Capitolo 70

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"No!" Dianna si fece vicina alle sbarre della sua cella e vi si aggrappò trepidante di paura. Il batticuore che le martellava il petto creava un'eco ridondante nella grande cavità scavata nel terreno. Non avrebbe mai potuto accettare -o solamente pensare- che Tritone potesse venir meno alla sua immortalità per lei, lei che non era stata mai, in vita sua, capace di salvarsi da sola, per lei che, come un fantoccio che cade inerme a terra e che deve essere recuperato da un'altra mano, non sapeva rialzarsi sulle proprie gambe, per lei che non sapeva agire, o meglio, reagire.
Gli occhi della sirena si fecero dunque profondamente espressivi: erano malcelati il suo stupore ed il suo scontento. Il bianco dell'occhio le si arrossò, e su di esso iniziarono a camminare decine di piccole vene che andavano ricongiungendosi a quel blu opaco dell'iride. Dopodiché, le sue mani cedettero la presa attorno alle grate della gabbia, arrese.
Tristan, ciononostante, le rivolse un'occhiata sicura che rispecchiava l'irremovibilità della sua intenzione. Quello sguardo sembrava dire: "so quello che faccio, e non me ne pento". Glielo si leggeva in viso.
Persefone si mostrò sbigottita: le sopracciglia folte e disegnate creavano un perfetto arco sugli occhi scuri, e la bocca, di tanto in tanto, piegava meravigliata i suoi angoli verso il mento, quasi a maturare maggiormente quelle parole nella sua mente. Dopodiché, raccogliendo in una mano la sua grande mantella rossa, la regina si spostò verso un angolo della cava di pietra buia, che però, al suo passaggio, venne inaspettatamente illuminata, perché, ad ogni suo passo, Persefone sembrava portare con sé un ventaglio di luce dorata. Ben presto, pertanto, venne rischiarato un piccolo emiciclo nel quale svettavano massicci due scranni regali, entrambi in rifiniture dorate. Persefone ne occupò uno con eleganza, accavallando le gambe magre. "Vieni avanti," disse poi, scrutando Tristan.
Quest'ultimo, dapprima indugiante, mosse un passo verso la regina, tuttavia accorto.
Ade, intanto, in piedi all'altro capo della grotta, poco distante da Dianna, aveva intrecciato le braccia al petto e il suo cipiglio si fece curiosamente interessato, guardando la sua sposa. Era assorto.
Persefone sembrò rimembrare qualcosa, mentre alzava le mani delicate davanti al viso osservando i guanti che le fasciavano i polsi rilasciati, pendenti verso i palmi. "Comunque no, la tua immortalità te la puoi tenere. In fin dei conti, l'immortalità è un po' il cibo degli dei -brôma theôn- non vedo perché tu debba rinunciarvi. Io non lo farei mai."
"Io sì," ribatté Tritone.
"Audace e davvero degno di un uomo di onore. Ma ripeto, la tua immortalità è la garanzia che il tuo bel faccino rimarrà sempre in vita. Non vorrei che invecchiasse." Persefone alzò lo sguardo profondo. "Sono sincera."
Fu ora Tristan a concedersi dell'ironia nel tono e nelle parole: "Non credevo che la tanto famigerata Persefone, sempre descritta come una fanciulla ancora vulnerabile, piccola, quasi fragile, nascondesse simili pensieri contorti."
La regina venne piccata da una simile affermazione e, reggendosi ai braccioli del trono, si sporse in avanti, risistemandosi. "Oh, tu non sai, cugino, quanto sono in errore i mortali sul mio conto: nel loro immaginario comune io sono sensibile, buona, molto molto buona. Secondo i loro calcoli, avrei persino i capelli color sole." E fece un vago gesto nell'aria con la mano. "Bazzecole."
"Lo vedo."
"Dunque, ricominciamo." Persefone si guardò le mani e si misurò i polsi stretti avvolgendo attorno ad ognuno di essi l'indice e il pollice. "Perché sei qui?"
"Per riprendermi la mia donna."
"Questo mi è ben noto. Ma cos'è lei, a parte una sirenetta -con quei capelli rossi...- una sgualdrina? Una sguattera? Una serva? Una concubina? Un bottino di guerra? Come Briseide per Achille?"
Tristan, che più volte aveva fatto per interrompere bruscamente la donna che aveva dinanzi, rispose prontamente: "È la donna che amo."
