Capitolo 15

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Dianna portò le mani alla fronte e massaggiò le tempie frustate con i pollici, mugolando silenziosamente.
La camera era vuota. Vi aleggiava un completo silenzio rotto di tanto in tanto dal fruscio del vento che solleticava le lenzuola accartocciate dei letti ancora abbandonati al disordine.
Jana ed Elena erano alla piana del fuoco con Kristiàn e Byron.
D'altronde, quella era un'abitudine fossilizzata del sabato sera che compensava la triste consapevolezza di non poter vivere, a detta di Jana, fine settimana festosi come adolescenti normali.
Normali.
La sirena ostentò disappunto: ascoltava sempre il suono di quell'aggettivo arricciando il piccolo naso bianco: era un epiteto troppo generico, considerando che ogni persona avrebbe potuto ritenersi normale nelle proprie virtù e nei propri difetti, nei propri interessi e nelle proprie distinzioni, perché questi sono una gemma personale, ed è l'idea della normalità più vicina al pensiero di ognuno.
Abbandonò i suoi attimi di riflessione e tornò agli appunti di letteratura inglese.
Fissò le lettere distorte dalla fretta delle sue dita che avevano corso sul foglio mancando di raffinatezza. L'inchiostro si intrecciava in graffi.
Mr. Cunningham aveva tenuto il suo sproloquio su Alexander Pope con grande visibilio. Lo aveva definito l'eroe elegante e audace della letteratura inglese settecentesca, sostenendo il pensiero ottimista del poeta nei confronti dell'umanità e il suo disprezzo per le imperfezioni dei singoli individui.
Dianna trovava tutto ciò assurdo.
Durante la lezione del giorno precedente aveva dunque preferito esaminare l'espressione contratta dalla concentrazione di Tristan, i cui occhi non tardavano a folgorare e a lampeggiare d'interesse. Lo aveva notato ripetere lentamente con le labbra gli aforismi di Pope che uscivano dalla bocca del professore, come se gli fossero parole già note e conosciute.
Dianna se n'era chiesta la ragione. Considerando Tritone un balordo individuo la cui vendetta superava i limiti di tolleranza, aveva inarcato le sopracciglia dallo stupore nel notarlo così elegantemente appassionato al suon della poesia. Era così controverso.
Ma un ricordo ben vivo nella mente della sirena, ora, rispose ad ogni sua domanda.
Quei modi... quelle parole... quella poesia... quella musica... quegli abiti e quell'educato distacco che vigeva in ogni relazione... mai -e dico mai- ho trovato qualcosa di più sorprendente del Settecento.
Dianna fece scivolare sul pavimento gli appunti su Alexander Pope con un veloce gesto della mano: non sarebbe stata capace di studiare e di memorizzare aforismi settecenteschi così tanto cari al suo nemico.
Pertanto si maledisse per non essere andata alla piana del fuoco con Jana ed Elena. Avrebbe potuto distrarsi un po' ed illudersi di poter vivere -ancora una volta- una vita normale, con persone -in parte- normali, stringendo amicizie normali e coltivando obiettivi e sogni normali.
Sì, avrebbe dovuto andarci. Sapeva che Tristan non sarebbe stato presente alla piana del fuoco: da giorni, oramai, si escludeva dalla partecipazione alla vita sociale, e Dianna poteva scorgere la sua figura solamente durante le lezioni di letteratura inglese, chimica ed educazione fisica.
Persino durante l'intervallo non era più presente in mensa o, se presente, era appoggiato alla sua soglia con le mani infilate nelle tasche e lo sguardo circospetto, stretto in una fessura, che indagava a scrutare l'interno del refettorio.
Dianna sapeva che quello sguardo cercava lei.
Non aveva bisogno di voltarsi per sentirlo vicino.
La sua era, purtroppo ed inspiegabilmente, una presenza asfissiante.
E, ora, con il capo poggiato alla parete e gli occhi oceano che riuscivano a filtrare il lenzuolo di nebbia che offuscava le vette trascurate del Massbury Institute, Dianna guardava fuori. E le mancava il tramonto di qualche ora prima: quei colori infuocati e sgargianti le donavano qualche speranza, le donavano un orizzonte pacifico da raggiungere dopo le continue e aspre vicissitudini. E, invece, quelle sfumature tetre e spente della sera la rattristavano. La intimorivano. Dianna era intimorita dalla forma che prendevano i suoi pensieri: non riusciva a spiegarsi come questi potessero essere diretti sempre su Tritone.
Lei odiava la presenza del giovane.
Ma odiava anche il fatto di non riuscire a fare a meno di pensarlo.
Sospirò e decise di evitare, da quel momento in poi, la solitudine, perché questa non era che un'occasione per rimanere sola con i suoi pensieri e trastullare la sua mente lungimirando a vane speranze che non avrebbe mai visto realizzarsi.
