Capitolo 50

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Dianna sedeva sulla schiena arcuata di un lipizzano beotico grigio, un cavallo formidabilmente elegante, con una criniera fitta e setosa, un piccolo ciuffo bianco che scendeva sul muso a separare due occhi neri grandi e fedeli ed il manto morbido e liscio. Talvolta si sporgeva a carezzare il suo garrese piatto, afferrando poi le redini e agitandole leggermente sulla gola dello stallone per spronarlo a persistere nella lenta ma regolare camminata.
Assieme a Kassandros, in groppa al suo cavallo, un frisone dal manto nero come la notte ma dalla folta peluria bianca sulla cresta, marciava sull'ultimo terrazzamento dell'alto promontorio, dove una boscaglia addormentata attendeva una primavera calda per spuntare rigogliosa. Alcuni faggi racchiudevano protettivamente un circolo erboso, come un alone di luce attorno alla sfera fredda della luna, mentre il muschio tappezzava qualche occasionale roccia che correva lungo il brecciato.
Kassandros conduceva solennemente la camminata, reggendo il suo cavallo per la cavezza e sedendogli sopra con busto diritto e atteggiamento formale, lasciando che il suo sguardo corresse giù ad osservare come, nel largo campo d'addestramento al fianco del braccio di mare, Tristan stesse allenando la fanteria pesante dell'esercito. In lontananza, le lunghe picche macedoni, quelle letali sarisse affilate, parevano braccia magre che si menavano al cielo. L'occhio attento di Dianna scorse Tristan procedere da un guerriero all'altro, mostrando ad ognuno come impugnare la lancia e come scattare sulle gambe allungando la sarissa per trafiggere il nemico. Ad ogni movimento degli uomini, le loro gonnelline si agitavano e ruotavano come piccole girandole bianche.
Quando un sottile velo di bruma adombrò il promontorio, però, risultò complicato distinguere ogni guerriero, l'esercito iniziò ad apparire come una tavola bianca compatta, la visione si mostrò distorta e i dettagli scemarono all'orizzonte.
La sirena raggiunse alle spalle Kassandros, silenziosa e taciturna, seguendo lo sguardo dell'ipparco oltre il promontorio spiovente.
Seguì qualche tempo in silenzio, fino a che una folata di vento non strappò dalla bocca di Kassandros le parole che dapprima non voleva proferire: "Sapevo che ci sarebbe riuscito."
Gli occhi di Dianna guizzarono attenti sulla sua figura. "A fare che cosa?"
"Non lo sai?"
"Che cosa devo sapere?"
Kassandros sospirò e la sua mente sembrò vagare in un oceano di ricordi. "È un fatto antico. Molto antico. Una vecchia scommessa, ma non tanto vecchia da sciogliersi. E aspetta ancora un vincitore."
La sirena chinò il capo e osservò le proprie mani scivolare tra la criniera quasi trasparente del suo cavallo. Poi rialzò lo sguardo. "Non sto capendo."
Kassandros, però, non si voltò.
Dianna agitò debolmente le redini sul garrese del suo lipizzano: lo stallone si mosse in avanti, urtò pericolosamente un sasso instabile sul brecciato e si parò dinanzi a Kassandros. "Raccontami tutto, ti prego."
Per la prima volta in tutta la mattinata, gli occhi di Kassandros si posarono sui suoi. "Sei sicura di volerlo sapere?"
"Sì."
L'uomo annuì e, come se dovesse prepararsi ad una grande perorazione in pubblico, sembrò allungare la schiena e la sua presenza si fece ancor più possente. Il suo cavallo si divincolò per un attimo, ma Kassandros gli restituì la pace con un debole verso che uscì dalle sue labbra. Poi ammiccò al mare in lontananza e alla sua tavola blu sulla quale la luce del sole saltava ad intermittenza, come balzando su piccole schegge di cristallo che riflettevano le sfumature di un caleidoscopio. "Guarda."
Come magicamente, attraverso un sortilegio sconosciuto, il mare si colorò: una scena vi venne proiettata.
Dianna trattenne il respirò e si preparò alla visione.