Dianna vide Persefone rivolgerle fulminea un'occhiata, per poi esclamare a gran voce canterina: "Oh, per Zeus -mio padre!- questo è così romantico!" Ridendo, accompagnò le parole alzando una mano e battendosi una tempia con la punta delle dita.
"Non vedo cosa ci sia di divertente." Tristan era serioso ed imperterrito: congiunse le mani dietro la schiena e drizzò le spalle imponenti. Dalla sua posizione fredda e distaccata, si intuiva come il precedente scroscio di sentimenti avesse lasciato spazio ad un desiderio incontrollabile di venir rispettato nelle sue scelte e nei suoi pensieri.
"Nulla, davvero. Ma ora voglio solo assicurarmi che tu dica la verità."
"Dunque?"
Persefone distese un braccio oltre il bracciolo del trono, come a richiamare silenziosamente qualcuno. "Dunque ora ti presento Refyttep."
Fuoriuscendo da un angolo in penombra con una testolina da topo e con un ventre gonfio e rotondo, un piccolo mostriciattolo si posizionò ai piedi della sua regina. Aveva gli occhi vacui e un paio di denti aguzzi che sporgevano dalla mascella squadrata.
La dea degli inferi lo osservò con un sorriso appagato, poi ritornò con lo sguardo a Tristan. "È di una rara specie. Credo sia uno dei pochi superstiti, un vero ed unico esemplare. Ecco perché preferisco conservarlo per situazioni come queste, dove è indispensabile la sua presenza." Dopodiché, si rivolse alla piccola creatura. "Prego, Refyttep, fa' quello per cui sei stato creato."
Tristan, inizialmente, aggrottò le sopracciglia, perplesso e confuso, e così fece anche Dianna, il cui batticuore sembrò arrestarsi per un istante per osservare l'imminente. Finché d'un tratto, Refyttep non aprì le minuscole fauci, mostrando i canini affilati. Dapprima, Tristan si chiese per quale ragione avrebbe dovuto nutrir timore di un simile essere, ma si ricredette quando l'animale estroflesse una lingua lunghissima, lunga almeno tre metri, che srotolò dalle viscere del suo ventre -che dunque si sgonfiò- e con la quale andò a toccare la pelle di Tristan. A contatto con quella viscida, squamosa e bavosa lingua, Tristan urlò: essa, infatti, gli ricoprì il corpo di potentissime scariche elettriche, di un'intensità tale che Tritone cadde sulle ginocchia. Sentiva dentro le sue membra, gli organi quasi scoppiare, come fulminati, fucilati. Poco a poco, le scariche di corrente giunsero alla sua testa, e il cervello gli parve fondersi, tantoché Tristan incassò il capo al petto, raccogliendo la testa tra le mani, e gridò. Si rovesciò a terra, con le gambe raccolte in grembo. Poi rotolò supino. Inarcò la schiena. Urlò ancora una volta ad un cielo che non vedeva, con gli occhi chiusi. Spalancò le braccia, le quali si mossero ondeggianti come tentacoli squamosi, che la forza del mare porta via.
Anche Dianna urlò e si schiacciò ancora contro le sbarre. Gli occhi le lacrimarono ad una tale visione e il batticuore riprese a salirle sino in gola. Infilò un braccio nello spazio tra due grate e fece per afferrare un lembo della tunica di Ade, fomentata. Quando il dio si voltò, lei balbettò: "Vi prego... lasciate che... che si fermi, vi prego, vi scongiuro."
Ma il dio diede ben poco peso alla sua richiesta, e Dianna scoppiò in lacrime. Dopo aver nascosto il viso tra le mani e spinto con le dita le lacrime che continuavano a sgorgare, tastò il catenaccio della serratura che manteneva chiusa la cella, ma le dita le tremavano e, in aggiunta, ricevette un'occhiata da Persefone che la fece ritornare al suo posto.
La regina si alzò dal trono e, completamente impassibile dinanzi a quella visione sicuramente insostenibile per un cuore sensibile, si avvicinò a Tristan camminando aggraziata, alternando delicatamente i passi. Si stagliò al suo fianco e, mentre egli continuava ad essere percosso dalle scariche elettriche, gli sussurrò: "Dunque, ora dimmi più sinceramente: perché vuoi riprenderti quella donna?"
