Capitolo 24

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Dianna aveva tentato più e più volte di incastrare i suoi pensieri e le sue riflessioni in un'unica massa compatta, in una crosta protettiva, affinché non potessero frantumarsi e crollare, investendola con il loro galoppo impetuoso.
La cupola protettiva si era però crepata, graffiata, e ora era definitivamente crollata. E il peso dell'impatto aveva spinto Dianna e le sue deboli e residue forze al suolo, impedendole di rialzarsi e di riflettere obiettivamente e con giudizio.
Perché ora, invece, la sua mente era ritornata ad annidarsi, ad intrecciarsi come i fili di un gomitolo che non riusciva più a sfilare, e una mischia di voci impertinenti s'affossò nella sua testa: sussurri che le dicevano di non pensare e di lasciare che lo scorrere delle vicissitudini rassettasse ogni cosa, e urla stridule che le suggerivano di lasciar uscire il ruggito rabbioso dei suoi sensi.
Dianna non ascoltò né l'una e né l'altra: non finse indifferenza e non ruggì adirata.
Ma si limitò a cercare di trovare una buona ragione che spingesse Tristan a comportarsi in quel modo: l'aveva raggiunta al Massbury Institute per assecondare il volere di suo padre, l'aveva baciata e aveva tentato di fare di lei e del suo corpo oggetti su cui esercitare il proprio dominio divino, le aveva dato l'illusione che la sua vita fosse oramai in procinto di crollare da un dirupo, e invece aveva protratto la sua paura facendole sempre credere con sciocche vendette di essere tanto inutile quanto appetibile come preda, aveva ballato con lei, poi inspiegabilmente sembrava essersi frantumato e annullato come una goccia di pioggia che si perde nell'oceano quando aveva visto le sue lacrime ed infine aveva confessato a sua sorella Bentesicima di credere che nella sirena ci fosse qualcosa che lo stava progressivamente distruggendo.
Dianna aveva colto con una gioia approfittatrice la possibilità di origliare i discorsi di Tristan con la sorella, certa di poter successivamente avere le idee più rischiarate, ma questo aveva inaspettatamente contribuito a renderla ancor più confusa: non riusciva a trovare una risposta al nesso illogico di quella situazione.
Tritone era così controverso! Un attimo era un dio sicuro dei suoi passi e l'attimo dopo li ripercorreva a ritroso, indietreggiando.
Non che fosse biasimabile tentennare -in fin dei conti Dianna lo faceva sempre- ma c'era qualcosa nello sguardo di Tristan la sera fuori del Dance Dark che le aveva fatto presupporre non si trattasse di una semplice titubanza ma di qualcosa di più profondo. Poi si era congedato da lei e si era allonatato muovendo veloci passi, come se stesse scappando da un terrore che sembrava stesse inseguendolo.
Dianna ricordò solamente di averlo visto prendere la propria testa tra le mani in un gesto disperato.
Poi, quando la sirena credeva che tutto fosse tornato alla normalità -se tale si poteva definire- lo aveva visto urlare rabbioso contro sua sorella, ripetendole che il suo esser donna non le conferiva alcun diritto di alzare voce in capitolo.
Era sempre così deciso a reprimere il potere femminile? si chiese la sirena.
Dopodiché, Tristan aveva attribuito la propria confusione a Dianna, incolpandola di essere la causa maggiore della morsa che gli stringeva fastidiosamente l'anima, e -al sol sentirgli pronunciare quelle parole- Dianna si era domandata se scherzasse o se fosse serio.
Che potere aveva lei, insulsa sirena quale aveva compreso di essere, di lasciar capitombolare tutte le sicurezze del figlio di Poseidone?
Si sarebbe ben detto il contrario: era lei la vittima dei suoi attacchi.
Dianna non riusciva davvero a decifrarlo.
E ora sospirò, stesa sul letto, lo sguardo fisso sul soffitto buio del dormitorio, di tanto in tanto spruzzato degli albori rosati della prima aurora.
Dianna inclinò il capo e seguì i movimenti delle scie colorate sulle pareti, silenziosa, afferrando così la prima opportunità che le si era presentata di trovare un rimedio all'insonnia.
