Capitolo 20

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Era irrigidito.
Ogni suo muscolo, ogni sua forza, ogni suo briciolo di energia... tutto svanì.
Tutto sembrò essere spazzato via.
Tristan, accostato ad un intreccio di foglie delle alte siepi, guardò Dianna.
La sirena piangeva.
Singhiozzava.
Balbettava.
Poi traeva respiri profondi e disperati nel continuo sobbalzare del suo petto e le sue palpebre tremavano, scosse da un'elettricità improvvisa: quella dell'esplosione più impetuosa dei sentimenti.
Tritone non riuscì a fissare altrove.
Dannazione, dannazione! pensò.
Piangeva.
Lei piangeva!
Quella vista! Oh, quella vista!
Una sirena, una ninfa, una creatura cristallina di cui ancora non riusciva a definire la natura stava piangendo!
Nella sua lunga esistenza, nella sua lunga vita che aveva ricoperto millenni, secoli ed epoche, Tristan aveva eluso ogni sfumatura di tristezza dalla sua vita.
Non aveva mai pianto.
E, ora, quella vista sembrò accartocciare, stringere e strappare ogni suo equilibrio.
Scorgerla piangere si rivelò un impatto molto più profondo, molto più delicato della superficiale compassione: fu come se il rosso vermiglio dei petali di una rosa fosse gocciolato lungo le sue spine, spine che ora sembravano graffiare il suo cuore.
Le sensazioni che sentì furono prorompenti, lo squarciarono.
Si regalò un attimo per osservarla con occhio più vigile, con occhio più acuto e attento: la criniera carminio si sfasciava in ciocche ondulate sopra il viso bianco, il vento le schiacciava contro le sue guance; gli occhi stanchi, esasperati, urlanti e reclamanti pietà si gonfiarono sotto l'onda delle lacrime, che zampillavano come schegge di gemma lungo gli zigomi; la bocca rossa, ora, si rinsecchiva sotto il soffio di quel ciclone che incastonava e raffreddava le gocce salate delle lacrime sulle sue labbra; il piccolo, fragile, esile corpo era scosso da spasmi: Dianna neanche si curava di trattenere la gonna del vestito fantasioso sulle cosce a coprire le sue gambe altrimenti nude. Preferiva portare una mano al petto e battere sui seni, come se desiderasse bussare alla porta del suo cuore per implorarlo di arrestare il suo galoppo.
Gli occhi di Tristan si sbarrarono: d'un tratto sembrò non riuscire a percepire il sangue fluire nel suo corpo, come se quel liquido avesse attecchito alle pareti della sua anima e avesse creato una crosta impermeabile che non gli consentiva di ricevere calore dall'esterno.
Tritone era momentaneamente fuori di sé.
E ciò lo faceva ribollire di rabbia.
I colori, le luci, i suoni, i pensieri, le sensazioni... tutto a lui apparve distorto, come nuovo, come se avesse assunto una forma differente, come se tutto si fosse levigato sotto un altro aspetto.
Fu come se ora riuscisse a vedere le cose sotto un altro punto di vista.
Il combattente, guerriero, spietato e acerrimo spadaccino figlio di Poseidone, ora, era una sagoma di ghiaccio derelitta.
Non riusciva più a muoversi.
Un formicolio corse lungo il suo collo, occupò la sua schiena e si diradò tra le sue gambe.
Deglutì a fatica.
Il vento scompigliò i suoi capelli, li intrecciò, li scacciò. Ma se solo fosse riuscito a scacciare anche le emozioni tumultuose che investivano il suo cuore! Se solo avesse potuto comprendere cosa lo stava rendendo così cieco ad ogni tentativo di recuperare il suo senso di vendetta, i suoi poteri, la sua rabbia, la sua crudeltà.
Era tutto diverso.
In quel momento, Tristan si sentiva diverso.
Si sentiva spogliato.
Quella lacrima, di cui continuava a seguire il cammino sulla guancia di Dianna parve intrappolarlo, rapirlo.
Una dannata lacrima!
