L'impatto con il suolo gli fece urlare ogni vertebra. Di tutto il trambusto che aveva vissuto sulla propria pelle durante la battaglia, quella caduta fu la più dolorosa. Forse non esattamente per le fitte elettriche che sembravano ora viaggiare tra ogni arto del suo corpo e per la ferita sulla coscia che si scuciva dalla sua fresca cicatrice, ma per l'atto stesso di essere caduto.
Non ci sarebbe stata umiliazione, perdita e sconfitta più pesante, si era ritrovato a pensare Tristan in quel frammento di secondo in cui il suo corpo si era distaccato dalla sella e si era incuneato per piombare scoordinatamente sulla sabbia.
"Anche i re cadono, mi sembra di capire..."
Tristan riuscì ad aprire gli occhi che bruciavano di un intenso pizzicore. Aveva le ciglia incollate e la sabbia sfregava sopra il bianco dei suoi occhi e impegnò più istanti per mettere a fuoco la figura di Eryx che troneggiava davanti a lui. Il fratellastro gli stava puntando la sua lunga spada sul petto e Tritone non riuscì dunque a sollevarsi a sedere.
Ma Tristan rispose: "I veri re cadono nobilmente."
"Se cadere per..." Eryx si voltò per lanciare un'occhiata a Dianna, "per amore è da considerarsi un atto nobile, potremmo dire di sì." Dall'elmo greco scivolava una ciocca che cadeva sul naso spigoloso e irregolare, conferendo al suo viso un'orrida parvenza aquilina. "Adoro le scene romantiche, quegli atti eroici che gli uomini compiono per scrivere il proprio nome nella storia. Purtroppo uno dei due amanti non sopravvive mai, ma l'importante è che muoia chi decido io."
In quel momento, a Tristan parve quasi un peccato aver paura. Detestava ammetterlo a se stesso, riconoscere l'identità di quella sensazione che gli paralizzava persino la testa, ma, sì, aveva paura.
Il suo timore, però, non era in stretto contatto con la morte. Quest'ultima, a conti fatti, sarebbe stata solamente un ottimo mezzo per metter fine alla sua eternità sin troppo eterna.
Tristan aveva paura per lei, e, ad altri occhi, una simile sensazione sarebbe stata vista come un'ulteriore conferma dell'amore che lo legava a lei, ma a Tritone poco importava di un tale riconoscimento pubblico.
Nella sfera della passione, nel vortice dell'amore, prediligeva l'intimità, desiderava più di ogni altro legittimo desiderio custodire ogni suo sentimento per Dianna, e gli era necessario solamente sapere che lei era certa di come lui la amasse grandemente.
Era estremamente geloso delle braccia che avrebbero potuto toccarla in sua assenza, perché queste non avrebbero avuto lo stesso delicato tocco delle sue.
Era geloso persino di un'ipotesi e di una previsione lontana.
Eryx spostò la lama della spada verso il collo di Tristan e ne premette la punta lì, dove la trachea si gonfiava nel pomo di Adamo, e Tristan dovette evitare di deglutire la bile che gli era salita sino alla lingua.
Era sprovvisto, disarmato, come nudo: la sarissa era oramai lontana e la daga, scivolata fuori dalla sua guaina, riposava accanto al suo bacino, ma se si fosse mosso per allungare un braccio e recuperarla, la spada di Eryx sarebbe stata sempre lì, bramosa di ucciderlo e di trafiggergli la gola.
Ma Dianna era alle spalle di Eryx, ancora bellissima e regale, seduta sull'unico frisone del campo di battaglia, e stava guardando Eryx. Dapprima, si era sollevata in un grido quando aveva visto la freccia di Eryx conficcarsi nel ventre dello stallone di Tristan, e aveva urlato ancor più energicamente quando aveva sentito nel cuore un tonfo dato dalla vista di questi cadere.
La sirena avanzò di un poco e il suo destriero alternò elegantemente uno zoccolo e un altro nel passo. Poi si allungò verso Eryx e, con un dito, picchiettò sulla sua spalla, come a richiamarlo.
Tristan trattenne il respiro alla sua imprevedibilità.
Eryx si voltò istintivamente verso Dianna, ma commise l'errore di guardarla negli occhi: senza indugiare, la sua occhiata femminile lo indusse ad una tacita resa e poco dopo Eryx si ritrovò ripiegato sulla sabbia con le mani sulle orecchie ad urlarle in preghiera di far cessare quel qualcosa a cui lui neppure riusciva a dare un nome.