Dianna si levò sulle punte dei piedi e tentò di scrostare le macchie rugginose intirizzite contro le grate della piccola finestra, e l'aprì: immediatamente fu investita da un vortice di gelo e fredde folate zampillanti che le graffiarono le guance delicate.
Dianna non era abituata a quel gelo. D'altronde, non ne era sorpresa, perché aveva spesso sentito Jana fremere eccitata e in tutta attesa per un gelido inverno dicembrino, perché sosteneva che un Natale sotto la neve tutte la tristezza rende lieve.
Dianna non sapeva cosa fosse la neve, ma se questa era davvero in grado di alleggerire le sue tristezze, allora la sirena sperò presto in un suo arrivo.
Ma il freddo di quella sera era insostenibile. Riusciva ad indolenzire i suoi sensi e ad intrecciare i suoi pensieri; riusciva ad elettrizzarle la pelle ma ad immobilizzarle il respiro.
Quella sera era fredda come la lama di un coltello, pensò.
Un coltello.
Il coltello.
Dianna drizzò il collo felino e i suoi capelli sangue le si incollarono alle ciglia e alle guance. Fissò lo sguardo nel vuoto per una manciata d'istanti, ma quando percepì nuovamente un'energia palpitante dentro di sé, pensò di nuovo.
Il coltello.
Voltò fulminea il capo verso la camera e, nonostante la pesante e densa oscurità, non aveva incertezze: il coltello era lì.
Quel coltello che aveva furtivamente afferrato e infilato inspiegabilmente ed istintivamente nella tasca della sua giacca mentre lavava disperata i piatti luridi nelle cucine dell'istituto.
Era lì, sulla scrivania, sotto un cumulo di dispense ancora intonse.
Ne scorgeva la lama brillare.
Non ebbe ulteriori indugi.
Con un rapido gesto della mano schiacciò la finestrella contro la parete e la chiuse.
Zampettò con i freddi piedi nudi verso la scrivania, la solita vestaglia da camera color cristallo che rasentava le assi del pavimento.
E la sua figura -simile ad uno spettro inconsistente- arrancò con fretta e afferrò il manico del coltello.
Lo portò al viso e lo esaminò.
Era acuminato. Tagliente. Forse eccessivamente tagliente.
Fu certa di aver visto una scintilla scivolare sfolgorante sulla sua lama.
La sirena pensò a quanto dolore potesse arrecare quell'apparente innocuo e piccolo attrezzo.
E non seppe quale demone le scosse gli istinti, ma era ferma, ora, nella sua convinzione: voleva fare del male a chi le causava tutte quelle sofferenze. Voleva rendere pariglia.
Ed un solo nome lampeggiò nervoso nella sua mente.
Tritone.
Uscì dalla camera, oramai incurante del freddo. D'altronde, cosa importava del gelo, se quell'adrenalina che scorreva ora nel suo corpo la riscaldava e le ubriacava i sensi?
I corridoi erano bui e le camere sigillate nel loro respiro consumato. Dianna vagò incerta: mosse un primo passo, poi un altro, allungando una mano verso la parete per essere certa che qualcosa di compatto le donasse l'appoggio necessario per andare avanti senza tentennamenti. Riusciva a percepire sotto le sue dita gli scialbi fili della tappezzeria delle pareti raggrumarsi in secchi coaguli.
Il coltello sembrava bruciare nel pugno della sua mano sinistra, nascosta sotto una piega slavata della veste.
Contò i suoi passi.
Quattro.
Nei suoi -rammentò- trentasette giorni trascorsi nel Massbury Institute, Dianna aveva assorbito la concezione della struttura: sapeva che doveva percorrere quindici passi per raggiungere la camera di Kristiàn, Byron e, soprattutto, Tristan.
Più di una volta il suo equilibrio si faceva improvvisamente precario e la sirena finiva per barcollare verso le porte dei dormitori, dai quali si levava un lamento rumoroso che poi s'addolciva nel silenzio. Di tanto in tanto, invece, la sua spalla urtava la cornice di qualche quadro agganciato disordinatamente alle pareti, che partiva poi in una lenta oscillazione cadenzata.
Quindici.
Si fermò.
Allungò una mano verso la porta del dormitorio al suo fianco e ne tastò il rivestimento.
Dianna non necessitava di certezze: sapeva che quella era la camera di Tristan. Sapeva anche che l'avrebbe trovato lì dentro, solo.
Sorrise e il desiderio palpante di avvertire il sangue del corpo di Tritone bagnare le sue dita si fece più ululante.
Sospirò e bussò alla porta.
Attese, con il cuore raggelato nel petto. Lo stesso cuore che era però infiammato dalla crescente adrenalina.
