Capitolo 67

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Bentesicima riusciva ancora a sentire gli ultimi suoni delle parole del fratello scemare nell'omogenità delle onde.
Maledetta puttana.
Ma alzò il mento, ostentando quasi uno sguardo fiero, e rimase assisa sul suo scranno. Ad un primo e fugace sguardo, appariva impassibile, come se il suo spirito di fuoco fosse stato improvvisamente congelato e ogni sua reazione fosse stata in tal modo inibita. Tuttavia, uno sguardo più attento avrebbe sicuramente notato le sue unghie -i suoi artigli- che si conficcavano nei palmi delle mani stretti a pugno attorno ai braccioli dorati del seggio. Talvolta, le dita scattavano, le ossa sembravano sgretolarsi, spezzando i legami, e le unghie si incontravano producendo un sottile, nervoso e fastidioso ticchettio acuto.
Bentesicima tentava persino di mascherare con un'invidiabile concentrazione la frequenza con cui deglutiva e provava con un ulteriore e maggiore sforzo a mandar giù, a seppellire quel groppo, quel nodo che le si era conficcato lì, nella gola, e che le faceva male, le bloccava il respiro.
Non seppe quanto tempo passò in quello stato amorfo, insensibile, distratto nella sua concentrazione.
Sentì solamente, ad un tratto, l'acqua movimentarsi e sibilare in sottofondo: era evidente come Roda avesse lasciato la stanza, abbandonandola così ai suoi pensieri che non avevano forma, non avevano inizio e chissà se avevano una fine.
Bentesicima era conscia di ciò che aveva fatto e di ciò a cui aveva dato inizio con tutta la sua più torbida e maligna volontà, e se qualcuno le avesse chiesto, in quel momento, se del pentimento era aleggiato nella sua mente, lei avrebbe risposto di no: la sua filosofia di vita -o meglio, di eternità- era l'assoluta accettazione di ogni azione, benigna o maligna che fosse agli occhi altrui.
Sapeva anche che Tritone non si sarebbe abbattuto: così come lei non conosceva la parola rimorso, lui non conosceva la parola arresa.
Nonostante queste consapevolezze inconfutabili, la semplice certezza di essere riuscita ad ostacolarlo, a ferirlo nel cuore come tante volte la sua indifferenza aveva ferito lei la riempì di un'amara soddisfazione.
Però era anche al corrente di come lui, alla fine di quei giorni maledetti, sarebbe tornato ad odiarla. No, si corresse. L'aveva sempre odiata. Non ci sarebbe stato un ritorno a nulla, solamente una continuazione.
Ma Bentesicima sapeva anche di essere nata per venire odiata e odiare.
Era intrinseco in lei.
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In un attimo di collera, Tristan si diresse nuotando da Ehona, incaponito e caparbio, i pugni stretti e i capelli biondi che avvampavano nelle profondità del mare, luccicando come raggi di sole.
La camera della strega era disordinata e avvolta da una spessa foschia bianca che aleggiava tra le acque. Era buia ed illuminata solamente da un graffio di luce che proveniva da una strana sfera rotonda, posata su un basamento in pietra sopra una grande tavola di legno. Ehona era alle sue spalle, gli occhi bistrati fissi sulla sfera e uno strofinaccio tra le mani con il quale, di tanto in tanto, dopo aver inclinato il capo a soppesare la palla magica, ne rischiarava le zone offuscate. A circondarle la fronte c'era una grande fascia in lamina dorata, dalla quale pendevano fili di perle che le incorniciavano il viso maturo; indosso portava un lungo abito bianco smanicato, abbellito da inserti dorati che ricordavano le mollezze orientali, mentre attorno a una delle braccia colorite si torceva una grande armilla egiziana. Pareva la reincarnazione adulta di Cleopatra.
Eludendo simili dettagli non certamente trascurabili all'occhio, Tristan le si fece vicino e fece calare il suo pugno da spaccapietre sulla tavola. "Dimmi dov'è." Il suo tono era rigido.
Ehona alzò lo sguardo inflessibile, posando lo strofinaccio accanto alla sfera. "Che cosa?"