In quell'arco di tempo, Tristan riuscì a rimettersi in piedi e si chinò ad afferrare la spada di Eryx che era caduta sul suolo. Fu con quella che, alle spalle, lo trafisse.
Tritone trovava ci fosse qualcosa di estremamente crudele e sdegnante nel colpirlo con la sua stessa spada, ma era di una tale disumanità che aveva bisogno. "Peccato, ho il braccio particolarmente indolenzito e ti ho mancato il cuore," gli sussurrò all'orecchio con le labbra serrate, impugnando con più fermezza l'elsa e spingendo maggiormente la spada dentro il suo corpo.
Dianna, che anche stava assistendo ad una simile tortura, vide solamente la punta della spada retta da Tristan sbucare dal petto di Eryx, vide questi spalancare la bocca e vomitare sangue e lo vide accasciarsi al suolo in una rossa agonia.
Quando Eryx cadde, Tristan girò lentamente la sua mano in ogni direzione: osservò le proprie unghie incrostate di sangue e sabbia e notò sul palmo della mano la forma dell'elsa della spada impressa sulla pelle come un solco, un marchio. Solamente dopo aver dedicato una scheggia di tempo nel dedurre cosa avesse appena fatto, Dianna lo vide correre verso il corpo di Kassandros.
Forse, era la prima volta che si affrettava armato ma senza destriero, perché il suo mantello sporco si gonfiava sollevando sabbia e polvere, e lo stemma argeade di bronzo sul suo addome sbatteva creando un sottofondo metallico.
Tristan si chinò sul corpo dell'amico e sperò non fosse il suo capezzale. Gli sollevò la testa delicatamente e sfilò dal suo petto l'arma che l'aveva trafitto: da come il sangue prese a sgorgare con un vivo flusso denso e vermiglio, ne dedusse come Kassandros fosse ancora in vita. Infatti, questi aprì leggermente gli occhi e schiuse le labbra per esprimere dolore con un mugolio quando Tristan lo sollevò a fatica, portando sulle spalle il peso dell'amico, di entrambe le loro armature e del proprio dolore fisico. "Resisti, amico mio." Tritone comunicò con Dianna grazie ad un breve cenno del capo, e la sirena si avvicinò a cavallo. Kassandros fu adagiato inerme sulla sella e il suo corpo ricadde verticalmente sulla criniera del suo stesso stallone. L'animale riconobbe il profumo, l'animo magnanimo e il dolore del suo cavaliere, e pianse in deboli nitriti. Poco dopo, anche Tristan si issò sulla sella e raccolse le redini tra le dita. Dianna si strinse a lui e gli posò le mani sul petto, abbracciandolo da dietro e posando il mento sulla sua spalla in un evidente ma silenzioso sollievo di sentirlo ancora.
Mentre Kassandros, completamente rilasciato e privo di forze, continuava ad ansimare trafelato ed affannato, chinando il capo per sputare rigagnoli di sangue, Tristan alzò il mento e passò in rassegna il campo di Alexandroupolis con lo sguardo severo. Sebbene fosse completamente ricoperto di sangue e la sua pelle fosse screziata dalle innumerevoli ferite, il modo in cui drizzava la schiena era sempre lo stesso: nobile e capeggiante. "Ippotoo," sussurrò tra i denti muovendo gli occhi, "dov'è quel bastardo?" E si diede al galoppo con un veloce colpo di sprone.
Tuttavia, erano rimasti ben pochi avversari superstiti e questi si abbandonarono alla resa: infatti, si inginocchiarono, prostrandosi con sconfitta ai piedi dei guerrieri dell'esercito di Tristan che li minacciavano con una spada alla gola. Eryx, invece, giaceva ancora dolorante e sanguinante sulla sabbia, sprovvisto persino della forza di alzare una mano e di portarla al petto per estrarre da quest'ultimo il lungo pugnale che gli martoriava i sensi. Al suo fianco, però, Ippotoo non c'era. Non vegliava sul suo corpo macilento, ma si era evidentemente dato alla fuga.
Dunque, Tristan pensò fosse una buona occasione per strappare dal cuore di Eryx la vita e -serrando la mascella- fece per smontare di sella. "Lo uccido."
