Capitolo 62

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La galoppata di Tristan e della sua cavalleria che procedeva correndo dietro di lui si fece più furente e sostenuta.
Egli guardava il nemico, lontano ma non irraggiungibile, con occhi taglienti come schegge di vetro grezzo, la mascella serrata e le labbra che di tanto in tanto scattavano in un movimento spasmodico. Il suo cavallo alzava funesto ed elegante gli zoccoli e li faceva ricadere sulla sabbia con altrettanta raffinatezza, riuscendo a combinare la finezza della cavalcata con il ritmo insostenibile, veloce, a perdita di respiro.
Ad ogni galoppata, la sabbia sollevata disegnava una scia immota nell'aria, che gravava con pesantezza, sino ad offuscare la vista di entrambi gli eserciti. Sotto l'elmo dorato di Tritone, scivolarono alcune ciocche bionde, mentre i guanciali lavorati battevano contro le gote di uomo producendo un rumore sordo. Dopodiché, Tristan alzò di poco la sarissa e si chinò sul suo destriero, reggendone le redini solamente con una mano.
Di tutti gli uomini al suo seguito, lui era il più veloce e scattante, e gli altri cavalieri dovettero spronare fino all'ultimo sangue i loro stalloni per raggiungere quel comandante che procedeva minaccioso e rapido come un'aquila che vola sopra un campo di battaglia per annunciare un amaro presagio.
Negli schieramenti dei battaglioni della falange, invece, correvano voci sorprese e perplesse. Ogni singolo soldato guardava il cimiero rosso di quell'elmo dorato che s'agitava al vento e bucava il lenzuolo pesante ed impenetrabile dell'aria. Alcuni guerrieri deglutirono, altri si guardarono tra loro, sino a che i vessilliferi non gridarono: "Falange!" E con immediatezza gli scudi si serrarono, le aste delle picche batterono contro di essi a far salire il fragore fino alle stelle, poi le lance vennero alzate al cielo.
E di colpo abbassate in linea diritta.
I soldati delle file posteriori, invece, le mantennero alzate in linea obliqua, pronti a calarle qualora la prima fila della falange fosse stata completamente falcidiata.
E poi, partirono a passo lento, cadenzato, preciso.
Poco dopo, partì anche la cavalleria del fianco sinistro, con gemiti e sussulti, con preghiere rivolte al cielo e urla di incoraggiamento. Quella del fianco destro, invece, capeggiata da Tristan, si distaccava di molti piedi per velocità e prontezza nei movimenti.
Come due saette, le cavallerie erano pronte a colpire i fianchi del nemico, fino a che Tristan non rallentò la galoppata, tirò le redini e spalancò gli occhi.
Un cavaliere lo raggiunse con il respiro corto e parlò con le labbra incrostate di sabbia: "Qualcosa non va, sire?"
Tristan mantenne lo sguardo attento di fronte a sé: "Se continueremo a proseguire in questa direzione, colpiremo il loro fianco sinistro, che già ci ha visto. Guarda quei soldati: hanno paura. Sanno che sarà la mia cavalleria ad attaccarli e -chiaro! Hanno ancor più paura. Tremano come foglie. Si stanno preparando," osservò.
"Dunque? Non va bene?"
"No, non va bene. Dobbiamo attaccare chi meno se lo aspetta." La voce di Tristan era rauca e greve.
"Quindi?"
"Quindi adesso vedrai." E Tritone si fermò completamente, il suo cavallo impennò e agitò gli zoccoli nel vuoto. Alzò un braccio, urlò, e tutti lo videro. Quando l'ipparco che guidava la cavalleria sinistra del suo esercito, che li stava a poco a poco raggiungendo, si voltò verso Tristan, quest'ultimo incrociò le mani a croce e il segnale arrivò chiaro: le due cavallerie si scambiarono velocemente e inaspettatamente di posto con un'ampia conversione, sorprendendo di non poco l'avversario.