"L'Ade."
"Oh, questo non spetta a me dirlo." Tirando un sospiro di sollievo, risollevata dal fatto che la questione non toccava note dolenti, a parer suo, Ehona prese la sfera tra le mani e si volse, ondeggiando verso il davanzale di una piccola finestra al muro, e lì vi pose l'oggetto magico.
"Dimmelo."
"Ve l'ho detto. Non conosco nulla. Non è di ciò che mi occupo. Esistono le sibille e gli oracoli per questo. Loro sapranno indicarti la via."
Tritone stridette i denti con rabbia, producendo un rumore quasi metallico, come se una pietra tagliente avesse scalfito la superficie rigida di una ceramica. "E quella..." Con un gesto turbinoso della mano ammiccò alla lontana sfera rotonda, "quella palla non saprebbe indicarmi la via?"
Ehona indugiò per un istante, guardò il ragazzo, ma rispose schivando la domanda e chinando lo sguardo. Si mosse leggiadra verso la finestra, tese un braccio e l'aprì. "L'Ade non è un luogo accessibile a tutti. Non conviene incappare in questo genere di guai."
Tristan spostò tutto il suo peso sulle braccia forti con le quali si reggeva alla tavola, incassò il capo al petto e chinò il mento, chiudendo gli occhi e metabolizzando la provocazione implicita. Tentò più volte di respirare, ma la sua voce colpì ugualmente le pareti con forza. "Ti ho detto di dirmi dov'è l'Ade, per Zeus e per tutto l'Olimpo!" Alzò lo sguardo schizzante di nervi e le sue narici si dilatarono.
"Ti ho detto," Ehona gli gettò una breve occhiata, "non pos..."
Tritone la interruppe, girò attorno alla tavola e la raggiunse. Le posò una mano sul petto e la spinse burberamente contro la parete alle sue spalle. I fili ingioiellati appesi alla fascia di Ehona tintinnarono. "E se ti ficcassi un paletto di legno nel cuore sapresti dirmelo?"
La strega sollevò le sopracciglia in un moto stupefatto. La minaccia aveva fatto breccia in lei. Dopodiché, socchiuse gli occhi, indispettita. "È così che mi ripaghi per averti offerto dono della cupola protettiva in battaglia?"
"Sono presuntuoso."
"Lo vedo."
"Dunque ti ho messa alle strette."
"È per lei?" chiese poi Ehona.
Gli occhi di Tristan si chiusero con un movimento lento, perché i suoi pensieri erano corsi inevitabilmente, fulminei e incontrollati, a Dianna. Annuì. "Sì."
"Quand'è così..." La donna si liberò dalla presenza di Tristan posando una mano sulla sua e scostandogli il braccio che la teneva paralizzata contro la parete, quindi si mosse verso il davanzale. Recuperò la sua sfera e, con protezione e cura, la pose sulla tavola e ne scrutò le sfumature.
"Sapevo che quella palla aveva qualcosa."
"Stt." Ehona si volse di scatto e gli indirizzò uno sguardo rimproverevole. "La magia non può aiutarti se la schernisci."
"Sii veloce," tagliò corto Tristan.
"Silenzio," raccomandò la strega, tornando a concentrarsi sulla sfera. Si chinò lentamente su di essa e vi posò sopra le mani a coppa. Restò in quella posizione per un lunghissimo istante, nel quale Tristan si sentì bruciare le reni, e in cui Ehona sembrò assorbire dalla sfera un'inebriante e tumultuosa energia. Difatti, tremava. Chiuse persino gli occhi truccati, alzando spesso il mento al soffitto, schiudendo le labbra e gemendo sommessamente, infusa in quella veemenza.
Tristan, che le era dinanzi, era ora agitato, con le sopracciglia lievemente incurvate in basso in un'espressione speranzosa e supplichevole. Forse il timore gli produsse delle lacrime, che, però, i suoi occhi chiari e trasparenti nascosero con abilità.