In un attimo di pausa, Tritone recuperò agitato il respiro e spalancò gli occhi come se si fosse appena risvegliato dopo un incubo turbinoso. "Ve l'ho... det..." Ma non concluse la frase perché un'altra scossa lo portò ad inarcare il busto. "Io... lei... la... a... amo."
"Ritenta." Persefone inclinò il capo e sospirò teatralmente. Dopodiché, gesticolò in direzione di Refyttep. "Più avanti, colpiscigli la testa."
E la lingua dell'animale si spostò sulle tempie di Tristan, poi scese verso gli occhi e le palpebre assunsero un colorito cianotico, tanto intenso per cui si sarebbe detto che il giovane avrebbe perso l'uso della vista. L'animale colpì anche le sue labbra, così, quando Tristan aprì la bocca per parlare, la sua voce uscì come spezzettata, fulminata. "È la... v-veri...tà."
La sirena, che oramai si era bagnata con le sue stesse lacrime, ebbe la forza di alzarsi e di sbattere prepotentemente contro le grate della cella. Questa volta, però, persistette e non si fece intimorire da alcun'occhiata o da alcun rimprovero. Neppure Ade che, risvegliatosi, le si avvicinò guardandola corrucciato e irritato le sortì alcun effetto. Al contrario: Dianna sostenne il suo sguardo e gridò: "Fermate quest'agonia o..."
"O...?" incalzò quasi divertito Ade, mentre alle loro spalle il supplizio martoriante continuava.
La sirena avrebbe voluto terminare la frase, ma non seppe quali parole utilizzare, perché in realtà si rese conto ben presto di come la sua impotenza la rendesse subalterna a qualunque desiderio di intervento. Così si abbandonò ad uno sfogo isterico e ricadde sul suolo, rinchiusa nella sua gabbia, sentendo sulla pelle le stesse scariche elettriche che pervadevano il corpo di Tristan. O meglio, ciò che percepiva non era lo stesso contatto fisico: era più un qualcosa che avvertiva dentro il cuore, qualcosa che le pizzicava allo stesso modo. Era come se quella sfera immaginaria dentro alla quale avevano sigillato il loro amore -spiritualmente e carnalmente- venisse seviziata da piccoli aghi che, in successione, ne scalfivano la superficie, sbriciolandola.
"Credo che dovremmo intervenire con altro." Persefone riprese. "Basta così, Refyttep. Hai già fatto abbastanza. Ora riposati."
La creatura riavvolse la lingua schiumosa e se ne andò. Tristan recuperò il respiro, in bilico tra la vita e la perdita di sensi.
Ma Persefone aggiunse. "Oh, ma io ho un piano di riserva." E si volse con uno scatto rapido verso un andito scavato nella grotta. La sua mantella rossa fendette l'aria. Richiamò qualcuno a gran voce, con un linguaggio incomprensibile, una lingua astrusa, forse antica. Poco dopo, comparve accanto a Tristan un bambino. Aveva grandi occhi grigi, resi acerbi ed ostili dalla linea irregolare delle sopracciglia, e una capigliatura corvina che, divisa in due metà, facevano apparire il suo viso più quadratico. Era macilento e le sue braccia portavano i segni della denutrizione. Quando ebbe la facoltà di riaprire gli occhi, Tristan lo osservò con un misto di compassione e dubbio.
"Lui si chiama Semaj." Persefone posò le mani guantate sulle spalle del bambino che, in tutto quel tempo, non aveva mutato espressione. "Al seguito del padre persiano, morì nella spedizione punitiva voluta da re Dario I nella battaglia di Maratona. Gli ateniesi ne fecero un ostaggio, poi lo uccisero, perché si narra che, durante il suo periodo di ostaggio, Semaj riuscì a distorcere i pensieri e i sogni di Callimaco, polemarco ateniese, facendo della sua mente un campo di battaglia dove si alternavano incubi e visioni raccapriccianti. Un dono fuori dall'ordinario, non trovi, cugino?"
Tristan non riuscì neppure a metabolizzare quelle parole.