Ora Tristan -che se avesse proseguito diritto avrebbe attaccato il fianco sinistro del rivale- si scagliò su quello destro, il quale era visibilmente impreparato all'attacco infervorato della cavalleria del figlio di Poseidone.
L'esercito titanico sembrò impallidire e i petti di quei guerrieri sconosciuti sobbalzarono sorpresi: i loro occhi andavano spalancandosi ad ogni secondo che trascorreva e che sanciva l'inizio della loro morte.
Tritone cercò Eryx con lo sguardo e lo vide distendere le braccia dinanzi a sé e lanciare il segnale: immediatamente, anche il suo esercito si mosse in avanti.
"Sire!" Un cavaliere alle spalle di Tristan tirò le redini del suo cavallo e arretrò di qualche passo. "I carri falcati!"
Tristan alzò lo sguardo e vide decine di carri nemici correre verso la cavalleria veloci come il vento, con falci che sporgevano da sotto il cassone e fuori dagli assi per falcidiare gli uomini come erbacce di una pianta oramai appassita. Si ricompose e gridò: "Perché arretri, uomo? Non vi ho forse insegnato come saltare gli ostacoli con i vostri cavalli?" E brandì la sua lancia. Quando un carro falcato gli giunse davanti, con un colpo di tallone al ventre del suo stallone, Tristan lo schivò superandolo con un grande salto che durò un lungo momento, nel quale, con la picca, trafisse il cuore del conducente del carro e tagliò il braccio del suo compagno all'altezza della spalla. Dopodiché, ricadde sulla sabbia.
La grande distesa sembrava racchiusa da una cupola di vetro infrangibile, che si sporcava, si appannava, ma non si rompeva. I suoni giungevano ovattati, chiusi, ostruiti, e ben presto l'aria si riempì di urla concitate, dei colpi di zoccoli inferti sul terreno, di parole malformate, di clangori di spade, e persino del sottile suono delle lance che giravano dentro i petti dei soldati a trovare quel punto più vulnerabile: il cuore.
Nelle menti di ogni guerriero giravano turbinii indistinti ed indecifrabili di pensieri distorti e confusi, che non avevano né inizio né fine. Volevano mettere in gioco se stessi, i loro corpi e la loro forza bellica e quel continuo scoccare di daghe l'una sull'altra era forse un modo per la prima ed unica volta per la salvezza della vita. I pensieri di quegli uomini correvano alle mogli, ai figli che avrebbero voluto riabbracciare o di cui avrebbero voluto rimembrare il ricordo quando tutto quel trambusto avrebbe lasciato posto ad una quiete che odorava ancora di sangue, una placa tranquillità dopo la bufera.
Tristan, invece, nel profondo del suo cuore, voleva negare la sua debolezza agli occhi del padre, voleva avvertire sulla pelle i muscoli infiammarsi, le braccia ingrossarsi e il sangue circolare rapido e vorticoso nel corpo, voleva assaggiare il sapore dell'adrenalina. Credeva fermamente che nulla sarebbe stato perduto se avesse osato: non avrebbe perduto se stesso e non avrebbe perduto lei. Continuava ad uccidere uomini, a conficcare la lancia dentro i loro petti, per poi recuperarla mentre rivoli di sangue fresco e ancora caldo schizzavano sul suo viso, a macchiargli le guance e gli zigomi. Incontrò un paio di uomini a cavallo che gli puntavano contro le loro aste, ma Tristan si piegò sulla schiena del suo cavallo, li oltrepassò e si voltò per colpirli alle spalle. Sottrasse una lancia ad uno dei due cavalieri e ora due picche ruotavano nel palmo bollente della sua mano, mentre ispezionava con lo sguardo freddo -che al contempo, però, bruciava- il tappeto di guerrieri a ricercare la sua prossima vittima.
