Capitolo 2

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Novembre, 1991

Nel Mid Atlantic statunitense le notti erano gelide come briciole di vetro dissipato e le mattinate erano invece miti e asciutte.
Dianna aveva vagato per tre giorni lungo la costa dello stato del Virginia, ma ancora non aveva stretto amicizia con quelle escursioni termiche tanto sbarazzine che le facevano mulinare la testa.
La veste bianca le si barbicava divinamente sui fianchi, solleticandole le caviglie forgiate dal mare, e chiunque, nel vedere la ragazza, avrebbe pensato la sua figura somigliasse ad uno spettro trasparente, se la sua capigliatura fiammante non fosse spiccata come un incendio in un ghiacciaio.
Stringendosi nelle spalle, aveva camminato quattro miglia per raggiungere la costa interna, quindi le gambe iniziavano a dolerle e le guance a intirizzirsi. Aveva avuto però la fortuna di trovare grandi cassoni costeggiati a bordo strada colmi di vecchi indumenti che i cittadini lanciavano e accantonavano, dunque aveva rifornito il suo abbigliamento, rendendolo più accessibile all'occhio comune. Aveva stretto una cintura alla vita e indossato alti stivali, coprendo invece le sue spalle con una corta giacca nera rifinita in un tessuto che sembrava voler scartavetrare la sua pelle.
Spesso, nella notte, si udiva solo il suo lento camminare tumultuoso, accompagnato dal respiro gelido di Eolo. In effetti le sere erano piuttosto fredde, lì.
Quando alzava gli occhi al cielo, Dianna vedeva la luna e ne rimaneva accecata; quindi si sedeva nei parchi e restava in silenzio a contemplare la sua melodia. In tutta la sua vita, aveva osservato solamente il riflesso imbevuto d'acqua di quel focolare dorato, che ora pareva baciarle la pelle in un vivo atteggiamento.
Raggiunse la meta il sesto giorno di cammino, al preludio del tramonto.
La contea di Mathews era un convoglio di incroci e strade scialbe affacciate su un lembo di mare. Appariva quasi arretrata rispetto al resto del mondo. La squallida fuliggine spesso nascondeva il passaggio di strane forme animate che si reggevano su due ruote, sollevando schizzi di melma e di fango, per poi procedere sbandando e sobbalzando, come fuggendo da una terribile sciagura. Dianna non avrebbe saputo definire cosa fossero e ne rimase spaventata.
La costa era affollata di banchine, catamarani e di numerose imbarcazioni dalle sartie lacere e poco resistenti. Nel complesso, era una cittadina modesta e compressa in una piccola insenatura.
Per questa ragione Dianna trovò con facilità l'istituto indicato da Ehona. Era nascosto in una conca scavata in un angolo di vegetazione che in passato -pensò Dianna- sarebbe dovuto appartenere ad un fitto bosco oramai sgranchito.
Suo padre le aveva assicurato che nel Massbury Institute avrebbe studiato e frequentato numerosi corsi con cui intrattenere il suo tempo, ma ella non conosceva nulla di simile e per quanto si sforzasse di immaginare una vita da studentessa umana, la sua scarsa e nulla esperienza glielo impediva.
E restò quindi sconcertata quando alzò il mento e lesse l'effige della scuola intagliata nel tronco di un alto cipresso. L'istituto era in languidi mattoni rossi ed era costellato da piccole finestre simili ad occhietti malvagi corrucciati in una smorfia di feroce bramosia. Pareva un largo anfiteatro greco che abbracciava il vuoto. I suoi artigli sciorinavano veleno e i tetti gotici svettavano verso l'alto squarciando il manto ceruleo con la loro superba imperiosità. La struttura incedeva con un ghigno maligno ed era delimitata da un ampio porticato serpeggiante che ricordava le antiche logge settecentesche. In lontananza, invece, sbucava una piccola cupola incorniciata da numerose vetrate opache.
L'aria era quasi stantia e avvolse Dianna in una morsa febbrile. Un cancello in ferro battuto snodava le sue viscere verso il cielo, racchiudendo dietro di sé un cortile avvilito dai colori spenti e tetri.
Un'umanità vuota.
Un vasto piazzale si coricava come un tappeto di mosaico carminio davanti alle ali esterne dell'edificio, dove ora, al crepuscolo, pochi studenti si trastullavano su alcune panche. Altri preferivano tornare nelle proprie camere come un gregge di formiche brulicanti.