Semaj iniziò bensì a fissarlo e Tritone si sentì nudo fino ai precordi. Annaspando per recuperare una dignitosa posizione, Tristan prese ad ansimare convulsamente e alzò brevemente lo sguardo sulla dea degli Inferi, ma il contatto visivo durò poco, perché ogni suo ciglio pareva bruciare, spingendolo dunque ad abbassare nuovamente lo sguardo. "Vi prego... no... basta, è... soffocante. Non lasciatelo agire contro di me..." E ammiccò al bambino. A Tristan apparvero strane le sue parole, come se non credesse di poter essere mai in grado di proferirle: benché reputasse ogni forma di supplica una debolezza che schiaccia gli uomini, questa volta aveva ceduto alla sua umana paura che era riaffiorata nel suo cuore angoscioso.
Persefone parve inizialmente addolcirsi, come se le parole del cugino avessero modellato la sua scontrosità, ma tornò a sfoggiare un sorriso sinistro. "Oh, no, infatti. Semaj non dovrà agire ora. Conoscerai il suo strabiliante potere tra poco." Dopodiché, senza distogliere lo sguardo dal giovane, distese un braccio verso la cella nella quale era rinchiusa Dianna e, con un movimento sinuoso ed elegante del polso, una scia potentemente luminosa sembrò stillare dalle sue dita, andando a sganciare il fermo della serratura della prigione.
Dianna venne immediatamente riversata fuori dalla gabbia angusta e, quando ebbe modo di ristabilirsi sulle proprie gambe, fece per correre da Tristan, con la trepidazione nello sguardo che ambiva a colmare il solco che era stato tracciato sul suo cuore, ma Ade, sotto ordinazione della moglie con la quale aveva scambiato sguardi eloquenti, allungò un braccio ed il suo mantello infernale venne calato a sbarrare il percorso della sirena.
Persefone la guardò: "Alt. Sei troppo precipitosa." Poi, tornando a Tristan, con voce sussurrata: "Vediamo se riesci a portare la rossa fuori di qui. Testiamo la tua caparbietà." Inclinò il capo, per poi drizzarsi e allontanarsi, prendendo a camminare in circolo, i capelli d'argento che creavano una lucente cornice. "Ricordo un signore che è stato qui, il più famoso poeta e musicista che la storia abbia mai avuto... ma non ne ricordo il nome." Strinse fortemente gli occhi, come per spremere la memoria, ma, fallendo, guardò il marito. "Caro, ti prego, aiutami."
"Orfeo."
Persefone si espresse in un moto accondiscendente e annuì. "Giusto, Orfeo. Egli era venuto qui per riprendere la sua amata Euridice, sua sposa uccisa dal morso di un serpente, ed iniziò a esprimere il suo dolore suonandoci" guardò Ade "una dolce e tristissima melodia con la sua lira. Credo di essermi persino commossa. Gli concedemmo dunque la felicità di ricondurre la sua Euridice nel mondo dei vivi, a patto che durante il tragitto verso la terra egli non si voltasse mai per constatare se la sua sposa lo stesse seguendo. Sfortunatamente -e questo" rise sardonica "mi addolora, perché speravo in un trionfo dell'amore- egli peccò di diffidenza, si voltò e la sua amata svanì. Ora per sempre," disse, millantando un dolore che non provava. E ritornò a Tristan, che era rimasto ricurvo a terra, lo sguardo voltato verso la sua amata quasi presa in ostaggio da Ade, ma le orecchie attente alle parole della dea. Persefone si chinò verso di lui e sfruttò la debolezza temporanea del giovane per accarezzargli ipocritamente il viso senza che egli si scostasse, brusco. Lo guardò negli occhi e vi si perse: erano così trasparenti, pensò. Persefone si sentì persino avvampare e pensò che quel dio sarebbe stato in grado di fare di lei qualunque cosa, una volta in forze. Ecco perché parlò velocemente: "Vediamo se, ponendoti davanti alla stessa difficoltà, tu saprai invece ricondurre la tua amata -che, a differenza di Euridice- è invece sana e viva, al tuo mondo. Vediamo se il tuo desiderio di amore è più forte della tua mancanza di fiducia nei confronti di coloro che ti circondano."
Dianna trattenne il respiro.
Ade guardò invece la moglie.
E Tristan non fece nulla, se non annuire e accettare il confronto con uno sguardo che, seppur stanco, era ancora caldamente espressivo.
"Alzati," fece poi Persefone rivolta a Tristan. Dopodiché, posò una mano su una spalla di Semaj e si accostò al suo piccolo orecchio. "Piccolo, ora è arrivato il tuo momento di agire. Sii crudele, se necessario."