D'un tratto, Ehona aprì gli occhi e Tritone drizzò il collo, il respiro fermo nel petto. La strega mormorò il nome di un piccolo borgo e poi, fissando un punto indistinto in lontananza: "Dentro una grotta scavata nella roccia, sotto la strada meno affollata di tutte, dove il sole tramonta ma non sorge. Lì la troverai."
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Tristan nuotò per ore, con le braccia oramai deboli, la lingua secca, gli occhi arrossati e la coda color giada che aveva perso il suo splendore. Non sapeva quante coste avesse percorso, in quanti mari e foci si fosse imbattuto. Ma, in tutta probabilità, l'Eubea era molto lontana, da quanto poté dedurre quando, con mesti mugolii di dolore e spossatezza, si issò su un lembo di terra sabbioso, deserto: era il crepuscolo, il cielo era tinto dei colori del rosa e del porpora, ma tutto era troppo paradisiaco ai suoi occhi. Da un bosco limitrofo si alzavano i cinguettii dei passeri e gli stridii dei merli, risvegliati dal loro lungo sonno dai tonfi di alcuni tuoni che scoppiavano chissà dove, lontano.
Si abbandonò a se stesso e le sue forse cedettero. In tutta la sua eterna giovinezza, non si era mai sentito così stanco, privo di obiettivi, di forza, di razionalità. Cadde supino sulla sabbia e allargò le braccia, mentre il suo corpo, nonostante fosse ancora bagnato e ricoperto da minuscole gocce d'acqua che brillavano come rugiada, iniziava ad assumere sembianze umane e le sue gambe toniche non comunicavano più con gli altri arti. Erano in una posizione lasciva.
Tristan aprì gli occhi, dal colore talmente indefinito ed indistinguibile che sembrava non li avesse, si mimetizzavano con quel ristretto sprazzo di cielo che conservava ancora le tonalità dell'azzurro e che si rifletteva nel suo sguardo.
Non volse gli occhi altrove, ma, mentre spirava un vento carezzevole da Oriente che muoveva i suoi capelli, fissò il punto più alto del cielo. Se inizialmente il suo corpo e la sua mente non reagivano, ora, dopo che ebbe modo di ricordare le parole della sorella, le sue membra si accesero e ogni suo singolo neurone scintillò, muovendo i suoi ingranaggi così velocemente che qualcosa avrebbe potuto spezzarsi.
La furia gli abbracciò l'anima e Tritone strinse i denti. Per combattere quell'inaspettato sfoggio di rabbia, provò a chiudere gli occhi, ma non vi riuscì, perché sembrava ci fossero innumerevoli grate a raschiare la sua cornea, a spezzare la compattezza del suo sguardo, a lasciarlo sanguinare.
La rabbia cedette il posto allo sconforto, quando un pensiero baluginò nella sua mente: le porte dell'Ade erano ben sbarrate, protette probabilmente da mostri, da creature chimeriche che ne ostacolavano l'entrata agli estranei, ai visitatori. Era come una grotta grigia in cui entrano solamente le anime destinate ad un volere avverso. Erano stati solo tre -tre- gli uomini in grado di accedervi, Tristan ne aveva tanto sentito raccontare, ne conosceva le lodi: Orfeo, Ulisse ed Enea.
Era come se tutto fosse concluso, come se non vi fosse alcuna possibilità di cambiare un destino già scritto. E Tristan, inevitabilmente, con una smorfia sulle labbra, ricordò quasi disgustato il suo tono superbo ogni qualvolta ribadiva agli altri che lui era un dio, il figlio di un dio, e che nulla era al di fuori della sua portata.
Ora, invece, si sentiva così piccolo, come se ancora non fosse giunto il momento per ristabilirsi, recuperare le forze, arretrare, prendere la rincorsa e attaccare più forte di prima, con la forza di un toro.
E, d'un tratto, urlò disperatamenre al cielo, poi si capovolse, sbatté i pugni sulla sabbia tanto furiosamente che la acque si agitarono e le onde si accavallarono l'una sull'altra.
Per il momento, decise di chiudere il suo cuore: era già infestato da troppe tempeste. E, alzando debolmente lo sguardo, fissò il cielo, cercando di immaginare gli occhi di lei che lo scrutavano da dietro una nuvola.
