Neve e popcorn

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Tre mesi dopo, dicembre.

Quattro giorni alla vigilia di Natale.

<<Hai deciso come trascorrerai le vacanze di Natale, Millie?>>

A parlare era Linda Stokes, la mia compagna di stanza al Washington College, a Chestertown, nel Maryiland, a circa sessanta miglia di distanza da Washington.

<<In famiglia>> risposi, mentre gettavo in valigia le ultime cose che avrai riportato a casa per il periodo delle festività invernali.

Linda era ok. Certo, non era Alicia, ma d'altronde sapevo che un'altra Alicia non l'avrei mai e poi mai ritrovata, e mi ero in un certo senso rassegnata al dover convivere con quella condizione.

Ci salutammo con un abbraccio.
Dieci minuti dopo, un taxi mi condusse alla stazione centrale di Chestertown. Da lì, salii sul treno mi avrebbe riportata a casa.

Seduta al mio posto, stavo pensando a come avrei trascorso quei giorni e a che cosa volesse dire quell' "in famiglia" che avevo rifilato come risposta alla domanda di Linda, quando il telefono squillò.

Era mio padre.

<<Papà!>> esclamai, felice di sentirlo. Tra un cosa e l'altra, non avevamo più parlato per un'intera settimana. L'ultima volta che ci eravamo sentiti al telefono avevamo quasi litigato. Gli ero sembrata un po' giù di morale, o molto giù di morale, e aveva ragione. Era così. Gli avevo detto... avevo cercato di spiegargli che non ero ancora riuscita a lasciarmi Portway alle spalle. Ci avevo provato. L'università era ok, mi piaceva. Le ragazze anche, e avevo addirittura conosciuto un paio di ragazzi piacevoli da frequentare. Ma Jaydon non se n'era mai andato.

Era rimasto lì, dove lo avevo lasciato, sul ciglio della strada di fronte all'entrata del luna Park di Portway, in una mattina soleggiata di fine estate. 

Avevo cercato di spiegarlo a mio padre, e il risultato era stato che mi aveva detto che avrei dovuto cercare di andare avanti, di pensare al futuro. Perché avevo diciott'anni e avrei potuto fare qualsiasi cosa avessi voluto, della mia vita. Sapevo che aveva ragione, ma poi mi ero guardata le mani. Ero tornata a pensare a tutti i momenti straordinari condivisi con Jay, e avevo sentito le lacrime salire. Con Jay ci eravamo sentiti soltanto più un paio di volte durante quei tre mesi, ed era stato straziante. Avevamo parlato, avevamo riso e avevamo pianto. Lui aveva trovato lavoro in una rimessa barche al molo, giù ad East Bay. Si occupava sopratutto di ripararle e seguire la manutenzione. Aveva ottenuto un buon contratto, con sia grande sorpresa, e il lavoro gli piaceva. Era contento e sollevato sopratutto di poter continuare a pagare le spese mediche al papà, ed io ero felice per lui.
Per un po', parlare al telefono era stato bellissimo. Poi, però, il momento dei saluti era arrivato, e lasciarsi, ancora e ancora e ancora, aveva cominciato ad essere insostenibile. Mio padre aveva ragione, lo sapevo, in fondo ne ero convinta anche io. Quella storia mi avrebbe fatto soltanto del male. E più avrei continuato a pensarci, peggio sarei stata.

<<È brutto dirlo, Millie, ma prima o poi ti passerà. Il tempo è sempre una cura per...>>
<<No, papà! Tu non hai capito. Mi dispiace, perché capisci sempre tutto, ma stavolta non ci sei ancora riuscito!>>

C'era stato un silenzio lungo, asciutto all'altro lato del telefono. Come se per la prima volta dall'estate, mio padre avesse davvero aperto gli occhi su ciò che era successo tra me e Jay.

<<Millie...>>
<<Non è stata una cotta estiva, papà. Non si è trattato di una stupida infatuazione da ragazzina. So che può sembrarlo, e che tu puoi pensarlo, ma la verità è un'altra.>>
<<Dimmela>>
<<Mi sono innamorata di lui, papà. Per questo mi fa così male, adesso. Mi manca da morire.>>

Mio padre era rimasto in silenzio. Non sapevo come fossi riuscita a pronunciare quelle parole. Non era stato facile per nulla.

<<Ma ti passerà, tesoro. Ti passerà.>>
<<Ciao, pa'>> gli avevo risposto, e avevo riattaccato. Ero troppo arrabbiata. Cercavo una comprensione che mi sembrava inafferrabile, lontana. Più probabilmente, però, ero io che non ero ancora in grado di affrontare quella situazione, e cercavo un colpevole, qualcuno con cui o su cui sfogarmi. Durante i giorni che avevano seguito quella telefonata mi ero sentita dispiaciuta per il modo in cui mi ero comportata con mio padre.

<<Mi dispiace per come ho reagito l'ultima volta, papà. Non volevo. Dico davvero.>>
<<È tutto a posto, Mills. Non scherzare. Sono io che sono stato superficiale. A volte quando si arriva alla mia età... beh, a volte ci si dimentica che da qualche parte nel mondo le persone si possono ancora innamorare in modo sincero.>>
<<Oh, senti un po'. Quando sei diventato così cinico, eh? Sarà colpa di Rebecca? O di mia madre?>>gli domandai, ridendo.
<<Beh, di entrambe, naturalmente>> rispose.
<<Certo, la colpa è sempre di noi donne, eh?>>

Ridemmo insieme. Dal finestrino del treno, la vegetazione spoglia di dicembre avvolgeva ogni scampolo di quel freddo panorama.

Com'erano lontani già i giorni estivi! E come sembravano essere stati parte di un'altra vita, quasi!

<<Tra poco sarò a casa, papà. Hai preparato vagoni di popcorn?>>
<<Oh, ma certo, tesoro. Ne mangeremo fino a scoppiare. Guardando film e serie tv. Ci stai?>>
<<Ci sto>> risposi.

E pensare ai popcorn mi fece tornare per un momento ad Alicia, alla sua maniera di affrontare la vita, sempre a testa bassa e sempre con il sorriso in volto.

Sorrisi anch'io.

Poi, la neve cominciò a cadere.

Una storia d'amore d'estateDove le storie prendono vita. Scoprilo ora