Dianna portò i capelli su una spalla e sospirò. Se quella galera rappresentava il luogo che l'avrebbe tratta in salvo, la questione si prospettava interessante.
Avanzò di un passo ed entrò. Il cancello era aperto e dalle sue inferriate pendeva dell'erba rinsecchita dal tempo bagnata da un denso liquido nerastro, che gocciolava mollemente e rifluiva in una grande pozzanghera. Dianna deglutì e sbatté le palpebre un paio di volte, trascinando i suoi stivali in avanti.
"Dovresti reputarti fortunata, ragazza." Una voce fece voltare Dianna improvvisamente, lo scatto felino.
Una donna si stagliava gelida accanto al cancello, stretta in una divisa nera che sembrava soffocarle il petto. Un basco rigido le si calcava sulla nuca, ombreggiando i suoi piccoli occhietti scuri che si incavavano in un volto altrettanto pessimista. Le sue labbra si strinsero in una linea sottile, quando aggiunse: "Le bestioline di questa scuola vengono recluse dopo le diciotto, i cancelli si chiudono." Poi guardò distrattamente l'orologio al suo polso. "Evidentemente sei arrivata qualche minuto prima. Chi cerchi?" Alzò il mento con fare perentorio e incurvò le sopracciglia sulla fronte increspata.
Il vento lanciò un ultimo schiaffo e la ragazza rabbrividì un poco. "Sono una nuova studentessa. Devo iscrivermi... qui."
Le guance della donna si gonfiarono in una risata goffa e si portò una mano al petto, reclinando il capo. "Oh, chissà da dove provieni per non sapere che qui ti ci spediscono e quando arrivi hai già la camera del dormitorio prenotata. Nessuno studente ha mai gioito sapendo di dover trascorrere l'adolescenza nel Massbury Institute." Sospirò. "Evidentemente qualcuno si è voluto sbarazzare di te per infilarti qua dentro, e non mi guardare così, la mia schiettezza può essere pungolante, ma ti dico solo la verità, ragazza," concluse la con voce baritonale, avvicinandosi a Dianna e posandole la grossa mano tornita su una spalla e avanzando con lei. "Vieni, ti faccio vedere dov'è l'inferno."
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La custode dell'istituto non era in errore: quando Dianna aveva varcato la soglia della segreteria scolastica -un complesso di pareti scroscianti e sbiadite- il preside conosceva già il suo nome. Lo teneva segnato su un fascicolo snutrito posato sulla scrivania, e le aveva detto che la stava aspettando. Quando Dianna gli aveva pacamente domandato chi avesse inviato la richiesta d'iscrizione, l'uomo le aveva risposto che non ricordava e che non aveva importanza.
Dianna aveva pensato ad Ehona.
"Oggi faccio lavoro straordinario." La custode posò nuovamente la mano sulla spalla della ragazza e la condusse verso uno stretto corridoio angusto. "Solitamente sono gli studenti a dover trovare il loro dormitorio, ma farò un'eccezione." E, detto questo, svoltò bruscamente in un traforo deserto, dove una schiera di lanterne oscillava oltre il soffitto con un mesto cigolio, lampeggiando una luce flebile che proiettava ombre astratte sulle pareti bianche.
La custode biascicò qualche parola incomprensibile cui Dianna si limitò ad annuire, strizzando gli occhi per il dolore lancinante che le perforava la spalla alla stretta polverizzante della grossa donna.
Poi salirono due rampe di scale a chiocciola dalle assi crepitanti. La sirena lasciò perdere il suo sguardo nel buio languido oltre il parapetto, ai piani inferiori, che si sgrovigliavano come bozze d'inchiostro nero. Dopodiché increspò la fronte, perplessa. "Che c'è là sotto?"
La custode le lanciò un'occhiata in tralice. "Questa scuola è molto vecchia. Un tempo era un carcere, e laggiù c'erano le celle dei condannati a morte americani tenuti in ostaggio dalle armate inglesi. I galeotti, insomma. Adesso ci sono le celle degli studenti ribelli, un covo geniale per i trasgressori."
Dianna sentì morire il battito del suo cuore e, istintivamente, provò a sgusciare via dalla sua presa.