Nel frattempo, Tristan si era rialzato e riusciva a sentire in quei momenti la voce di Persefone che creava un sottofondo, distorto però dal flusso rumoroso dei suoi pensieri. Ora lui era in piedi, e guardava Dianna con un amore incommensurabile. I suoi occhi vomitavano mancanza. E pensò che, se avesse voluto stringerla ancora al petto, avrebbe dovuto subire un ultimo sforzo. Anche Dianna lo guardò, nella modestia in cui poteva guardarlo, con il mantello di Ade che le lasciava scoperti solamente gli occhi. Nascosti alla vista di altri, Dianna e Tristan si stavano stringendo la mano a distanza.
"Voltati," aggiunse Persefone e rimase ad osservare se Tristan gli era obbediente. "Semaj ti precederà e la ragazza ti sarà al seguito. Ma non dovrai voltarti mai a guardarla, altrimenti svanirà e tu resterai così per sempre, distrutto e vuoto."
Dopo un lungo attimo di indugio, Tristan si voltò con un sospiro, ma non senza aver prima guardato Dianna tradendo qualcosa di diverso dal timore di un uomo o di un dio. E quando le voltò le spalle, gli sembrò di averla persa per sempre.
Ade liberò Dianna dal suo giogo e abbassò il mantello, assicurandosi però che la sirena non corresse dal giovane dio.
Silenziosamente, si incamminarono. Dianna percepiva i propri piedi sporchi e infreddoliti, le membra squarciate dalle privazioni, gli occhi violacei e le palpebre pesanti, ma la sua brama di libertà era più forte di ogni inibizione fisica. Il bambino, come previsto, precedeva Tristan, camminando all'indietro e proseguendo sorprendentemente sicuro, immettendosi nel lungo andito che portava verso la luce.
Quando i tre ebbero lasciato l'anticamera dell'oltretomba, Persefone cambiò espressione: la sua pelle si distese e le sue sopracciglia non disegnarono più un arco astioso sopra gli occhi. Bensì si avvicinò ad Ade, con un sospiro quasi melanconico, un sorriso debole, rattristato. "Tu non lo avresti fatto per me, vero?"
Ade la guardò e gli sembrò di scorgere il lampo fulmineo di una lacrima brillare nel suo sguardo.
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Semaj continuava a tenere lo sguardo puntato su Tristan, e non lo distoglieva mai. In effetti, le sue espressioni erano immobili: gli unici movimenti che compiva erano quelli delle gambe, che, come inflessibili pali di legno, si muovevano per retrocedere. Di tanto in tanto osava anche abbassare il capo, come se un peso morto fosse appeso al suo mento e lo costringesse a guardare con occhio torvo il giovane dio dal basso in alto, lanciandogli un maleficio silenzioso.
Ma questo sembrava astratto, e in realtà nulla accadeva. A tal proposito Tristan si chiese cosa mai intendesse Persefone con quelle parole, perché Semaj pareva solamente scortare i due amanti verso la luce, anche se per il momento quest'ultima non sembrava profilarsi all'orizzonte.
Lottando con se stesso per evitare di voltarsi -una lotta stremante perché la tentazione era quasi più intensa della volontà-, Tristan si fermò e così fece anche Semaj davanti a sé. Scrutando il bambino, gli si rivolse con risolutezza, aggrottando perplesso le sopracciglia. "Perché sei qui? Perché devi battere il percorso al mio fianco?"
"Perché la mia regina così mi ha detto." La voce del bambino era metallica: scorrevano lunghe pause tra una parola e un'altra. "Ogni sua richiesta è un ordine. Ogni sua parola è legge."
Tritone era sempre più confuso: ad un tempo, reputava infondate le parole di Semaj, ma al contempo sapeva che dietro esse si nascondeva qualcosa di ben più grande e per lui indecifrabile. Odiava così tanto non capire, così tanto che l'unico sentimento possibile era la rabbia.
"Dunque?" fece Tristan.
A quel punto, il bambino tese le labbra in un sorriso stretto, lasciandole unite, solamente alzandone gli angoli pallidi fino alle fossette sulle guance bianche.
Non era un sorriso, era una finta emulazione di quest'ultimo. Tristan, forse forte del suo bagaglio di esperienza alle spalle, sapeva riconoscere un sorriso, ne aveva visti tanti: sapeva che uno di quelli veri avrebbe illuminato anche lo sguardo, avrebbe lasciato brillare le pupille.