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Nisea, residenza primaverile di Poseidone, Attica, Grecia, 416 avanti Cristo, sesto giorno del mese di Muninchione.

La notte scura aveva fatto breccia nell'Attica. L'aria era colorata da una fitta coltre di stelle, minuscoli punti bianchi, lentiggini del cielo. Dagli alberi che circondavano la grande vasca nella corte esterna della reggia, proveniva un soffuso frinire delle cicale, un canto quasi paradisiaco, mentre lucciole nascoste s'accendevano e si spegnevano dietro i fiori rossi delle aiuole, come camminando sul sottile filo divisorio tra la vita e la morte.
Il palazzo ocra svettava imponente, un grande cubo massiccio retto da colonne di Efeso, adornate con capitelli ionici dalla rifinitura più pregiata.
Vi proveniva un silenzio pesante e insostenibile.
I giovani comandanti di ogni unità dell'esercito, bevendo del vino fresco, sedevano su triclini rossi, posavano le mani su braccioli dorati e allietavano la vista ammirando le forme delle fanciulle dalla bellezza di ninfa che danzavano attorno alla grande vasca, camminando pericolosamente sul suo bordo. Erano tutte bellissime: tracie, carie, misie. I capelli erano stretti sulla nuca da nastri colorati o da cuffie orlate d'argento e i corpi seminudi si muovevano sotto la luce della luna che baciava la loro pelle appena fresca di unguenti. Tra esse era presente anche Bentesicima, poco più che quattordicenne, che dimenava i fianchi prepotentemente sotto il consenso dei presenti, chiudendo gli occhi e lasciandosi coinvolgere dalla sinuosità di una melodia che sembrava avvertire solamente lei. Poco lontano, il fratello la trucidava con occhiate fulminee, intimandole con lo sguardo di ritornare nelle sue stanze. Bentesicima, però, lo ignorava.
Distante di qualche passo, sotto l'ombra di un'altra colonna, Roda osservava con i suoi occhi di bambina la scena, mentre abbracciava il pilastro e declinava con un impeto non confacente alla sua età ogni invito degli uomini ad avvicinarsi. Poi raccolse tra le piccole mani il suo peplo ricamato e corse dentro il palazzo.
Gli sguardi dei guerrieri appena adolescenti corsero sulle curve morbide delle danzatrici. Alcuni si inumidirono le labbra con la lingua; altri allungarono le braccia e presero una fanciulla sulle gambe e altri ancora le spinsero dentro la vasca e si tuffarono con loro, tastando la calura rovente delle loro cosce giovani sotto il sipario dell'acqua.
Risa, schiamazzi e gemiti si sollevarono nella corte, soffocando il debole sciaguattio dell'acqua.
Solamente Kassandros si mostrava impassibile. La sua muscolatura era già robusta e io triclinio sembrava troppo piccolo per la sua stazza olimpionica. Sul volto da venticinquenne si affacciavano lunghe basette scure che curvavano sulle guance di uomo, così da rendere il suo viso magro e prosciugato. Osservava con noncuranza le giovani donne che vorticavano attorno a lui e rifiutava da parte loro ogni tentativo di avvicinamento con un veloce gesto della mano.
Al suo fianco, Tristan sedeva su un triclinio d'argento. Tra le mani reggeva una coppa di vino ateniese, che sorseggiava lentamente e con gusto, lasciando che quel dolce sapore gli solleticasse la lingua. Era giovane, molto giovane. Probabilmente il più giovane tra i presenti. Un nastro dorato stringeva la sua nuca, fermando le ciocche ondulate dei suoi capelli biondi. Biondissimi. Talmente biondi che la luna invidiava il loro pallore. A differenza degli astanti, non vestiva con un'armatura, bensì il suo corpo giovane e pronto ad accedere alla vita adulta era fasciato da un chitone bianco che profumava di mare. La gonnellina dell'indumento si fermava poco sopra le ginocchia e rivelava un paio di cosce virili sulle quali correva una leggera peluria chiara.