"Per dio, sto scherzando. Da dove vieni, ragazza? Sembri così suscettibile. Las Vegas? Oh... no, il tuo volto sembra russo... questi capelli rossi, poi..." rifletté la donnona interessata, prima di scuotere il capo vigorosamente e lasciare che le sue guance balzassero acidamente. "Tre regole da conoscere se vuoi vivere qui. Uno, non oltrepassare i cancelli dopo le diciotto. Un gruppo di ragazzi ha tentato la fuga, anni fa, ed è rimasto incastrato tra il filo spinato. Due, le leggi del preside sono pane e acqua. Guai a te, ragazza, se trasgredirai alle discipline. E tre, ricordarsi di seguire le prime due regole. Intesi?" Le lasciò un confidenziale buffetto sulla guancia e la spinse in avanti.
Dianna si trovò dinanzi ad una delle tante porte in noce antico della corsia dei dormitori, sul cui rivestimento erano stati intagliati graffiti confusi ed intrecciati.
Vi provenivano alcuni mormorii strozzati che strisciavano oltre la soglia.
"Purtroppo, mia bella, dovrai condividere la camera 73 con un paio di sciagurate..."
E la porta fu aperta con un secco colpo diretto alla serratura.
"Ma che diavolo...?" Due giovani visi si nascondevano dietro un vecchio stereo che lanciava una sinfonia gutturale e rumoreggiante. Le due studentesse descrissero una lenta parabola con lo sguardo, puntandolo verso Dianna. Sembrarono squadrarla curiosamente per un momento, inclinando le teste e socchiudendo le palpebre. Dopodiché notarono la custode alle sue spalle e si affrettarono ad alzarsi sull'attenti, spiccando in una postura rigida e servizievole. Dianna non poté fare a meno di notare lo scuro abbigliamento della ragazza che schiacciò con grande agitazione le proprie mani sopra lo stereo e lo mise a tacere.
La custode posò un dito sul mento e chinò il capo, prendendo ad avanzare nella stanza con le flaccide braccia intrecciate dietro la sua schiena. "Cosa dice il regolamento d'istituto?"
"Niente musica nelle stanze dopo le lezioni pomeridiane." Le due ragazze cinguettarono all'unisono e sembrarono rabbrividire quando la grossa donna ronzò attorno ai loro corpi.
"Molto bene, molto bene..."
La piccola bocca dello stereo venne aperta con un pugno e la cassetta che vi riposava dentro fu strappata con violenza.
La studentessa in nero avanzò di un passo. "Ma..."
"Taci, canaglia! Non sono qui per rimbeccarmi con te." La donna calcò le sue grandi mani sopra le braccia di Dianna. "Lei è una novella. Non credo le piaccia questa scuola, quindi fate in modo si ricreda presto." E, detto questo, la custode lanciò un ultimo sguardo assassino alla stanza in parapiglia e si dileguò girando sui tacchi. Nell'uscire, la costura dei suoi pantaloni s'impigliò alla maniglia della porta, quindi bestemmiò sommessamente con voce confusa.
La giovane in abiti scuri si avvicinò e una catenella dorata oscillò sopra il suo bacino; prese ad osservare Dianna con occhi avidi. Erano molto grandi, i suoi, di un grigio perla che sembrava fondersi con il plumbeo del cielo, come se ne ricavasse la stessa energia. Era quasi giocoso il contrasto che essi creavano con i suoi capelli, invece, appiattiti sulle orecchie come lunghi fili neri rilegati con polvere di carbone. La ragazza le posò una mano sulla schiena e la spinse in avanti. "Io sono Jana Vàclav, e posso assicurarti, mia novella, che in realtà questa scuola è uno spasso!" Sorrise convinta e annuì con vigore alle sue stesse parole. Poi prese a gesticolare, enfatizzando. "Quando inizi a vivere qui riesci ad accontentarti di un nulla, perchè è nulla quello che hai, e ti diverti con quello. Non ti annoi, se sai come sfruttare il tempo," concluse poi, lanciandosi su un letto logoro che precipitò verso il pavimento sotto il suo peso.
Un cigolio molle fiorì nella stanza. Era piuttosto slavata, con una piccola finestra sbarrata che sorrideva sghemba e con tre letti, di cui uno spoglio, sudicio e addossato contro una parete, e due a castello, che si innalzavano come decrepite fortezze greche. Una scrivania era ancorata ad un'altra parete assieme ad un armadio in palissandro ossuto dalle ante penzolanti che oscillavano ritmicamente verso il vuoto. Per il resto, rimaneva in un angolo solamente un'antica lucerna sopra uno scrittoio in mogano.