Semaj, invece, persisteva nella sua ostentazione di un'espressione dura. O meglio, espressione non avrebbe potuto chiamarsi. Non trapelava nulla dal suo viso, nulla di, pertanto, espressivo: era come se un muro invisibile ed invalicabile si fosse eretto tra i loro corpi.
Trascorsero molti attimi, prima che Semaj rispondesse: "Dunque... questo," lasciando l'ultima parola sospesa a mezz'aria. Essa si tramutò in un'eco turbinante e andò a colpire le pareti del lungo tunnel, il quale ora continuava in tortuose salite che si restringevano ad ogni passo.
Quando Semaj puntò lo sguardo su quello di Tristan, quest'ultimo non riuscì a scostarlo: il bambino aveva irretito i suoi occhi e lo costringeva a fissarlo, come se dovesse succhiargli le energie, le forze. La volontà di resistenza.
Lo sguardo del bambino divenne di un rosso fiammante che avrebbe potuto fare esplodere il mondo.
Tristan cadde in ginocchio, vittima di insostenibili visioni che gli facevano urlare l'anima.
Ora vedeva Dianna: la scorgeva da lontano, voltata di spalle, in un deserto che si distendeva senza un inizio né una fine, dai confini che, sfumati all'orizzonte, si tramutavano in una leggera foschia che distorceva il paesaggio piatto. La sabbia si sollevava sotto un vento asiatico proveniente da Oriente e ogni granulo si scindeva dagli altri simili, rimanendo appeso nell'aria per una lunga scaglia di secondo, quasi simboleggiasse un'ansiosa attesa, un'agitazione morbosa che non vuole scendere, che rimane lì, in bilico, a spezzare il respiro.
La sirena era ricoperta di alcuni stracci che avrebbero dovuto essere bianchi, ma che il viaggio e i segni del tempo avevano reso grigi, sudici e malconci. Le gambe erano nude e i piedi non calzavano più sandali; al collo aveva avvolta una sciarpa rossa, rossa quanto i suoi capelli, e dalla loro perfetta unione ne usciva un piccolo grande quadro che pareva una fiamma che avvampa nel nulla, alimentata da forze esterne. Però aveva freddo, Dianna. Non si aspettava alcun aiuto divino, non invocava alcun dio, rimaneva piuttosto a testa china, procedendo lenta, alzando occasionalmente la sciarpa sino al naso, seguendo i movimenti delle dita dei suoi piedi che affondavano nella sabbia. Non era raro che schiudesse le labbra denutrite per compensare la sete che le scalfiva lo stomaco. Gli occhi erano gonfi e pesanti.
Si fermò, tutt'ad un tratto: sembrò persino che dicesse qualcosa mentre alzava il viso a scandagliare l'orizzonte con gli occhi mare. Forse rifletteva tra sé, o forse aveva iniziato ad invocare Apollo. In ogni caso, sembrava percepire l'arrivo di qualcosa, come se ne udisse il sopraggiungere da lontano che andava gradualmente accrescendosi nel suono, come un treno che, lontano, fa sentire la sua presenza sobbalzando sulle rotaie.
Un vento gravante quanto un'onda si sollevò senza preavviso, spirando da ogni punto cardinale, e sbatacchiò Dianna a destra e a sinistra. Barcollò, ma rimase in piedi. Poi un'altra folata, più intensa, ora, più decisa. E il vento sommerse la sirena, facendola cadere sulla sabbia, debole nelle gambe esili che non covavano più alcuna forza.
Quel piccolo movimento risvegliò in Dianna un accenno di dolore, e pianse: le lacrime graffiarono i suoi zigomi, e la giovane era talmente assetata che raccolse sui polpastrelli delle dita il suo pianto e lo portò alla lingua, ma l'acidità della tristezza le fece sputare tutto.
La zufolate superbe non si fermarono: ne giunse una terza, di tutte la più maligna. Essa, con sé, sollevò ogni duna, ogni banco di sabbia, ogni cumulo. La polvere annegò Dianna, ricoprendola di sabbia dalla testa ai piedi. Annaspando e con il cuore in subbuglio, la sirena tentò una via di uscita agitando le braccia, ma ad ogni movimento la sabbia che la seppelliva andava aumentando.