Tristan allungò una mano ad afferrare un acino d'uva da un piattino, che poi porse a Kassandros, il quale, però, rifiutò con distacco. Anche attorno a lui, le belle fanciulle danzavano predatrici e sensuali, ma Tritone non le guardava.
Un giovane, che reggeva in grembo una donna intenta ad accarezzargli il collo con le labbra umide e roventi, parlò, con la voce distorta dall'ebbrezza: "Tritone, tuo padre dovrebbe invitare più spesso i suoi generali a simili raduni, perché..." pausò per un istante e accarezzò i capelli della fanciulla, portandone una ciocca sotto il naso e inspirando rumorosamente, "perché tutto questo mi concilia il sonno."
I presenti risero.
Anche Tritone sorrise, ma ricoprì freddamente il suo ruolo di interlocutore, con una compostezza nobile. "Sarà fatto, Alkeos."
Un altro si alzò dalla sua poltrona mantenendo in mano il suo calice di vino vuoto e barcollò verso Alkeos. Si sporse verso di lui e gli parlò, alitando un vento d'ubriachezza. "Io invece sono innamorato di tua sorella. Per l'Olimpo, è bellissima." E poi rise flaccido. "Spero tuo padre non l'abbia promessa in moglie a nessuno."
I guerrieri si volsero verso Alkeos attendendo una sua reazione con le risa incastonate sotto le labbra, ma egli era troppo affaccendato nell'accarezzare la giovane sul suo grembo per prendere in considerazione le parole dell'uomo.
L'uomo barcollante, a quel punto, deluso dalla mancanza di una risposta, volse sui sandali e mirò a Tritone sdraiato oltre l'altra sponda della vasca e urlò, agitando il suo calice: "E il figlio di Poseidone di chi è innamorato?"
Tristan, che stava facendo per staccare un altro acino d'uva dal suo grappolo, si fermò e abbozzò un debole sorriso. Poi alzò il mento con fierezza e il suo volto di adolescente si riflesse sullo specchio d'acqua, incantando le danzatrici con la sua bellezza senza imperfezioni. "Della Grecia."
L'altro venne spinto dagli effetti del vino verso il bordo della vasca e quasi vi cadde dentro, se un forte soffio di vento proveniente da Oriente non lo avesse rimesso in piedi. Finse un'espressione sorpresa: "Nessuna sirenetta fuggente ha rubato il cuore del rampollo del re dei Mari?"
Un altro, che riemerse dall'acqua riportando con un veloce gesto delle mani i capelli neri sulla nuca, disse, con le labbra bagnate dalle gocce: "Tritone, ascolta le parole di un amico. Sai, le ateniesi d'oggi sono molto linde e fascinose. Mio padre mi ha confessato che se non avesse preso in sposa mia madre, ora la sua vita sarebbe custodita tra le mani di una bella fanciulla dell'Attica." Sospirò e, tenendo per mano una danzatrice dai capelli e dalle vesti bagnate, nuotò verso il bordo della grande vasca e guardò Tritone più da vicino. "Ascoltami. È venuto per te il tempo di conoscere piaceri più intimi, meno ingenui e ruvidi." E prese per i fianchi la fanciulla che stava nuotando con lui, la sollevò e la lanciò fuori dell'acqua, lasciandola sdraiata sulla pavimentazione bagnata esterna alla vasca. "Prendila. È tua."
Tristan scosse il capo e nascose il suo pensiero dissidente dietro il lucido calice dorato. Quando ne sorbì l'ultimo sorso, lo posò su un tavolino al suo fianco e rimase imperscrutabile ad ascoltare i consigli deviati dei suoi amici che, però, rifiutava.
Kassandros lo guardava, ammirato.
Un altro uomo, rimasto seduto sulla sua poltrona, intervenne dicendo: "Simeon preferisce le spartane. Dice che la loro robustezza è la base solida della loro bellezza. Pensa, Tritone, che si dice abbia rifiutato una giovane ateniese che il padre gli aveva deposto nuda sul letto per iniziarlo alla vita adulta."
Un altro ancora aggiunse: "Ben ci credo. Solamente una spartana potrebbe resistere alla sua stazza da persiano invasore."