Nessuna risposta.
Tentò nuovamente.
Bussò.
E questa volta Dianna graffiò con rabbia e frustazione l'intonaco delle pareti quando non ne seguì alcuna risposta.
Forse Tritone si trovava sotto gli archi della loggia, pensò, poco distante dal cortile dell'istituto: era un luogo assai frequentato dagli studenti.
Abbrancò il coltello nella sua mano e avanzò dunque un passo.
Ma non riuscì ad avanzarne due.
Una voce ruppe il silenzio e squarciò spietatamente il mantello del buio.
"Oh, questi quadri... Mi chiedo chi li abbia commissionati. Costui non ha affatto il senso estetico. Quale orrore! D'altronde," una lingua schioccò su un palato, "sarebbe disumano pretendere l'avvenenza dell'arte barocca in questo sporco ventesimo secolo."
Il sangue si consumò nelle vene di Dianna.
Un brivido gelido corse lungo la sua spina dorsale e si diradò in ogni fibra dei suoi capelli, chiudendole la testa in una cappa polare.
Quella voce!
La voce!
La sua voce!
Improvvisamente, una delle lanterne folgorate appese alle pareti, si illuminò, e nel suo alone si rischiarò la figura di Tristan.
Egli teneva il braccio spiegato verso il soffitto e le sue dita, dalle quali zampillavano gocce d'acqua, si poggiavano sulle lanterne, accedendone i fili elettrici di una folgore che le faceva illuminare.
Una ad una.
Poi ritirò il braccio e asciugò il suo indice bagnato poco sopra la lenta morsa della cintura dei suoi pantaloni, delineando la vita stretta del bacino. "E luce fu, direbbero questi poveri cristiani ignoranti. Ma mi sembra una formula accettabile." I suoi occhi spumanti si spostarono su Dianna. "Potremmo ammirare l'oscenità di questi quadri assieme, ti va?" La sua voce divenne intrisa di sarcasmo. "Chissà perché li hanno piazzati qui proprio ieri... Forse gli studenti si sono lamentati della poca eleganza di questa prigione e Mandy ha ben pensato di schiaffare qui simili opere d'arte, ma la cui bellezza mi giunge assai lontana." Tristan assottigliò lo sguardo ed analizzò una delle tante tele scolorite appese alle pareti. Poi gesticolò e indicò Dianna. "Ma voglio sentire il parere di una persona assai vicina allo stereotipo di raffinatezza che sono certo potrà esprimere un giudizio competente ed obiettivo." I suoi occhi si spalancarono, infernali. "Che ne pensi, sirenetta? Questi quadri sono forse all'altezza dei tuoi bellissimi occhi, del tuo magnifico volto e delle tue soffici labbra?" Il tono con cui parlava si fece più sommesso, intriso di una sfumatura ardentemente suadente, la cui percezione ubriacava la pelle. Si avvicinò, perentorio.
Dianna si prese una manciata di istanti per osservarlo: i capelli raggianti liberavano ora la fronte dalla loro massa e si aggrovigliavano in ciocche scarmigliate sulla nuca; le labbra vermiglie concorrevano con l'acceso colorito dello sguardo e la pelle marmorea scivolava impudente sotto un abbigliamento distratto, disordinato. La camicia dell'uniforme era infatti mal rassettata sul busto, i primi bottoni erano slacciati e il tessuto si apriva a rivelare le linee curve di un petto che non richiamava rivali.
Tristan infilò un dito sotto il nodo della cravatta e se la sfilò con movimenti esperti, avvolgendola poi attorno al suo polso, avanzando.
Dianna arretrò, i piedi titubanti e l'espressione attonita.
Tritone inclinò il capo e prese a scrutarla. "Dunque?" Camminò nella sua direzione. "Ti piacciono?"
"Sono davvero... orrendi, concordo. Senza stile," riuscì a pronunciare Dianna, mentre deglutiva il terrore che le comprimeva le pareti della gola.
Tristan si fermò, rapido, e lo schianto dei tacchi dei suoi anfibi riverberò tra le pareti. Appariva pensieroso, riflessivo. "Umh, sì, hai ragione." Poi, con una rinnovata audacia, allungò il braccio e stese il palmo della mano. "Allora sono certo che potrai darmi il coltello che hai in mano, così posso distruggere questi quadri, mettendo così fine all'errata concezione di arte che ha quest'istituto." Sogghignò, sardonico. "Vuoi?"
Dianna trasalì, ora più sgomentata e smarrita che mai.
Istintivamente, il coltello le cadde dalle mani.
Non ebbe ripensamenti: si voltò e iniziò a correre, in fuga.
Ma si chiese ben presto per quale ragione lo avesse fatto, se ora riusciva ad avvertire dei passi lesti correre alle sue spalle.

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