Dall'altra parte della stanza, invece, Elena dormiva pacificamente: un lieve respiro si levava dalle sue labbra, rotto occasionalmente da qualche grugnito infastidito quando era costretta a rigirarsi nel letto per trovare una posizione più comoda.
E, quando Dianna si chiese dove fosse Jana, -che non aveva più visto dal momento in cui era corsa dietro a Byron la sera prima- questa entrò in stanza.
Dianna scivolò giù dal letto e si affrettò a prendere la piccola lucerna tra le mani, camminando nella direzione della compagna facendosi strada con quella povera luce.
Quando il volto di Jana venne rischiarato, Dianna la vide decisamente appassita: le guance erano pallide, lo sguardo spento, i capelli corvini accartocciati e gli occhi trasparenti incorniciati da fasce violacee, residui di una notte insonne.
Jana levò debolmente lo sguardo verso Dianna, la soppesò per un istante e poi sospirò, lasciandosi cadere sul letto, le mani davanti agli occhi.
La sirena si sedette al suo fianco senza proferire parola e senza domandare la ragione del suo stato, certa che sarebbe stata Jana a dare tutte le spiegazioni necessarie.
E così fu.
"Byron è distrutto." Jana sussurrò, la voce alterata da un'empatica tristezza.
"Perché?"
"Ieri sera, alla piana del fuoco, uno studente gli si è avvicinato consegnandogli una lettera. Era di sua madre."
"Di sua... madre?"
Jana annuì. "Sì, perché a differenza di Elena e di me -che non so se la mia sia viva oppure no-, Byron ha una madre. È figlio di un'umile fioraia e di un uomo che aveva una piccola pescheria in un borgo della Lousiana. Quando il padre perse il lavoro, Byron fu costretto a lasciare la squadra di baseball in cui si allenava in orario extra scolastico e ad abbandonare le lezioni di chitarra." Jana portò una mano al petto e strinse il tessuto della camicia, come se quelle parole le marcissero il cuore. "Tutti i suoi sogni furono infranti, perché devi sapere che Byron è sempre stato ambizioso. Ecco perché lo amo."
Dianna sorrise, perché scorse nel volto di Jana la tenera fanciullezza di un cuore innamorato.
Jana continuò: "Iniziò quindi a ribellarsi, ad uscire la sera, a tornare a casa alle quattro di mattina, nella speranza di spaventare i suoi genitori, vendicandosi così per tutto ciò di cui era stato privato. Finché i suoi genitori non lo spedirono al Massbury Institute, dicendogli che non potevano più prendersi cura economicamente di lui e soddisfare i suoi capricci."
"Oh..." mormorò Dianna, ma quel debole suono le parve una risposta troppo concisa. "Eppure Byron sembra avere una grande tenacia."
Jana soffocò un'amara risata, mentre fissava il vuoto. "Byron non ama mostrarsi debole. Non ha mai mostrato le sue sofferenze. Ma ieri tutta la sua rabbia è esplosa. I suoi genitori non gli hanno mai scritto, non lo hanno neppure mai chiamato al centralino pubblico dell'istituto per augurargli buon compleanno ogni 9 maggio, e puoi ben capire per quale ragione ieri ogni sua forza è crollata quando ha saputo dalla lettera che sua madre aspetta un bambino."
"No, in realtà non lo capisco," bonfonchiò Dianna, osservando le pieghe della propria veste. "Se sua madre aspetta un bambino significa che quest'ultimo deve dirle qualcosa, cosa c'è di sbagliato?" fraintese.
Jana si voltò, l'espressione attonita. La osservò compassionevole. "Dianna, sua madre è incinta."
"Oh."
"È così assurdo! Gli stessi genitori che lo hanno rinchiuso qua dentro con la bugiarda giustificazione di non poterlo più crescere economicamente, si sono ora dati da fare per mettere al mondo un piccolo bastardo che certamente non crescerà chiedendo le elemosina."
"Quindi Byron..."
Jana la interruppe bruscamente, alzando una mano. "Byron è ferito, Dianna. Quando i tuoi genitori ti rinnegano dicendo che non possono più crescerti e decidono poi di prendersi cura di un'altra creatura, non puoi essere altro che ferito. Byron si mostra forte. Ma è debole," disse in un sospiro, una tristezza atroce che le logorava l'anima. "Come me," aggiunse poi.