Quello che si capì essere Simeon, pungolato nell'animo, reagì lanciando il suo calice in direzione degli amici, sotto una fronte perennemente corrugata e un paio di occhi arcigni ed espressivi come quelli di un falco.
La corte fu invasa ancora una volta da urla, grida, schiamazzi e risate.
Nel tempo che ne seguì, alcuni giovani corsero lungo il perimetro della vasca, altri, oramai privi di senno e dalla ragione bruciata dal vino, si lasciarono cadere sulle aiuole, farneticando la loro convinzione di essere anime libere destinate a vagare per millenni attorno alle porte d'accesso all'Ade. Altri ancora, dopo aver nettamente oltrepassato il limite del raziocinio, alzarono le braccia al cielo, invocarono gli dei e urlarono al vento di essere sparvieri pronti a spiccare il volo verso l'Olimpo.
Poi, caddero in acqua.
Il banchetto si concluse con una simile atmosfera festante. Solamente Tristan e Kassandros rimasero sapientemente seduti sui propri seggi. Il primo lasciava scorrere l'indice lungo il bordo del suo calice con fare annoiato, il secondo guardava Tristan come un apprensivo tutore.
La monotonia di quegli starnazzi che si ripetevano fu rotta da un rumore secco e metallico all'interno del palazzo.
Tristan si volse con la velocità di una tigre e rimase fermo, pietrificato, in ascolto.
Il suo respiro iniziò a fluire falcidiante sul volto di ragazzo.
Quando un acuto grido femminile fracassò l'improvviso silenzio, Tritone si alzò: le sue braccia si tesero, la sua espressione s'irrigidì e i suoi occhi ghiaccio si socchiusero.
I presenti arrestarono ogni loro occupazione per studiare le movenze del giovane dio.
Respingendo con un veloce cenno della mano gli avvertimenti di Kassandros -come se avesse udito qualcosa di fastidioso- con un gesto ampolloso Tristan sistemò il mantello che cadeva sul suo chitone e balzò come un leone verso il palazzo.
I suoi passi risuonarono sinistri e maligni quando vi entrò.
Il suo sguardo era affilato come una spada.
La piccola Roda, nel vederlo rientrare, credette il fratello volesse giocare con lei e si precipitò a raggiungerlo zampettando allegra e stendendo le labbra rosate in un sorriso. Gli tirò un lembo del chitone, ma Tristan la allontanò con un veloce e infastidito gesto della mano.
"Non ora, Roda."
La bambina annuì delusa e chinò il capo sul petto, allacciando le mani in grembo e arretrando di qualche passo, obbediendo alla supremazia del fratello maggiore.
La sua figura divenne solamente uno spettro bianco e ondeggiante in lontananza, quando Tritone riprese a camminare con un'andatura furiosa lungo il largo corridoio.
Se un rullo di tamburi avesse accompagnato la sua camminata, quello sarebbe stato il preludio della guerra più sanguinosa.
Sul pavimento dalle enormi e squadrate piastrelle lustrate si riflettevano le luci delle piccole lucerne appese alle pareti e il disegno pittoresco dei corpi delle fanciulle persiane di Pasargade che danzavano con la loro pelle mulatta lungo gli anditi, brandendo sensualmente larghi ventagli intessuti di petali di rose dinanzi ai visi truccati.
Spesso si sporgevano verso Tristan allungando le braccia lisce, ma lui avanzava inesorabile come una lenta tempesta dal grido tremendo.
Intanto, le urla provenienti dalla stanza più recondita del palazzo incrementarono la loro intensità brutale e raggiunsero con un picco acuto e straziato le orecchie di Tritone.
Egli accelerò il passo e il suo respiro si smorzò.
Il palato era secco e la gola asciutta, ma un travaso di bile bastò a fargli andare i pensieri in rovina.
Grugnì e la corta gonna del chitone sembrò alzarsi a sfoggiare il continuo tendersi e ingrossarsi dei muscoli delle gambe che procedevano con passo soldatesco.