Dianna, sebbene desiderasse la medesima cosa, tese una mano e lo afferrò per un braccio, bloccandolo. "No, fermo!" Lanciò un'occhiata a Kassandros che ora sbatteva e raggrinziva ripetutamente le palpebre come per sopportare un dolore al di fuori della sua portata. "Sta perdendo molto sangue e non c'è più tempo. Lascia la vendetta ad altri."
"Lo devo uccidere io!"
"Non è scritto da nessuna parte ciò." Dianna era calma.
"E invece sì!" sbottò Tristan voltandosi fulmineo per osservare la sirena alle sue spalle. I suoi occhi erano piccole scintille che avrebbero potuto generare un vastissimo incendio di corpi.
Dianna, tuttavia, decise di non rispondere a quello sguardo con uno altrettanto inflessibile. Bensì, lo guardò con comprensione, ma al contempo con dolcezza e con una tenera premura.
A quel punto, anche Tristan seguì lo sguardo della sirena e lo posò sull'amico che tentava vanamente di reggersi al suo petto: il suo corpo pesava di stanchezza, di forza sciolta, di ferite e di sangue. Tritone rimembrò i più bei momenti fioriti durante la loro millenaria amicizia, e pensò che Kassandros -se il fato avesse deciso di essere avverso- meritava una morte dignitosa. Quindi annuì, ma prima di dileguarsi con un'amara vittoria tra le mani, disse: "Aspetta un attimo." E lasciò scorrere lo sguardo oltre: i nemici erano stati completamente abbattuti e sul campo rimanevano, di sedici, solamente quattro battaglioni della falange, indice non positivo delle tremende perdite che, nonostante la vittoria, il suo esercito aveva subito. L'oltretomba sarebbe stato abbastanza grande per ospitare le grandi anime di quegli uomini pugnaci e formidabilmente tenaci? pensò.
Ma i nemici più grandi, però, erano ancora in vita, seppur brancolanti. I sei Titani respiravano ancora dalle enormi froge. Dianna ne aveva indolenzito solamente un paio, e i restanti quattro erano stati piegati dai continui colpi inferti da parte di enormi gruppi di uomini che si erano distinti nel coraggio. E Crono, Giapeto, Iperione, Oceano, Ceo e Crio erano distesi sul largo campo, riempiendone una grande lunghezza.
Dopodiché, Tristan guardò gli Olimpi: essi erano ancora magnificamente seduti sui loro destrieri, con le corazze intatte e i lineamenti riconoscibili, ad eccezione di Apollo che portava addosso il sangue del nemico che le sue frecce avevano lasciato schizzare. Vide anche Ermes armeggiare con i suoi due serpenti che si volsero attorno al caduceo divino, pietrificandosi stanchi, e al fianco del messaggero degli dei notò suo padre: Poseidone sembrava assorto, ma si leggeva nei suoi occhi che, da qualche parte, la sua mente doveva essere vigile.
Fu a quel punto che Tristan sfrecciò al galoppo verso suo padre, come se una luce gli avesse abbagliato la mente e gli avesse aperto un nuovo mondo. Giunse al suo fianco sollevando sabbia e lasciando che il frisone di Kassandros sprofondasse i suoi zoccoli nel suolo impregnato di sangue.
Poseidone non fece neppure a tempo a voltarsi verso il figlio che questi, con un movimento tanto istintivo quanto veloce, gli strappò con foga il tridente dalla mano destra e lo alzò al cielo, inclinato verso il mare.
Tristan sollevò potentemente quelle onde, sino a che esse non si arcuarono spumose, vicine a toccare le nubi plumbee, e il campo venne oscurato dall'ombra nera di quella parete acquosa che ora troneggiava.
Dopodiché, mosse il tridente e scagliò forse tutto il mare contro i Titani.
Le antiche belve vennero travolte dall'acqua e, poco a poco, impossibilitati a reagire per la debolezza, si spensero sotto annegamento.
Ma Tristan non poté avere neppure un attimo per provare ad esultare, perché suo padre Poseidone si voltò verso di lui con occhi di fuoco e pelle rutileggiante dalla rabbia. Guardò il tridente che il figlio gli aveva irrispettosamente strappato di mano e sussurrò infernale: "Come hai potuto?"
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Kassandros aveva la pelle cianotica e le palpebre segnate dai sottili rami di vene violacee che correvano lungo tutte le due curve dei suoi occhi chiusi, che, forse preda di incubi, tremavano con veloci spasmi. Solamente qualche zona del suo viso presentava alcune macchie bianche, in particolare dove la pelle era stata scortecciata dal continuo raspare della sabbia che, durante la battaglia, aveva spinto su ogni viso, altrimenti dalla sua carnagione chiunque avrebbe pensato che il sangue si fosse ossidato sotto la sua pelle.