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Rinchiusa in una cella dal tanfo stantio e dalle grate consunte, arrugginite e accaldate dai vapori fiammanti che sopraggiungevano da poco lontano, Dianna era assopita nell'Ade. Nella sua temporanea incoscienza, si sentiva sbandante, stordita, come se le proprie tempie fossero state fracassate da un'immensa esplosione di schegge di vetro. Gli occhi le bruciavano, sentiva le palpebre pesanti come vecchie serrature e le labbra screpolate -le quali avevano perso il loro originario e vellutato rosato- se conservavano una parvenza di colore era perché, nel sonno stanco, la sirena aveva più volte addentato il proprio labbro inferiore, strappando via quasi la carne, talmente percepiva la bocca secca, arida come un deserto: anche lei, aveva sete.
Ma quando riacquistò conoscenza, senno e percezione, avvertì sulla pelle un calore che le ustionava le viscere, dalla potenza paragonabile a quella di un uragano -o di un oceano- di fuoco che si getta addosso ad un corpo macilento. Ciò la rendeva ancora più debole. Nelle piccole narici, invece, entravano zufolate di vapore caldo e sporco, quasi intossicante, tanto fastidioso quanto pungente e penetrante, che la fece subito piegare per rimettere sul terreno ciò che il suo naso aveva inalato. Dianna tossì più volte ed era quasi certa di poter vomitare anche la sua stessa vita, se l'istinto non l'avesse portata a gettare il capo all'indietro e a respirare di nuovo. Anche questa volta, l'aria consumata le riempì i polmoni, ma in una circostanza come quella dove la sirena poteva ammettere di sapere cosa si prova e cosa si sente ad un ristretto contatto con la morte, quella le sembrava la scelta più giusta per sopravvivere: accontentarsi.
E si accontentava di quell'aria infernale.
Dianna si lasciò cadere all'indietro e si accartocciò a terra, su se stessa, le ginocchia portate al petto e le braccia che si intrecciavano accanto al viso volto in una posizione sofferente. Rimase in quella posa per un tempo indefinito, il tempo che le bastò a metabolizzare meglio un pensiero che, nella sua mente, emergeva più palese: l'Ade.
Dianna sbarrò gli occhi, possedendo nelle braccia, nelle gambe e nello spirito una nuova forza -che confinava con l'adrenalina- la quale la fece scattare in piedi e raggiungere le grate della cella in cui era rinchiusa. Si aggrappò ad esse con un tale vigore che percepì le unghie delle sue mani conficcarsi nei palmi. Probabilmente urlò una richiesta che non giunse alle orecchie di nessuno: gridò di poter uscire. Tuttavia, anche la sua stessa voce le arrivava distante, distorta e, soprattutto, sconosciuta. Era rauca, come se non l'avesse mai esercitata, come se le sue corde vocali fossero uno strano marchingegno arrugginito che necessita di un'intensa spolverata prima di tornare ad essere riutilizzato.
In risposta, un'eco vuota e roboante.
Poi, invece, un colpo bruciante alla mano.
Dianna mugolò forte e ritrasse il braccio, come indemoniata, e quando i suoi occhi si abituarono a quell'oscurità accecante focalizzarono una figura chimerica, bassa e tarchiata, rozza quanto appestata e avvolta di un puzzo nauseante, che tendeva una molla forgiata tra le cui aste era retta una piccola piastra infuocata, un marchio. Improvvisamente, Dianna capì e si guardò la mano: dal polso al pollice, la sua pelle era ustionata, e una nuova cicatrice dalla consistenza molle e quasi gelatinosa andava plasmandosi. La sirena deglutì, un po' per il dolore, un po' per il disgusto, e alzò lo sguardo verso la creatura: era sola, nessun altro suo simile la circondava, e Dianna ringraziò una qualche entità per questo, dato che, di per sé, il piccolo mostro le riservava uno sguardo terrificante e maligno. Aveva grandi occhi, se così potevano essere considerati: non vi erano né pupille né cornea, solamente due enormi cavità unite dall'alto al basso da stralci di pelle morta, che, tutti assieme, parevano formare le sbarre di una prigione. Eppure, sembrava guardarla lo stesso. Al posto del naso, invece, possedeva tre piccoli sfregi che si ingrossavano ad ogni respiro, come un filtro. E la bocca era, però, quanto di più rivoltante e stomachevole Dianna avesse mai visto: non aveva forma né contorni, era bensì un agglomerato di carne putrida dalla quale si staccavano pezzi e gocce che colavano in continuazione verso il mento peloso.