Tristan arrivò dinanzi ai battenti della grande stanza sbarrati dalle lance disposte a croce di due guardie strette nelle loro armature di ferro e nei loro sandali le cui stringhe serpeggiavano fino alle ginocchia.
Le guardie mantenerono le lance incrociate e osservarono il vuoto con occhi di vetro.
Tristan tentò di spingere contro le picche, ma un suono nero gli uscì dalle labbra quando le lunghe aste lo respinsero. "Lasciatemi passare," si agitò.
Il custode alla sua destra voltò il capo sormontato da un alto cimiero di bronzo. "Non possiamo."
Tritone iniziò ad ansimare preoccupato. "Devo vedere mia madre la regina."
"Non possiamo," ribadirono all'unisono i due guardiani.
"Sono il principe."
"Non possiamo. Vostro padre il re ci ha espressamente richiesto di respingere ogni tipo di visita."
Dopo aver chiuso gli occhi e placato i movimenti dell'animo che ribolliva nel suo petto, Tristan arretrò di due passi: i sandali toccarono la pavimentazione come battiti di una marcia. Poi chiuse gli occhi chiari e li riaprì l'istante dopo. Con un sorriso da demone che gli adombrò il volto, camminò nuovamente verso le due guardie, prese con un movimento lampante le due lance tra i pugni stretti e le spezzò.
Le punte arcuate e ferrose morirono a terra. La loro caduta fu seguita dagli sguardi scettici dei due custodi, che poi sollevarono l'attenzione verso il giovane ragazzo dalla forza sovrumana che si stagliava impettito dinanzi a loro.
"Sono il principe," ripeté Tritone avanzando. "La prossima volta ricordatelo." E, dopo aver spinto le mani sui battenti monumentali, si riversò nel grande talamo con respiro affannoso. Con rabbia e istinto primordiale si sfilò il nastro d'argento che gli stringeva la nuca e lo gettò sul pavimento: ora l'ammasso dorato e intricato dei suoi capelli piombò pericolosamente sulla fronte regale.
Sul letto, Poseidone si reggeva sulle ginocchia tozze e chiudeva con la mano rugosa la bocca di Anfitrite, stesa agonizzante sotto il suo petto peloso e gonfio. La donna agitava le gambe e tentava di divincolarsi dalla morsa sbattendo il capo sul letto e voltando il viso a destra e a sinistra, chiudendo gli occhi e emettendo urli soffocati. Le guance morbide si arrossarono sotto la foga dei movimenti e il petto nutrito di donna rallentò i sobbalzi ad ogni respiro che le veniva a mancare. Con le mani bianche spinse contro il corpo del marito, sperando si scostasse da lei, prendendo a conficcare le unghie robuste come artigli di un falco sul suo petto, ma Poseidone le afferrò una coscia con l'altra mano e la piegò per farla aderire ai suoi fianchi. Poi si chinò verso la moglie, con l'espressione contratta dall'odio, le labbra che disegnavano una linea sprezzante sul volto e gli occhi che luccicavano di un fuoco truculento e triviale. "Sul mio letto giacciono le concubine che voglio. Con loro faccio i figli che voglio. Despite, Kassandra, Thenia... non sono dannate come te, strega." E le sue dita si strinsero attorno al viso della moglie.
Anfitrite, in risposta, urlò le parole che non riusciva a proferire e aprì gli occhi per guardare l'uomo che le toccava il viso con mani sporche di polvere e peccato.
Solamente a quel punto, dopo aver sentito il fuoco raspare contro il suo cuore e incediargli l'anima, Tristan, slanciandosi come una fiera verso il padre, lo afferro per il groppone quasi fosse un cavallo trucidato e starnazzante e lo scagliò contro la parete opposta della stanza.
Poseidone scivolò a terra e mugolò lamenti di dolore.
Anfitrite, invece, scivolò dal letto e cadde a terra sulle ginocchia. Si tese a carponi, sbattendo le mani sul pavimento e accigliandosi. I seni nudi e la veste ridotta a brandelli da graffi e ferite che solcavano la sua pelle di latte ricevevano la luce pallida della sera che nuotava attraverso le inferriate. Poi, alzando il capo con la velocità di una tigre e ruggendo come un leone, urlò: "Le voglio fuori!"