Tritone mosse grandi e incerti passi verso la ragazza: la vide arretrare, ma non di troppo, dato che lo sguardo del giovane sembrò essere privo di ogni cattiva intenzione. Quando fu dinanzi a lei, tanto vicino da riuscire a sentire la sua tristezza trapanare anche il suo corpo e insediarsi dentro di lui con la stessa voracità di un uragano in una tempesta, allungò una mano, lentamente, e la posò sul viso di Dianna, come raccogliendolo: con le dita delineò cautamente i contorni del suo viso, dei suoi zigomi, della sua guancia.
Ne sentì la morbidezza.
La vide alzare lo sguardo quasi spaventata, ma al contempo sorpresa, stupita di un gesto nel quale non riusciva però a trovare nulla che andasse oltre la semplice curiosità. I grandi occhi blu della sirena analizzavano ogni suo movimento: di tanto in tanto scostava bruscamente il capo e fingeva di osservare distratta altrove, con le palpebre delicate che si movevano tremanti e altre volte, invece, abbandonava il piovigginoso imbarazzo e spingeva la propria guancia contro la mano di Tristan, come se d'un tratto trovasse quella pelle un rifugio, uno scudo protettivo.
Il ragazzo raccolse sull'indice una lacrima. La guardò e la riguardò, ogni volta con le sensazioni più frementi, sempre più decollanti verso lo sconforto.
Quella lacrima pareva una piccola, minuscola goccia dell'oceano dove l'acqua si tingeva di cristallino, avvolta da un velo trasparente, attraverso il quale non era tuttavia difficile scorgere la tristezza incastonata in quella maledettissima lacrima.
Continuò a guardarla. Tristan sembrò sul punto di vacillare. Le sue gambe sembravano quasi tremare e le sue braccia venir meno in forza, tanto ogni sua energia era stata strappata e sigillata.
Poi schiacciò la lacrima tra pollice e indice, prima che essa lo trascinasse nell'oblio. Dopodiché, quando alzò lo sguardo, neppure ricordò il proprio nome, il proprio passato, neppure ricordò un frammento della propria identità.
Tutto sembrava essere stato risucchiato da quella lacrima.
La sua stessa voce gli apparve lontana, quando sussurrò: "Io... scusa... io... devo andare, devo proprio andare."
E si voltò.
Tristan sentì il respiro molle di Dianna alle sue spalle, seguito dal suo farfugliare confuso, dalle sue parole sconnesse e dalle sue domande inespresse.
Ma, oramai, non poteva più tornare indietro.
Oramai stava procedendo velocemente lungo il viottolo sterrato, fissando il riflesso appannato delle stelle sull'asfalto scheggiato.
"Codardo!" In lontananza, percepì la voce ora irruente di Dianna, che, per l'ennesima volta, gli urlava dietro tutto il suo odio.
Anche Tristan si considerava un codardo: stava fuggendo dinanzi a sensazioni struggenti che avrebbe dovuto radere al suolo.
Un guerriero avrebbe combattuto.
Ma neppure la forza d'animo più ferrea avrebbe resistito dinanzi a quella visione: il viso pallido, angosciato, disperato e bellissimo rigato e appassito dalle lacrime che lui -lui!- aveva provocato.
Per un breve istante, Tristan sembrò pentirsi.
Sembrò pentirsi di tutta la tristezza letta negli occhi di Dianna e si maledisse per esserne stato l'artefice.
Eppure, suo padre Poseidone avrebbe ammirato la sua tenacia in crudeltà, avrebbe elogiato la sua fama di vendetta, avrebbe innalzato la sua malignità.
Ma Tristan, ora, non provava altro che vergogna.
Nei meandri reconditi della sua mente, tentò di seppellire il ricordo delle sue azioni, ma non vi riuscì: esse erano indelebili, erano state incise in profondità.
Che razza di uomo era?
Un guerriero, si rispose.
Ma un guerriero fa versare lacrime?
Sì... No...
Tristan era confuso. Maledettamente confuso. E nel silenzio della notte, continuò a camminare a capo chino, lasciandosi alla spalle l'ombra derelitta del Dance Dark, finché questo non si appiattì sull'orizzonte sfumato, svanendo.
Lanciando un grido soffocato dalla rabbia, si sfilò rapidamente la giacca e la schiacciò nella mano, allacciò le mani attorno ai polsi delle braccia e si tirò su le maniche della camicia, esponendo allo sguardo della falce di luna calante una sottile peluria scura.