Sommersa, le sue urla e le sue richieste di aiuto si attutirono. Ad ogni sua tentata parola, la sabbia le penetrava sin dentro la gola.
Morì così, soffocata, seppellita.
Tristan, che era rimasto carponi con le ginocchia tremanti, si riscosse con un grido che fece sorridere soddisfatto Semaj. Il figlio di Poseidone era dominato dal terrore, dal timore, dalle conseguenze che quella scena -tanto fittizia quanto intensa- aveva riportato su di lui.
Con la bocca spalancata dallo scetticismo e le palpebre che più volte si richiudevano veloci, come a lucidare degli occhi appannati dal soffio di orride allucinazioni, Tristan fece per alzarsi con il respiro corto ed il cuore che, pompando, pareva inviare al resto del corpo scosse di dolore che gli facevano gonfiare le vene. In effetti, ad ogni respiro, sentiva come un'inibizione nel suo petto, come se ogni vena, arteria o un semplice capillare si ingrossasse fino a diventare una sottile membrana elastica fragile, che avrebbe potuto frantumarsi.
Ma ogni tentativo di Tristan fu vano, perché Semaj lo guardò di nuovo -questa volta irrobustito dalla precedente vittoria- e Tritone ricadde a terra, le mani alle tempie.
Ora Dianna era sola: né vento e né luce le facevano compagnia. Bensì, nel chiarore di un'alba sfranta dal grigiore delle nubi che si accalcavano all'orizzonte, si stagliava in piedi, bellissima, lucente nella nebbia, vestita solamente di una lunga e bianca veste che le solleticava le caviglie magre. Di tanto in tanto portava una ciocca dei suoi capelli dietro le orecchie e di queste toccava nervosamente i lobi, come se fosse a disagio, in imbarazzo. Difatti, si guardava attorno e scorgeva nella vuota vastità del circondario un profondo senso di solitudine. Sembrava trovarsi in una di quelle distese rocciose tipicamente irlandesi, un tavolato calcareo dai colori spenti, ma dall'ineguagliabile forza attrattiva: ogni venatura, ogni ruga su quei ciottoli enormi sembrava essere stata scavata dagli anni di storia che quelle rocce avevano vissuto. Essendo scalza, la sirena sentiva sotto i propri piedi il gelo assorbito dalle rocce che le assiepava il vigore nelle vene e rallentava il circolo veloce del suo sangue. Si poteva scorgere qualche occasionale fiore solitario, dai petali color del sole, che sbucava coraggioso tra gli spazi bui che intercorrevano tra una roccia e l'altra. Dianna camminò per raggiungerne uno e ammirarlo; vi si accovacciò accanto e allungò una mano per accarezzarne lo stelo, ma questo le si spezzò tra le mani, tanto era debole, e Dianna si sentì quasi in colpa. Vedeva in quel fiore, oramai morto, una vita strappata, ora che sentiva nel suo cuore la consapevolezza crescente che anche la sua vita era in bilico.
Si rialzò, dopo aver depositato il fiore su un ciottolo. I petali furono spazzati nell'aria da un'improvvisa folata di vento che si riassestò il momento successivo in un torpore spettrale. La sirena prese a camminare, alternando un piede e poi l'altro, come una bambina che gioca, il viso innocente, ingenuo, candido. Sorrise un poco, aprendo le braccia e tentando di mantenere l'equilibrio mentre camminava sugli spazi tra le rocce. Talvolta barcollava, ma si rialzava con la stessa velocità con cui aveva indugiato. Sentiva che quello era l'unico modo per sentire il vuoto attorno a sé meno pesante. D'un tratto, però, un piede le si incastrò e Dianna vacillò. Cadde sul ciottolo urlando dolore e provando al medesimo tempo a far leva sulle proprie ginocchia per rialzarsi, ma il piede rimaneva sempre lì, incastrato. Poi, l'indicibile: un potente fragore scosse la terra e un movimento brusco udibile solo dall'eco roboante che rimbalzava nell'aria fratturò i grandi ciottoli. La terra si spezzò, le grandi rocce, oramai dissestate, si allontanarono e persero rotta dall'assembramento originario. Una profonda voragine si aprì con lo stesso suono con cui un coltello squarcia rabbioso una stoffa. Dianna urlò, appesa nel vuoto, il corpo in bilico nell'aria, reggendosi ai margini di un ciottolo che non prometteva stabilità: infatti, talvolta schegge di pietra le piovevano sul capo, sbriciolandosi come polvere grezza. Non osò guardare in basso, Dianna. Sentiva già l'asprezza presenza del vuoto, caldo e buio, insormontabile e infinito. Sapeva che se avesse lanciato un'occhiata oltre i suoi piedi, la paura l'avrebbe portata a cedere la presa. Una sua lacrima cadde nella voragine: Dianna ne aveva sentito la forte presenza, possente come un marchio a fuoco, quando essa le aveva scavato la guancia, ma non ne sentì il tonfo o la caduta quando essa si posò sotto, chissà dove, oltre quel banco rabbuiato.