"Mai." Poseidone tentò di rialzarsi.
Anfitrite si abbandonò ad un grido di frustrazione e urlò più forte: "Feccia dell'Olimpo!" Le ciocche modellate dei suoi capelli scuri ricaddero sul petto nutrito di donna.
Tristan si accosciò verso la madre, si tolse il mantello dalle spalle e lo posò sul busto nudo della donna con un gesto protettivo. "Copritevi," le mormorò.
Madre e figlio si scambiarono uno sguardo intriso d'amore.
Ad un tempo, Tritone si rialzò e si parò protettivamente davanti alla madre e Poseidone, rialzatosi brancolante, prese a pulirsi gli angoli della bocca rinsecchita e aprì l'occhio sinistro corroso da una vecchia cicatrice per guardare il corpo del figlio nel quale correva un'invidiabile forza giovane. "E tu che cosa vorresti fare? Hai sedici anni, non hai neppure raggiunto l'età per l'immortalità. Sparisci dalla mia vista."
Consumati i residui di compostezza e pazienza, Tristan si sbilanciò in avanti, posò una mano sul petto del padre e lo spinse contro il muro alle sue spalle afferrandolo per i lembi della clamide. Strinse le dita a pugno e premette la mano contro la mandibola dell'uomo, costringendolo a reclinare il capo. Quando parlò, i suoi occhi ghiaccio erano accaldati. "State lontano da mia madre o vi giuro sul nome di Zeus che..."
"Zeus?" Poseidone rischiò una risata, ma ciò che ne uscì fu solamente uno sfogò di raucedine che lo indusse a piegarsi dolorante. "Il mio vecchio e scorbutico fratello ti avrebbe già fulminato per le tue parole. Ritorna dai tuoi amici. A tua madre ci penso io." E, agitandosi, prese a camminare verso la moglie. Dalla voce che toccava tonalità acute e gravi, Tristan ne dedusse il padre fosse ubriaco: dalle sue labbra, infatti, soffiava un vento turpe e infimo che puzzava di ambrosia e di vino puro.
Tritone lo fermò prima che egli raggiungesse Anfitrite e Poseidone girò teatralmente sui sandali per guardare il figlio e spalancò le braccia. "Oh, hai un grande rispetto per le donne. Anche per questa megera."
Anfitrite, che ora teneva una mano in grembo e strattonava tra le dita la propria veste per battere la rabbia, respirò duramente.
Poseidone riprese: "Sai che ti dico?"
Tristan gli si fece vicino e troneggiò con la sua altezza. "Tacete, siete ubriaco."
Il re dei Mari gettò il capo brizzolato all'indietro e l'alito dal tanfo insostenibile scivolò sino al suo mento, ad intaccare i riccioli di barba bianca. Poi, quando tornò a guardare il figlio, le vene dei suoi occhi erano iniettate di sangue. "Tu sei come me, Tritone. Destinato alla stessa maledizione. Le donne accorreranno come fiumi al suo talamo e ne scapperanno via piangendo."
Tristan sbarrò gli occhi come se avesse udito una bestemmia e trattenne il respiro. Squadrò il padre con occhio incredulo. "Io non sarò mai come voi."
"E invece sì." Poseidone si sporse verso di lui e i suoi denti si mostrarono in un sorriso arcigno. "Hai il mio sangue. Sei una feccia dell'Olimpo anche tu." Rise. "Sgozzerai più cuori tu che le spade di Ares, io ti dico."
Qualcosa in Tritone si rimescolò. Iniziò ad ansimare. Le tempie preserò a pulsargli e i pensieri nella sua testa persero il filo conduttore e si ingarbugliarono. Scosso da un impeto di paura e ira, arretrò dinanzi al padre, come dominato da una forza esterna e, afferrato un candelabro da un piccolo tavolino in vetro laconico, lo scaraventò sul pavimento e le piccole fiaccole che illuminavano la stanza si spensero e la camera precipitò nel buio.