Il magnanimo ferito si ridestò d'improvviso, alzandosi di poco a sedere nelle forze di riserva di cui ancora disponeva per tossire e riversare le ennesime gocce di sangue.
Tristan era al suo fianco da ore, oramai, e si prodigò senza indugi a versare dell'acqua in un piccolo calice da accostargli alle labbra. "Bevi," sussurrò, posandogli una mano sulla spalla e reggendolo. Avrebbe voluto stringergli le mani ed esortarlo a resistere, a richiamare ancora la vita a sé, a non lasciarla a sfuggire, a tenerne le redini, ma i suoi palmi erano sfregiati da profondi tagli che sembravano non avere né inizio e né fine, bensì parevano estendersi su verso i polsi e giù in direzione delle unghie corte e spezzate.
Dopodiché, Tritone versò l'acqua rimanente nel calice che Kassandros non gradiva e la utilizzò per umettare un panno di stoffa che posò sopra la fronte dell'amico.
Anche Dianna stava assistendo alla scena, ma era abituata a non dare nell'occhio, a non tuffarsi nelle situazioni che la ferivano già oltremodo se osservate dall'esterno. Però vedeva, e in questo poteva considerarsi molto capace: notava ed ammirava silenziosamente la premura che Tristan riservava all'amico e vedeva quanta solidarietà e quanta virtù riposavano nei suoi occhi. Era il riflesso ineccepibile dell'eroe greco descritto da ogni cantore: valoroso, con un eroismo assoluto e con un codice di comportamento che poteva solamente essere emulato.
Seguì il silenzio, rotto solamente da una debolissima voce quasi assente. Kassandros mormorò adagio: "Morirò... vero?" E allungava le mani per toccarsi la ferita al petto.
Tristan intuì il suo movimento e gli afferrò la mano prima che potesse infettarsi e nuocersi da sé. "No." Tuttavia, sembrava in difficoltà nel mostrarsi menzognere, nell'evitare di rivelargli che una minima possibilità di morte, per lui, c'era. "Gli uomini forti non muoiono mai."
"E se qualcuno... fosse più forte... di te... di me?"
"Nessuno è più forte di me e te assieme, Kassandros." Tristan gli strinse la mano.
Kassandros aprì gli occhi deboli per qualche istante, poi li socchiuse nuovamente perché essi iniziarono improvvisamente a lacrimare, come se non fossero corazzati da una membrana protettiva. "È vero," rispose forse per rassegnazione.
La vittoria della guerra non aveva celato però gli aspetti più tragici e amari che susseguono ogni spargimento di sangue: ora, erano al riparo di un grande tendone, dove sdraiavano su centinaia di lettini da campo i soldati feriti: i più gravi lasciavano la vita con un sospiro e magari lanciando un ultimo ricordo a chi li aveva resi completi e pieni di animo durante la loro lunga -e molto più spesso- breve vita, mentre gli indisposti più autonomi, che riportavano solamente ferite superficiali, riuscivano a reggersi in piedi e a fare visita -o a salutare per sempre- gli altri compagni.
Kassandros non era né l'uno e né l'altro. La sua situazione non era senza speranza, ma non poteva neppure dirsi priva di apprensioni. L'ostico della condizione risiedeva nella pugnalata poco sotto il cuore, che doveva rimarginarsi a fondo, ricompattarsi, prima di essere chiusa in superficie.
Tristan distese delicatamente un braccio per scostare delicatamente il lenzuolo che copriva il corpo del compagno e notò con piacere i graduali progressi della ferita in rimarginazione. Da un piccolo banco accanto prese dunque ago e filo, ma prima che potesse infilare l'ultimo nella cruna del primo, una corsa veloce alle sue spalle lo fermò: Roda aveva appena scostato in tutta fretta i teli del tendone ed era entrata ansimante e in lacrime, con un mantello avvolto attorno alle spalle esili. Le gocce salate che si erano asciugate sulle sue guance avevano inciso numerose ombre rosse striscianti dagli zigomi al mento, e le ciglia erano molto bagnate, come se, in qualche modo, avessero pianto anche loro.