Dianna si strinse nelle spalle e guardò Jana. "Ti piacciono i vestiti neri."
La giovane sembrò ridestarsi e spalancò gli occhietti. "Diamine, il nero è rock!" Balzò in piedi. "E' il mio modo di vedere il mondo. Il rock è grinta, aggressività, prontezza di spirito!" Strinse le dita a pugno e caricò lo sguardo di passionalità.
La sirena guardò in basso per un momento. "E che... che cos'è?"
Jana sembrò perdere l'equilibrio. Aggrottò la fronte e spalancò le labbra, scettica. Dopodiché portò le sue unghie nere sul viso, come a coprirsi da un sole accecante. "Che cosa?! Non sai cos'è il rock? Gli AC/DC potrebbero maledirti. Da dove... santo Cielo, il cavallo di Troia ti ha appena vomitata e fatta rotolare qua?"
Fortunatamente, non notò il balzò di Dianna. "In realtà... non prop..."
"Fichi i vestiti, comunque. Se io sono una rocker, tu sembri una hippie con un focolare sulla testa," ammiccò ai suoi capelli e poi alla cintura che Dianna teneva ancora stretta in vita sopra l'abito latteo.
Dianna annuì, senza convinzione. Poi si sfilò la giacca nera e la posò sopra un letto, accorgendosi però di avere freddo. Seguirono attimi di silenzio. Jana sedeva a gambe incrociate al piano basso del letto a castello e controllava la laccatura delle sue unghie.
Gli occhi di Dianna furono rivolti in alto. L'altra studentessa era rannicchiata sotto un acconcio di coperte sprimacciate e reggeva lo sguardo chino sulle sue collane. Quando la guardò, Dianna incontrò un paio di occhi selvaggina dietro una grande montatura di occhiali da vista, le cui aste si schiacciavano contro una capigliatura impetuosa che turbinava in un'arricciatura increspata. La ragazza la fissò per un lungo istante, poi distolse bruscamente lo sguardo, strappandolo con foga.
Dianna trasalì. "E lei... lei chi è?"
Jana strizzò il collo e guardò in alto. "Ah, lei è Elena, Elena Page. In realtà non è molto di compagnia, sta sempre zitta. Sì, parla poco. Legge quella roba là e ci piange sopra. Dice che si chiamano... si chiamano.... manga, ecco, pupazzetti disegnati."
Sotto la coltre di capelli, Elena le lanciò un'occhiata fulminea.
Jana continuò. "Porta sempre al collo due ciondoli. Uno con il numero 7 e l'altro con il numero 13. Perchè i suoi genitori sono morti in un incidente stradale alle sette e tredici del mattino e lei dice che da quel momento in poi hanno iniziato a parlarle dall'oltretomba. Chissà, probabilmente sono reclusi con Ade."
Dianna arrossì e finse di non aver colto la tremenda ironia dell'ultima frase.
"Ah, poi compone poesie, romanzi e cose varie ambientate in Giappone. E non me ne chiedere la ragione, perché non la conosco e poco mi interessa conoscerla." Jana allungò un braccio verso lo scrittoio. "Quella è la sua macchina da scrivere datata 1979, e ti consiglierei vivamente di non toccarla se tieni all'incolumità della tua mano. Probabilmente questo è tutto quello che c'è da sapere su Elena, ma ora saremo in due a continuare le ricerche, ti va?"
Dianna non rispose, era affogata nei suoi pensieri. Il suo sguardo era ancora in alto, vitreo, fissato ai piani alti del letto a castello.
Per un breve istante le sembrò che Elena ricambiasse il suo sguardo e le sorridesse.
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Salve ragazze!
Nel capitolo precedente avevo scritto che sarebbe apparso un personaggio a cui sono molto legata. Questo personaggio è stato appena presentato: è Elena. Ho raffigurato una persona che a me è molto cara. Anzi, cara è riduttivo.
Per quanto riguarda Jana, invece, volevo inserire uno spirito rock, una ragazza dalla tempra forte. Nel prossimo capitolo verranno introdotti altri personaggi indispensabili per il proseguimento della storia, e ogni dettaglio che li contraddistingue è necessario e si ripresenterà.
Non manca molto all'arrivo di Tritone, comunque!

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Fatemi sapere che ne pensate, per me i vostri commenti contano molto.
Grazie mille!

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