Dianna si allontanò velocemente e fece per schiacciarsi contro la parete della cella alle sue spalle, ma il timore che un'altra creatura simile potesse sorprenderla da dietro la portò ad avanzare nuovamente, ponendosi al centro, sporca e sola davanti alla belva.
Quest'ultima accennò un sorriso sarcastico e ripugnante e alzò la molla forgiata fino all'altezza del suo sguardo assente. Sembrò osservare il marchio a fuoco e soppesarlo. "Ti ha fatto male?" pronunciò con voce greve, compitando ogni sillaba.
Dianna non ebbe il coraggio di annuire, ma si leggeva un'affermazione nel suo sguardo.
Il mostro, ora, con un veloce movimento della mano, girò la molla forgiata, in modo che la piastra bollente fosse rivolta verso il suo petto gonfio, e impresse una serie di stampi cocenti sul proprio corpo, dal mento goffo ai fianchi larghi. Dalla sua espressione, non trapelava alcuna sensazione o emozione. "Vedi? Non mi fa male." Pausò, poi riprese. "Vieni, distendi di nuovo il braccio, così posso marchiarti ancora. Il mio re è stato clemente: mi ha suggerito di abituarti alla tortura, dato che dovrai morire così." Volse gli occhi vuoti attorno e gli stralci che univano le cavità si agitarono leggermente. "Bruciata."
Contro ogni aspettativa, Dianna non trasalì all'ultima rivelazione, forse perché non aveva compreso le parole della belva, tanto il suo modo di esprimersi con quella voce raschiante le era sconosciuto e distante. Piuttosto, si soffermò con il pensiero su un dettaglio in particolare, e chiese bofonchiando: "Il tuo... re?"
"Sì..." La voce del mostro pareva più un lamento e, muovendo la mano, indirizzò la molla forgiata ancora una volta verso Dianna, che, però, si distanziò. "Ade."
Immediatamente, nell'oscurità, si udirono passi veloci, seguiti da un uggiolare sommesso e fastidioso, da un bisbigliare sonoro e ripetitivo e da un frenetico sbattere d'ali.
E lui uscì, in tutta la sua mole, altezza e possanza, da uno scorcio laterale, sinistro e nascosto, da una cavità in pietra levigata con il fuoco: ogni masso conservava ancora le sfumature delle scintille che lo avevano perfezionato e plasmato.
Lui era seguito da uno stormo di pipistrelli e da una fila ben schierata di piccole e pallide creature -perché solamente in questo modo potevano essere chiamate- claudicanti, con due ali inutilizzate, minuscole e ripiegate sulle schiene bianche, che zoppicavano ritmicamente, prima spostando il peso sulla zampa sinistra, poi su quella destra. Le braccia magre e scarnite, invece, erano ritratte verso i ventri rugosi e, ogni qualvolta le bestiole accennavano un sorriso, dalle loro gole strette fuoriusciva un suono metallico e acuto, una risata mesta, falsa.
E poi comparve lui, Ade.
Se non fosse stato per il cipiglio severo, si sarebbe detto un bell'uomo, massiccio e slanciato. Alle spalle aveva appeso un lungo mantello nero, che sotto le zufolate calde si alzava e si increspava nell'aria in plissettature morbide come onde che non si assopivano mai, ma che rimanevano sempre in movimento. Dianna osservò le sue braccia, toniche e muscolose, ma con qualche cicatrice biancastra che correva sotto la peluria folta, e soffermò lo sguardo sulle dita delle mani ricoperte da decine di anelli grandi e neri, dita che si muovevano alternate, tamburellando sul nulla.