Tritone non sentiva sul corpo alcuno sforzo: le sue azioni e i suoi movimenti giungevano istintivi e durante quei momenti riusciva dunque a garantirsi del tempo per pensare a Dianna. Sperò che Kassandros la stesse stringendo tra le braccia abolendo ogni sua ovvia apprensione. Si augurò anche che la sirena non intervenisse, perché qualora lui fosse stato destinato alla morte, avrebbe voluto che lei ricordasse il loro ultimo istante assieme come il momento nel quale sostavano dinanzi alla tenda in cui si erano uniti, carnalmente e spiritualmente. Tristan non avrebbe voluto che lei lo vedesse accasciarsi al suolo in una pozza di sangue e non avrebbe permesso che ciò avvenisse. Per questa ragione, si preparò ad affrontare altri due avversari: li vide galoppare verso di lui brandendo i loro giavellotti e scambiandosi tra loro parole astruse e mormorate. I volti erano scuri e sotto gli elmi sfuggivano ciocche nere e ruvide, arricciate in strani e complessi intrecci dietro le orecchie. Le ciglia intaccate da alcuni granuli di sabbia, invece, si chiudevano sopra grandi occhi neri che ricordavano l'Asia.
Tristan si fermò e attese che essi lo raggiungessero, forse per ristorarsi un istante o forse per lasciar credere ai due avversari di temere il loro attacco. Li invitò ad avanzare con uno strano sorriso enigmatico che gli errava sulle labbra e tirò un grande sospiro quando uno dei due cavalieri gli afferrò il braccio torcendolo oltre la spalla. Tristan mugolò di dolore, ma quando vide l'altro uomo a cavallo alzare il giavellotto e puntarne la lama verso il suo petto, con un brusco strattone si liberò dalla presa del nemico: lo colpì con una gomitata in pieno viso e lo lasciò cadere di sella. Pochi istanti dopo, trafisse l'altro con una delle due sarisse che reggeva alla mano e lo vide crollare da cavallo. Dopodiché, recuperò le redini dei due stalloni e chiamò due suoi soldati. "Voi! Ecco altri due cavalli." E quando i due uomini, leggermente claudicanti, si avvicinarono, disse loro guardando l'orizzonte: "Montate sopra le loro selle e raggiungete le ultime file del nemico. Lì i soldati sono ancora in forze, dobbiamo indebolirli prima che ci uccidano. Andate!"
I due enormi schieramenti battevano l'uno contro l'altro con indicibili sforzi, colpendosi di lancia e di spada, schivandosi l'un l'altro con gli scudi e i cavalli, azzuffandosi come bestie indomite e selvagge.
Tristan notò alcuni dei suoi uomini sanguinolenti cadere a terra senza vita: erano volti che aveva memorizzato, occhi che aveva incontrato, corpi che aveva imparato a conoscere nei punti deboli e di cui aveva valorizzato i punti di forza. Erano uomini che avevano combattuto fino all'ultimo respiro e Tritone si ritrovò a pensare alla brutale agonia della morte.
Tristan saltò oltre un altro carro falcato: ne decapitò il conducente, ma questi, prima di morire, riuscì a ferirlo alla coscia. Tritone urlò di dolore e vide il sangue sgorgare a grandi fiotti lungo il suo ginocchio, il polpaccio, il piede. Sentiva dentro la pelle la vena sfregiata tremare per rimarginarsi e la gamba balzare incontrollata in scatti che non riusciva a frenare. Dunque, in un veloce momento in cui non subì attacchi nemici, strappò la manica della sua sottoveste, la allungò in una striscia e la legò attorno alla ferita, stringendola con forza. Gemette di dolore e bruciore e la pelle che scendeva oltre la piaga assunse un colore violaceo. Tuttavia, Tristan proseguì e continuò a mietere uomini, a destreggiarsi tra gruppi di soldati che lo braccavano e lo accerchiavano, ma ciononostante riuscì sempre ad avere la meglio scampandone solamente dopo aver spezzato braccia, trafitto cuori e, in casi pietosi e allarmanti, tagliato teste.