Era freddo, il freddo tipico di una notte imbalsamata nel gelo e consumata da un vento invernale che ruota turbinoso, che spazza via le foglie gracili e che risucchia a sé ogni sfumatura di vita.
Ma Tristan non aveva freddo.
I suoi pensieri erano troppo bollenti per permettergli di tremare.
Una leggera pioggia batteva sui marciapiedi della stretta cittadina di Mathews, e alcune gocce s'incastonavano di tanto in tanto nell'aria, creando un velo appannato che negava l'accesso ad ogni briciola di colore.
Era tutto così spento.
Talvolta, vecchie automobili ruggivano in sottofondo e correvano sulla carreggiata dissestata, illuminando con la luce accecante dei fanali l'immagine di Tristan, che alzava debolmente lo sguardo per poi strizzare infastidito le palpebre: quella luce lo abbagliava!
E lui voleva rimanere nell'ombra.
La pioggia si fece più insistente. Una goccia cadde sulle ciglia di Tritone e lo obbligò a sbattere rovinosamente le palpebre. Poi scese sulla sua guancia.
Il ragazzo pensò somigliasse ad una lacrima.
La sua.
Ma calciò via il pensiero prima che esso potesse prendere nuovamente forma nella sua mente, e iniziò a respirare con ansietà, con pesantezza: se avesse badato al tonfo altalenante dei suoi respiri, non avrebbe notato quello dei suoi pensieri.
E, con il cuore in galera, la mente in subbuglio e il corpo di uomo incapace di reagire ad un apparentemente banale capogiro, Tristan continuò a strisciare i piedi sull'asfalto dei marciapiedi di Mathews, rasentando piccole botteghe malferme, negozi d'abbigliamento dalle vetrine gocciolanti e claudicanti pescherie dalle quali proveniva un insopportabile tanfo ammuffito.
Svoltò in un viale alberato che sgattaiolava su un'altura circondata dalla povera vegetazione di un bosco oramai spento.
Ed il Massbury Insistute stese le sue alte guglie rossastre verso il cielo nuvoloso e lacrimante.
Tristan vi si avvicinò, scavalcò abilmente i cancelli arabescati di filo spinato e congelò con un'occhiata gelida l'allarme ululante che fece per sbraitare rabbioso alla sua entrata, mettendolo dunque a tacere prima che riuscisse a trarre un sospiro.
I suoi capelli erano oramai intrisi di pioggia e quelle ciocche dorate abbracciavano saldamente i lineamenti del suo volto, quasi ne volessero baciare la perfezione.
Tritone superò il cortile tetro e camminò sotto il loggiato, giungendo dinanzi ad una piccola porta d'ingresso che spinse con quel briciolo di forza che sostava ancora nel suo corpo per entrare. Dopodiché, si passò una mano tra i capelli e scostò il ciuffo biondo che gli offuscava lo sguardo: miriadi di gocce piovane crollarono sul pavimento dell'androne con un sottile sciaguattio.
Il Massbury Institute era dormiente, buio, spento.
Proprio come la sua energia.
Con il cuore che rombava, si dimenava e s'agitava nel tentativo di strappare e lacerare le vene che lo tenevano ancorato al petto, Tristan Waves portò le mani in testa, pregando l'Olimpo affinché i suoi pensieri roboanti e maledetti riuscissero a tacere finché non fosse ritornato in camera.
Perlomeno, lì avrebbe potuto dare sfogo alla sua -non riuscì a definirla con chiarezza, forse rabbia o forse angoscia inspiegabile.
Era questo il pensiero che lo tormentava: per quale ragione, alla vista del pianto di Dianna Cox, non aveva mantenuto la sua solita compostezza nerboruta e altezzosa? Per quale ragione era rimasto attonito, rapito e straziato da quei singhiozzi?
Perché?
Perché?
Perché? continuava a ripetersi.
E quella domanda scemò in un'eco in sottofondo quando giunse dinanzi alla porta del dormitorio e abbassò la maniglia con un gesto rapido e altrettanto furioso.
Era al sicuro, sì.