Roda non guardò il fratello, benché fosse visibilmente in pensiero anche per lui, ma rivolse lo sguardo all'uomo che amava. "Kassandros..." riuscì solamente a mormorare prima di inginocchiarsi impietosita e singhiozzante al suo fianco.
Dianna la guardò e pensò che in quell'aria che puzzava di disinfettanti naturali dal tanfo salmastro, solamente l'amore di Roda avrebbe potuto guarire Kassandros. Non letteralmente, però: forse lo avrebbe guarito solamente dentro, ma, in fin dei conti -rifletté Dianna- quando una ferita inizia a rimarginarsi in profondità, ciò che ne resta in superficie è più semplice da smaltire.
Roda prese dalle mani del fratello l'ago e il filo e alzò brevemente lo sguardo verso di lui con un lieve cenno del capo. A quel punto, Tristan si alzò, ma nei suoi occhi non c'era speranza: si erano tinti di pessimismo, di fatalità. E di altro, perché, nel controluce del suo profilo, Dianna li notò lucidi, bagnati, trasparenti. E la sirena sapeva che, anche se investito dai sentimenti, Tritone non avrebbe mai permesso a nessuno di osservarlo nei suoi momenti più ottenebrati. Quindi gli prese la mano e lo condusse verso una grande branda da campo, e Tristan non oppose resistenza. Dianna lo fece sdraiare, lontano dagli sguardi sofferenti degli altri guerrieri che latravano doloranti, e si distese accanto a lui. Poi gli prese il viso e lo condusse al suo petto di donna. Lo abbracciò e lo strinse, baciandogli i capelli sporchi ma che ancora profumavano di coraggio.
Anche lei gli baciò le ferite sulla fronte, sul naso, sulle gote e vi trasferì tutto il suo amore.
Tristan si lasciò stringere, ma non ricambiò la stretta: era troppo debole e le sue braccia, che avevano retto spade e lance per un eccessivo arco di tempo, caddero inermi attorno ai fianchi della sirena.
Dianna, in quel momento, capì che anche gli dei soffrivano, amavano e piangevano.
Uno di questi lo stava facendo al suo petto.
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"Lo ammazzo, lo ammazzo! Lo uccido, gli strappo il cuore con la stessa facilità con cui l'ho concepito! È solamente la cenere della mia essenza e si atteggia da re sul trono. Lo ammazzo, per tutti gli dei!" Poseidone era fuori di sé. O probabilmente era immerso nel suo vero sé e ciò implicava una sfuriata degna di nota e degna del suo stesso nome. Benché ci avesse provato -sebbene la sua indole di natura estremamente istintiva- non era riuscito a simulare neppure una finta compostezza o indifferenza, e ora ogni sua bracciata era letale come la lama tagliente di una ghigliottina. Il suo viso si cambiò tutto, divenne paonazzo e la sua barba già dapprima ispida avrebbe sciolto persino il più piccante pungiglione. Raggiunse il suo trono e vi si resse con le braccia dure, chinando il capo al petto.
Anfitrite, al suo seguito, ricordava ancora sulla pelle la sensazione di sentire il figlio nuovamente tra le sue braccia e, se si fosse concentrata ancora un po', sarebbe riuscita a percepire la scia lontana ma ancora ben distinta del profumo di lui che le discioglieva le paure. Con sussiego e distacco e con la schiena finalmente ben diritta e lo sguardo composto che, sebbene i rimescolamenti dei suoi sentimenti nel cuore, lasciava trasparire indifferenza, guardò il marito. "Ha solamente fatto ciò che tu non sei stato capace di compiere."
Poseidone si voltò con le sopracciglia che scattavano dalla rabbia sopra gli occhi brucianti. "E cosa?" urlò.
"Ha salvato l'umanità, cosa che avresti potuto fare tu. Il tridente era tra le tue mani, nulla di più semplice e nulla di più sottovalutato. Ma tu eri troppo impegnato a sperare che tuo fratello Zeus non si prendesse il merito dopo aver sconfitto tuo padre. Cosa che non ha fatto. Così nessuno di voi due si è rivelato vincitore, bensì nostro figlio. Mio figlio. E non posso dirmi più felice." Anfitrite, per la prima volta, raggiunse il fianco di un umile servitore e distese il braccio con superbia nobile, talmente sentiva dentro di sé vibrare una pace immota.
"Non riesco a ricordare neppure un giorno in cui sei stata dalla mia parte."
"Oh, sono stata dalla tua parte, tempo fa." Anfitrite portò il calice d'ambrosia dietro le labbra di rosa. "Ma ho capito che non ne è mai valsa la pena."