Aveva quasi annientato la cavalleria nemica, quando si voltò per osservare il proprio esercito. Dopodiché si girò nuovamente e osservò la falange avversaria. Dal veloce paragone ne dedusse lo svantaggio numerico: gli uomini di Eryx sembravano raddoppiare, moltiplicarsi e crescere ad ogni istante che trascorreva, ma erano anche i primi a cadere nell'oblio della morte. Sebbene disponesse di un numero nettamente inferiore di guerrieri, Tristan riusciva a contare sulla loro forza bruta: ogni suo soldato sarebbe stato in grado di uccidere tre rivali con un'unica spada.
Tritone fu fermato solamente dal rizzarsi improvviso del suo cavallo che prese a scalpitare, agitando le lunghe zampe nere nell'aria che sapeva di salsedine. Al suo, seguirono altri cavalli che si impennarono furiosi: alcuni indietreggiarono, altri fuggirono lasciando cadere di sella i loro cavalieri.
In quei momenti trascorsi a brandire la sua spada, Tristan aveva dimenticato chi fosse -o meglio, chi fossero-i reali nemici da sconfiggere: i Titani.
E ora, che alzò lo sguardo, se li ritrovò davanti: mostri enormi, giganti simili tra loro dalla pelle verdognola e squamosa, con lunghe code che terminavano a falce con le quali si sferzavano i fianchi grossi e lardosi. Le braccia e le gambe non conoscevano flessioni, erano semplicemente tese e le loro lente oscillazioni rigide conferivano qualcosa di meccanico alla loro avanzata. Le unghie erano artigli gialli e arcuati, venati da striature rossastre che ricordavano il sangue, probabilmente quello degli uomini che andavano infilzando ad ogni passo, quasi fossero piccoli batteri innocui. Gli occhi dei Titani, di un'inconcepibile grandezza, non avevano colore: mutavano con la luce. Non era raro quindi vederli alternarsi dal rosso fiamma al nero mortale. I loro sguardi, che sprigionavano spietatezza con veloci occhiate, erano chiusi sotto palpebre sfregiate dalla consistenza gelatinosa e i loro capi calvi si agitavano con una spasmodica fretta di agire.
Tristan rimase fermo, pietrificato, sul suo cavallo. L'unico movimento impercettibile che compì fu deglutire.
I loro non erano passi, erano piuttosto fragori e colpi secchi inferti al suolo, pesanti, macilenti, bruschi. Oceano, Ceo, Crio, Iperione, Giapeto e Crono si schierarono dietro l'esercito di Eryx in tutta la loro possente mole, spalla contro spalla.
Dopodiché, all'unisono, si piegarono verso i restanti guerrieri gagliardi dell'esercito di Tristan che avevano avuto la magnanimità di correre loro incontro e spalancarono le fauci, ringhiando, tonando e soffiando, alitando vento sporco tra i denti allungati come cunei aguzzi.
Tutto parve fermarsi e Tristan credette che quella bolla protettiva, quella cupola invisibile che Ehona aveva plasmato potesse frantumarsi.
Quei passi duri tremarono nella loro eco ridondante e il tonfo lontano che crearono, che non poteva giungere alla città oltre il promontorio, finì per rimbalzare su quelle pareti prive di materia e alcuni soldati si accasciarono a terra e morirono per un simile tormento inudibile.
Tritone notò i Titani avanzare fragorosamente, calpestando uomini e macellandoli sotto le loro zampe di dragoni e solamente un gruppo di guerrieri ancora in sane forze tentò di raggiungerli, ghermendo la spada e infilzando l'estremità dei loro artigli. Un altro ammasso di uomini, invece, provò ad assalirli alle spalle e a falcidiare la loro coda pungente, ma furono spazzati dalla stessa quasi fossero spighe di frumento da mietere.
Infine, alcuni uomini arretrarono e fuggirono.
Tristan, che si riscosse solamente in quel momento, agitò la chioma bionda al vento, recuperò le redini del suo cavallo e impugnò la lancia. Prese a cavalcare dapprima lentamente, perché voleva che le sue parole giungessero chiare ai suoi uomini: "Perché arretrate quasi la vostra esistenza fosse già conclusa? Non sono forse loro, l'abominio divino? O volete diventare voi gli abomini con la vostra codardia? Se non siete vigliacchi, fatevi avanti, siate uomini!"