La sirena non fu tanto spaventata dal suo aspetto, quanto dalla potenza e dalla minaccia che il corpo del dio sospirava, quindi ricadde a terra e arretrò strisciando, il volto emaciato e diafano improvvisamente terrorizzato, le labbra tremanti. Quando un pipistrello volò attraverso una grata e le si posò su una spalla, Dianna urlò e nascose il viso tra le mani, intrepretando il breve evento come un avverso presagio.
Ade inclinò il capo riccioluto e scrutò la ragazza, incurvando le sopracciglia cespugliose sopra gli occhi incavati, per poi prendere a carezzarsi la barba ispida e nera che gli incorniciava il volto ovale, ricoprendo le mascelle e il mento. "Bella come poche. Ci credo che abbiano voluto sbarazzarsi di te portandoti qua... donne come te scatenano guerre molto sanguinose."
Dianna sollevò lo sguardo e lo fissò negli occhi: a quel gesto, Ade sembrò trasalire perché vide la paura che la sirena covava in tutte le sue molteplici sfaccettature.
Dopodiché, Ade prese a camminare intorno alla cella e Dianna, desiderando mantenere un'ampia distanza tra i loro corpi, si voltò e arretrò strisciando nella posizione opposta.
Ma Ade ingiunse: "Ferma." La voce ora era rigida. Quando le giunse vicino, la esaminò attraverso le grate, accovacciandosi e tendendo una mano per recuperare il pipistrello dalla spalla della ragazza. Ne accarezzò per un istante le ali, poi tornò con lo sguardo alla sirena.
Ora che erano più vicini, Dianna notò quasi un'aurea cianotica attorno agli occhi del dio e qualche irregolarità del naso lievemente sporgente, ma egli poteva dirsi abbastanza presentabile per non suscitare terrore più di quanto non facesse già. Dopodiché, Ade mormorò, lasciando libero il pipistrello che volò altrove in un veloce sbatter d'ali: "Benvenuta nell'oltretomba, mia cara. Solitamente qui si entra già morti, come povere anime senza destinazione, ma a te ho riservato un trattamento speciale. Sei ancora viva." Il dio accennò un sorriso sigillato nelle labbra e si sporse verso Dianna. Sbatté un paio di volte gli occhi, poi le soffiò sul viso il suo alito caldo che portava con sé queste parole: "Però anche tu conoscerai la Θάνατος."
Quello in cui Ade parlò era un greco sussurrato, bisbigliato, e Dianna non lo sentì: sfoggiò quindi un'espressione perplessa.
A quel punto, il dio tentò di spiegarsi meglio. Aprì le labbra e scandì ogni lettera: "Ovvero la morte."
Dianna chiuse lentamente gli occhi, come se avesse ricevuto una pugnalata. Per il momento, decise di chiudere anche lei il suo cuore: era già infestato da troppe tempeste. E, alzando debolmente lo sguardo, fissò un cielo che non c'era, cercando di immaginare gli occhi di lui che la scrutavano da dietro una nuvola che non c'era.
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Bene, siamo arrivati al capitolo 67!
Come vedete, Bentesicima è una zoccocagna che non si pente, e Tristan, infuriato, si dirige da Ehona, la strega degli abissi, e, ohohoho, la minaccia! Che duro! Tenete a mente la formula di finale formulata da Ehona: non vi dico, ora, dove si trona l'Ade, vi dico solo che è in posto quasi sperduto, che non indovinerete mai, muahahah, ma accetto ipotesi!
Dianna non è morta: le è stato riservato un trattamento "speciale". Ora è solamente imprigionata, torturata anche, e dovrà morire, a meno che qualcuno...
Quello nella foto del capitolo è Ade, e io lo immagino come Colin Farrell, amoremio ahdhshdhshdhd *-* Adoro troppo Colin! È così... *muore*
Secondo voi, cosa accadrà? Ade come si comporterà? E, soprattutto, dov'è l'Ade?
Per anticipi e tanto altro, passate dalla pagina Facebook dedicata alla storia "Alexandra-writes on Wattpad". Votate e commentate, grazie mille!




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