Tristan prese il capo tra le mani, come stordito. Ogni oggetto, intorno a lui, sembrava vorticare. Poi urlò quasi piangendo: "Io non sarò mai come voi!"
"No, infatti." Nonostante l'assenza di luce, Tristan scorse il padre avanzare verso di lui. "Non sarai grande come me. Non avrai regni né titoli. Il tuo nome non vivrà in eterno, Tritone. Sei un debole, un ragazzino viziato." Poseidone prese tra una mano scabra e avvizzita il viso del figlio e strinse le sue guance. "Bello quanto nessun altro, ma debole. Sei e rimarrai il figlio di tua madre. Destinato ai fallimenti." La voce ubriaca creò un'eco effimera nella stanza.
Tristan urlò terrorizzato: vedeva dinanzi a sé e nella sua testa il suo destino secondo gli occhi del padre e quella visione gli annientò il respiro. Scosse il capo con enfasi e arretrò, allontanando con uno schiaffo la mano del padre dal suo viso e sudando gocce che avevano la stessa consistenza, lo stesso colore e lo stesso odore del sangue. "No, non è vero. Non sarà così," mormorò in un unico respiro.
Poseidone rise. "Sarai un debole, Tritone."
Una nuova forza nacque nel giovane, una nuova rabbia, una nuova ira, una nuova vendetta e una nuova energia che lo tramutarono in un uomo in un istante. I suoi occhi ghiaccio lampeggiarono nel buio e si strinsero con sfida. Alzò il capo, improvvisamente fiero, sicuro. "Scommettiamo il contrario?"
In un angolo remoto e buio della stanza, Anfitrite guardò il figlio con orgoglio.
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Kassandros sospirò: "Una parte dei pronostici di Poseidone si avverò: dal compimento del diciannovesimo anno di età, Tristan bruciò i cuori di molte fanciulle. Esse andavano e tornavano al suo letto, ma non vedevano altro che un bellissimo giovane che non le sapeva e voleva amare."
Dianna chinò il capo, ma lo rialzò quando l'ipparco riprese la parola.
"Ma l'altra parte dei pronostici del dio che non si avverò: Tristan non fu mai debole. Le parole del padre lo segnarono così profondamente, che tre anni dopo Sparta vinse la guerra contro Atene sotto il suo comando."
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(Pubblicità a "Her secret" di AuroraLucchetta. Inoltre una ragazza ha deciso di farmi un'intervista, si intitola "Intervista ad Alexandra-writes" di LaFigliaDiAde. Scusateci per eventuali errori di battitura).
Ed ecco finalmente il flashback. La persona a cui Tristan aveva promesso di non essere mai debole era suo padre Poseidone. Mi sono divertita a leggere, nei commenti precedenti, le vostre ipotesi: chi credeva fosse la giovane attrice nella Mosca del 1700, chi credeva addirittura l'avesse promesso ad un amico o ad un fratello morto in battaglia. Avete fantasia, caspita!
Che ve ne pare di questo salto nel passato? Come avete visto, all'epoca Tritone era un ragazzo tranquillo, non si lasciava contaminare dagli amici e contava solamente su Kassandros. Quindi, quella di Poseidone è stata anche una sorta di maledizione, giusto per spiegare perché -come a volte mi avete chiesto- Tritone è così bad boy, insomma.
Vi è piaciuto il fatto che abbia voluto salvare la madre? Tra i due c'è sempre stato un grande rapporto e lo vedremo anche nei prossimi capitoli.
A proposito, alcune di voi mi hanno detto che il rapporto tra Tristan e Dianna sembra essersi oscurato. Non è così, è che, come ripeto, è difficile intrecciare tutto. Ma nel prossimo capitolo (cosa che non era in programma) ho inserito un lungo paragrafo dedicato solamente ai due piccioncini.
Quale parte vi è piaciuta di più di questo capitolo? Fatemi sapere nei commenti!
Votate e commentate! Grazie mille come sempre e scusatemi per questo flashback troppo lungo!
(Pubblicherò il prossimo capitolo il 14 settembre)

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