Dianna alzò lo sguardo. La sua era sorpresa, ma era anche rifiuto: non accettava di credere che una giovane ferrea come Jana dovesse ora crollare nel baratro. Quindi allungò una mano e la posò sulla sua, accarezzando il suo dorso e infondendole quella vena di sostegno solidale che sapeva l'amica aveva bisogno. "Tu sei forte, Jana. Tu ed Elena siete le persone più forti che io conosca. E," posò l'altra mano sul cuore, "te lo giuro su Zeu... me stessa, ogni giorno mi obbligo a seguire il vostro esempio, a seguire e ad emulare il vostro modo di affrontare la vita."
Jana alzò lo sguardo madreperla e, nella tremolante luce della lucerna oramai posata imprudentemente sul letto, i suoi giovani lineamenti s'incespicavano e s'aggrottavano sul viso pallido. Poi chiuse gli occhi e delle segrete lacrime, delle gocce nascoste inumidirono le sue ciglia.
Però non caddero.
Sembrò che Jana le trattenesse, avvolgendole con una fune e tirandole affinché rimanessero immobili.
Poi parlò: "Ma non puoi immaginare, tu non puoi immaginare, Dianna, il dolore che ho provato quando ho letto anch'io la lettera di sua madre. Vi era addirittura scritto che sperava lui le rivolgesse i suoi auguri e che decidesse i nomi di battesimo da dare al piccolo. Questa è insensibilità. E lui, lui che non ha mai mostrato alcuna debolezza, lui che non ha mai permesso ad una triste espressione di corrucciare il suo volto... è scoppiato a piangere. E... e... qualcosa è scattato dentro di me, io non... non lo spiegare." Jana socchiuse gli occhi e si immerse nel resoconto della vicenda, stringendo una mano al petto e lasciando intendere che ogni sua parola urlava da lì, dal suo cuore. "Ogni sua sofferenza è la mia, lo sai. Quindi mi sono inginocchiata davanti a lui e gli ho preso il volto tra le mani. È stata la prima volta che ho avuto l'opportunità di accarezzarlo. Le sue guance erano fredde, ma le sue lacrime così calde che quando le ho raccolte sulle dita credevo di poter ustionarmi. Io..." Jana poi portò le mani sul viso, racchiuse il pollice e l'indice attorno al naso e scosse il capo, lo sconcerto nitido. "Quindi ti prego, Dianna, ti scongiuro. Qualora tu fossi triste, qualora tu avessi voglia di piangere, fallo, fallo pure. Ma non davanti all'uomo che ti ama, lo distruggeresti, uccideresti anche lui."
Per qualche ragione che non riuscì prontamente a definire, Dianna spalancò gli occhi e tentò di ripescare quel ricordo che le risultava tanto familiare a quelle parole, ma non vi riuscì.
Jana continuò. "Poi Byron ha lanciato la lettera a terra, l'ha strappata e ha posato i gomiti sulle ginocchia perché non voleva mostrarsi in quello stato, ma -benché fossi distrutta- ho apprezzato il fatto di poter essere partecipe di quel momento così intimo. C'ero io, io," sottolineò, "quando lui piangeva. Non c'era nessun altro. Io. E... e quello che ho potuto fare per consolarlo, l'ho fatto. Gli ho asciugato le lacrime e poi le ho baciate. È come se decidessi di prendere quelle gocce e di far di loro una parte di te. È stato bellissimo." La sua voce si fece malinconica e la stretta intorno alla mano di Dianna si indebolì. "E sono restata con lui sino all'alba. Non potevo abbandonarlo. Lo amo. Nella gioia e nel dolore."
Nella gioia e nel dolore.
Dianna ripeté come un mantra quella formula nella propria mente.
Le parve un incastro perfetto la miscela di quelle due emozioni, tanto differenti ma unite dall'amore.
Si chiese che sapore avesse, l'amore.
E se un giorno lo avrebbe mai assaggiato.