Era al sicuro dal mondo esterno, ora.
Era al sicuro da sguardi inopportuni che avrebbero analizzato la sua confusione e deriso il suo momentaneo tentennamento.
Era al sicuro da Dianna Cox, e gli parve dannatamente strana una simile inversione di ruoli, quando era certo dovesse essere la sirena a ricercare disperata un rifugio dagli attacchi di Tritone.
Ma non era al sicuro dai suoi pensieri.
No, quelli continuavano a roteare imperterriti.
Tristan lanciò la giacca che reggeva tra le mani addosso alla piccola finestrella con un urlo strigliato tra i denti, chiuse gli occhi, sospirò e si lanciò sul letto.
Nonostante il buio della stanza, si costrinse a tenere gli occhi aperti e fissò il vuoto.
Perché i suoi sensi erano così in bilico? Perché sentiva di aver perso oramai le staffe dell'equilibrio? Perché non riusciva a riacquistare la forza, se aveva ottenuto quello che aveva sempre desiderato?
Era riuscito a distruggere la forza e i sentimenti di quella sirena, era riuscito a portarla verso la strada del pentimento, era riuscito a farla piangere.
Ottimo, era questo ciò per cui era lì, giusto? si chiese.
Ora, approfittando della debolezza della ragazza, avrebbe dovuto solamente afferrarla a sé, fuggire da quell'istituto sgraziato e riportarla negli abissi, dove l'ira di suo padre Poseidone, dopo aver sfruttato il suo potere nella lotta contro i Titani, l'avrebbe punita in una lenta, tremenda tortura che sarebbe confinata con l'agonia.
Perché era questo il destino dei disertori.
La morte.
Sì, avrebbe dovuto comportarsi così.
Ma non voleva.
D'un tratto, le ragioni per cui suo padre aveva affidato a lui il compito di riportare Dianna indietro sembravano essere svanite.
D'un tratto, tutta la sicurezza che aveva espresso nell'assicurare a suo padre di riportare nel regno dei Mari la sirena sembrava essere solamente un futile ricordo lontano.
Non l'avrebbe riportata indietro.
O meglio, lo avrebbe fatto quando avrebbe scoperto cosa, ora, lo stava rendendo così debole.
E a questo non riusciva proprio a trovare risposta.
Forse perché erano le domande eccessivamente confuse.
Dianna, con il suo pianto, aveva mosso in lui qualcosa che andava ben oltre il temporaneo pentimento o la compassione.
Era qualcosa di più forte, qualcosa di più radicato.
Tristan riuscì a vedere, nel buio della notte, i contorni del viso di Dianna che si plasmavano nel nulla: riconosceva i suoi lunghi, serici e fiammanti capelli rossi, i suoi occhi screziati del blu più caldo, le ciglia scure che sbattevano come ventagli, le labbra rubino, la pelle bianca, il petto florido di donna allo zenit della sua splendida presenza.
E ne trasse un'unica conclusione: quella bellezza, quella purezza, quella forza tenace che, però, se frantumata, irrompeva con impeto nello sconforto, quelle lacrime, quella voce, quel sorriso e persino quell'odio giusto e fondato che gli rivolgeva ad ogni sguardo... tutto... lo avevano stregato.
Quindi si rassegnò: oramai, in un frammento di istante, aveva perso.
Tutti i suoi desideri di vendetta, crudeltà, malignità. Svaniti al vento.
Dianna aveva vinto.
Con un sospiro, Tristan cercò il cuscino del letto e vi affondò il capo.
Sperò di non sognarla, quella notte.
Non avrebbe sopportato di vedere il dannato viso di Dianna trastullare e provare ancora la sua forza.
Non ce l'avrebbe fatta.
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Ma povero Tritone! Ahahaha, è proprio caduto nella trappola cucita dal fascino di Dianna!
Che stia forse cedendo? Si vedrà...
Voi che ne pensate?
Vi ricordo di badare ai dettagli, anche a quelli minimi, perché lavorerò su quelli.
Per quanto riguarda il prossimo capitolo -che sarà diverso dagli altri- vi consiglio di rileggere la seconda parte del capitolo 4.
Grazie mille a tutte, e votate e commentate!

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