
And I told you my secrets
So I don't know why I'm tongue tied
At the wrong time when I need this
I'm here but I'm in pieces"

D'un tratto mi sentii una stupida. Non era possibile provare delle sensazioni tanto forti soltanto con gli occhi. Non era...

Poi all'improvviso lui si voltò verso di me.

Una storia d'amore d'estateDove le storie prendono vita. Scoprilo ora