Intanto, nell'immobile sottofondo del silenzio, si udiva una penna correre veloce su un foglio. Dianna e Jana alzarono lo sguardo all'unisono: Elena stava appuntando qualcosa sul suo taccuino, la lingua stretta tra i denti per la concentrazione, dopodiché -sentendo probabilmente l'afa delle pesanti occhiate su di sé- alzò lo sguardo dal buio. Chinando il capo e chiudendo il taccuino al petto, farfugliò: "Ho solo... ho solo appuntato qual-cosa della vostra... conversazione. Sapete... potrebbe... sì, potrebbe servirmi. Per scrivere. E... e a me piace scrivere d'amore," concluse poi scrollando le spalle.
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Dianna strinse la giacca di Jana sulle spalle. Gliel'aveva furtivamente sottratta mentre questa stava dormendo -poiché dopo il lungo resoconto della serata precedente Jana si era addormentata- e aveva deciso di farne la propria provvisoria protezione contro il gelo della contea di Mathews.
Approfittando infatti dell'insonnia che l'aveva oramai inguaribilmente colpita, Dianna era sgusciata via dal Massbury Institute qualche minuto prima che Mandy facesse svegliare gli allarmi di coprifuoco delle otto del mattino, e ora, con i capelli fiamma che s'agitavano nel vento funesto e la veste da camera che li imitava, Dianna si piegò un poco e si sfilò i piccoli stivali.
Ora, riusciva a percepire il solleticore della sabbia sotto i piedi e il rude colpo di qualche sasso che di tanto in tanto pestava nel cammino.
Aveva deciso di evadere: da troppo tempo, oramai, non aveva percepito sulla pelle il bacio dell'acqua, dell'oceano, delle onde.
E quella mancanza la stava logorando di una nostalgia epatica.
In fin dei conti, cosa mai sarebbe accaduto? Ora era fuori dal mondo, lontana da ogni sguardo e non aveva quindi timore di trasformarsi. Inoltre, dubitava fortemente che qualcuno potesse rintracciarla: non credeva che Poseidone avrebbe rotto lo specchio dell'acqua per afferrare le sue caviglie e trascinarla via con sé.
Avrebbe trascorso solo una manciata di minuti in riva al mare, nulla di più.
Quindi, con il sole che accendeva i suoi bagliori dietro un promontorio che cadeva a strapiombo sulla sinistra e con un'insenatura curvilinea che racchiudeva quel lembo di oceano in un bacino cristallino, Dianna fece capolino dalla fitta vegetazione e mosse alcuni passi.
Il vento le frustava la pelle, ma era un'agonia piacevole. Qualche granulo di sabbia s'alzava dalla tavola bronzea e s'appiccicava alle guance di Dianna con fermento, creando in breve tempo una spruzzata di immaginarie lentiggini sui suoi zigomi.
La sirena avanzò e, con cautela, si sfilò la giacca di Jana e la veste da camera, adagiandole sulla sabbia. Con altrettanta prudenza si sedette e prese ad avvicinarsi lentamente alla riva, dove l'acqua orlava la costa.
Allungò una gamba stringendo timorosamente le labbra.
E, quando l'acqua toccò il suo piede, agitò velocemente le dita per assicurarsi se quella sensazione d'improvviso benessere fosse solamente fittizia o si plasmasse con realtà sulla sua pelle.
E con un sorriso, Dianna constatò come tutto fosse reale.
Non ci volle molto affinché squame turchesi s'arrotolassero dolcemente attorno alle sue gambe, i riflessi cerulei graffiati dalla luce del sole sferragliante. E la sua meravigliosa pinna s'allungò sulla sabbia.
Dianna avvertì il profumo di casa. Ora era se stessa, era una sirena nella sua più totale bellezza.
Sorrise, pertanto allungò le braccia dietro di sé e vi si resse con una gioia vivace, mentre gettava il capo all'indietro e chiudeva gli occhi, respirando quell'aria di libertà.
Finalmente si era nutrita d'acqua, di mare, di oceano.
Lasciò fluire il suo respiro per qualche minuto, in silenzio.
Eppure, di tanto in tanto il silenzio veniva rotto da un suo pensiero che ben presto si tramutò in convizione: alle sue spalle, qualcosa si muoveva di soppiatto.
Dianna fu certa di non essere sola.
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Che ne pensate di Jana e delle sue parole?
E cosa farà questo qualcosa -o meglio- qualcuno che sta spiando Dianna?
Votate e commentate!
Grazie mille!

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