Poseidone chiuse gli occhi e si espresse in convulsi movimenti delle braccia che sbattevano contro le onde, mentre serrava la mascella e gridava con labbra chiuse. Difatti, i suoi zigomi sembrarono esplodere. "Questa! Oh -questa- è l'acida moglie che conosco!" respirò a fatica. "Tritone mi ha mancato di rispetto! Il tridente è il mio scettro, simbolo dei mio potere, della mia supremazia, del mio controllo sui Mari e della mia forza in qualità di dio e lui, sottraendomelo con foga, mi ha disprezzato, è come se avesse disconosciuto la mia potenza!"
"Probabilmente era il suo intento." La pace dentro l'anima di Anfitrite iniziò a vibrare ancor più forte tanto da renderla quasi sadica, perché provava persino un piacere delizioso nel notare la sicurezza del marito incrinata.
"Taci, bastarda!" A fatica, Poseidone si sedette sul suo trono, chiuse gli occhi e strinse il tridente recuperato in pugno: ora, era certo che lo avrebbe custodito con più gelosia. Poi riprese, la voce più grave che viaggiava sul filo sottile tra furia e falsa pacatezza: "Nessuno può toccare il tridente di Poseidone, è un grande reato, un'empietà! Solo il re dei Mari può reggerlo. E sai questo cosa significa? Lo sai? Che da molti Tritone può essere considerato il nuovo sovrano degli Oceani!"
"Ben venga." Anfitrite sogghignò dietro il piccolo boccale, ma il marito non la sentì.
"Deve pagare."
Mentre nelle acque ondeggiava ancora l'eco monotona di quella breve ma calda e pericolosa frase, una figura irruppe quasi dal nulla e si fece vicina al trono. Al trono del padre, evidentemente, perché era Bentesicima. La principessa dei Mari aveva una strana e perfezionata inclinazione nell'infiltrarsi d'improvviso in drammi familiari, come se li sentisse da lontano, come se questi la richiamassero e lei decidesse che necessitavano della sua presenza. Sorrise al padre. Un sorriso sinistro. Uno di quelli che tacciono ma parlano persino più degli occhi. Poi alzò il mento con fierezza e divenne chiaro come, nella sua intricata mente fatta di confabulanti collegamenti, si fosse aperta un'idea. "A differenza di mia madre, io, padre, sono dalla vostra parte. So come poter punire mio fratello. È semplice, nulla di più sottovalutato." E poi aggiunse, sinistra. "Volete ascoltare la mia proposta?"
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Questo capitolo è molto lungo e ricco di avvenimenti! Dunque, Tristan riesce a conficcare una spada nel petto di Eryx, ma non lo colpisce al cuore. Beh, intanto lo lascia sanguinante a terra, che non è poco. Dopodiché salva Kassandros, ma è adirato perché, oltre a non aver ucciso Eryx, non trova neppure Ippotoo. Poverino, voleva ucciderli ahahahaha (Comunque non preoccupatevi, i tre si incontreranno di nuovo tra non molto).
Tritone strappa il tridente dalle mani di Poseidone, affogando il campo di battaglia e uccidendo in questo modo i Titani. Il fevior è sempre stato un pretesto: sapevo sin dall'inizio che doveva essere Tristan ad ucciderli, a dare loro il colpo di grazia. Però è un sacrilegio strappare il tridente dalle mani di Poseidone... è una mancanza di rispetto. È come se ora fosse Tristan il re dei Mari -wowowowo.
Non ho ucciso il vostro Kassandros, sono buona! Anzi, ho voluto mostrare l'amicizia che lega Tristan a lui, per poi dare spazio a Roda -che dolce! Facciamoli sposare!
E che ne dite del Tristan debole che piange al petto di Dianna?
E di Anfitrite che lancia frecciatine al marito tutta soddisfatta? Ahahaha. So che odiate Bentesicima, ma ora lei metterà lo zampino... secondo voi come?
Fatemi sapere che ne pensate nei commenti! Votate e commentate!
Grazie mille a tutti!
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L'inevitabile attrazione
FantasyUna tremenda battaglia infuria nelle profondità del mare, dove le acque giacciono meditabonde. Dianna Cox, giovane sirena dalla bellezza fiammante, è costretta a rifugiarsi in un istituto della Virginia, quando Poseidone dichiara guerra alle vecchie...