Alcuni passi echeggiarono poco lontano. Facendo leva sulle braccia deboli, Dianna provò ad issarsi con tutta la sua volontà, ma non vi riuscì, e dovette aspettare che lo sconosciuto si avvicinasse e si sporgesse verso di lei per guardarlo in volto.
Quando l'uomo si avvicinò, Dianna alzò lo sguardo e rimase impietrita. Sebbene i suoi occhi fossero appannati dal pianto, distingueva i contorni di quel volto, sentiva di conoscerlo, sentiva che avrebbe potuto fidarsi. Dunque, ebbe il coraggio di staccare una mano dal ciottolo al quale si reggeva e di distendere il braccio verso il giovane, implorando aiuto.
Il ragazzo la osservò e la studiò per un momento. Poi nascose le mani in tasca, inclinando il capo.
Nella mente di Dianna si affollarono tante, troppe domande.
Solamente dopo aver sbattuto più volte le palpebre, Dianna vide nuovamente con chiarezza, la vista tornata lucida. E solamente quando il giovane allungò un piede e le calpestò con rabbia l'unica mano con cui ora si reggeva alla roccia lo riconobbe: era Tristan.
Tritone si ridestò dall'incubo, l'ennesimo, con il respiro corto, le vene del collo inturgidite e i capillari sopra le palpebre che si arrossavano ogni volta che strizzava gli occhi, come per cancellare i ricordi del sogno che rimanevano frammentati e taglienti nella sua testa.
Dianna era alle sue spalle, ma Tristan non la vedeva, non poteva, non doveva vederla. E la sirena lo guardava con un dolore lacerante, percepiva la sua tristezza, la sua disperazione, la sua sofferenza, e si chiese cosa mai quel dannato bambino avesse creato nella mente di Tristan tanto da indurlo a piegarsi a terra e a rigettare le urla contro il suolo. Sembrava che la sua mente fosse stata posseduta.
D'un tratto, Semaj guardò Tristan con un ghigno, la voce che decantava vittoria. "Tu sei un errore nella sua vita," gli disse, per poi ammiccare a Dianna.
Tristan scosse il capo, provando a rialzarsi. "No..."
"Sì, lo sei. Sei il male per lei."
"Non è vero..."
"Allora guardala. Non la vedi? Non vedi come è ridotta a causa tua? Il suo unico errore è stato amarti."
E, lentamente, il capo di Tristan iniziò a muoversi: si stava voltando verso Dianna.
La sirena sperò che qualcosa lo fermasse. Terrorizzata, spalancò gli occhi, sussurrando tra sé: "Non girarti, non guardarmi, ti prego."
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Questo capitolo è molto lungo, ma è ricco di vicende. Persefone fa torturare Tritone per estrocergli una presunta verità, ma il tutto fallisce: lui vuole Dianna. Così gli ripropone l'impresa di Orfeo, che non è andata a buon fine: non deve mai voltarsi durante il tragitto di ritorno, altrimenti perderà Dianna per sempre. E notiamo anche che Persefone lo fa per mettere alla prova Tristan, perché vuole vedere se l'amore vincerà davvero. Dolce *-*
Però lo fa accompagnare da quel bambino che ha il potere di distorcere i pensieri della mente. Così Tristan inizia ad immaginare una fittizia Dianna in pericolo, il tutto per farlo voltare. E forse ci riesce. Che dite, secondo voi alla fine si gira?
Comunque, devo darvi una spiacevole notizia, ma prima o poi sarebbe arrivata: il prossimo sarà l'epilogo, o forse quello dopo, perché sarà molto lungo e non so se Wattpad me lo farà pubblicare.
Intanto fatemi sapere cosa ne pensate di questo! Votate e commentate, grazie mille!



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