Un soldato, claudicante e quasi privo di un dito che pendeva dalla sua mano, tentò di issarsi sulla sella di un cavallo libero e spaurito prima che le sue forze scemassero e si perdessero nel sangue, e raggiunse Tristan galoppando. Era il suo amico Alkeos. "Tritone!" urlò. "Non è forse esagerato questo tuo desiderio di dimostrarti uomo? Non li vedi?" E con la mano oramai anormale e disintegrata indicò confusamente la visione spettrale dinanzi a sé. "Ci uccideranno!"
Tristan non controllò i suoi istinti o il suo raziocinio quando si voltò e mormorò all'amico tra i denti: "E allora?" E si fece largo tra un gruppo di rivali per raggiungere i Titani, quasi nel suo sangue scorresse la vita invincibile, un'estrema convinzione di non poter essere battuto. Nel trafiggere i nemici con semplici colpi di picca, sangue straniero schizzò sul suo volto, oscurando la sua carnagione bronzea e levigata, senza togliere ai suoi occhi, però, la loro brillantezza agghiacciante.
Intanto, Crono, che tra tutti era la creatura che sembrava circondata dall'alone più terrificante, guardò gli dei dell'Olimpo, in particolare i suoi figli, e parlò con voce struggente: "Mi siete mancati." E rise malefico.
Zeus allentò la presa della sua mano attorno alla folgore e deglutì. Poseidone, sul suo cavallo, per la prima volta, guardò quasi apprensivo il figlio che invece, unico tra tutti, stava galoppando verso i piedi dei giganti.
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Dianna aveva osservato tutta la scena, dal momento in cui Tristan aveva posato il piede sulla staffa del suo destriero al momento in cui aveva percepito un ovattato scricchiolio correre come una crepa sulla curva circonferenza di quella bolla che li proteggeva. Aveva visto Tristan appendere la sua vita immortale ad un filo sottile ma pungente e lo aveva anche intravisto -sebbene con qualche difficoltà- mentre metteva fine all'esistenza di altri soldati. Eppure, da quella distanza, le emozioni e le sensazioni che ogni singolo individuo viveva lì, su quel campo di battaglia, giungevano distorte e appannate, come se fossero parte di una recita, di un'opera o di un dramma che si sarebbe presto concluso con un lieto fine.
Ma il lieto fine non c'era e Dianna lo sapeva bene.
E le emozioni e la prorompente spinta dei sentimenti la travolse come un fiume in piena quando notò Tristan cavalcare verso quei giganti, quelle fiere più grandi di lui, più maestose, più brutali. Più forti.
Ma la sirena sapeva che quel giovane era tanto spavaldo quanto testardo, un giovane che peccava di braverìa, e sapeva anche che avrebbe preferito farsi schiacciare piuttosto che ammettere che c'era qualcuno, in quello sprazzo di universo, più forte di lui.
In pochi secondi -o in pochi attimi, nessuno seppe dirlo, il tempo si era fermato- Dianna drizzò il capo, allungando il collo come una sentinella e sbirciò tra gli spazi che intercorrevano tra un tronco e l'altro del grande bosco e il suo cuore perse più battiti in un solo misero istante. La sirena fu scossa da un brivido febbricitante e si agitò, scapitando, dibattendosi e divincolandosi dalla stretta di Kassandros alle sue spalle che, come lei, stava osservando la scena con un lontano occhio vigile e critico.
Ma Kassandros guardava la battaglia con lo sguardo di un uomo, con perizia, riflessione e con un'attenzione minuziosa ai dettagli.
Dianna, invece, stava affogando nel parossismo dei sentimenti. Dunque calò giù dalla sella e prima che Kassandros potesse accorgersi che le era sgusciata via dalle braccia, ella afferrò i lembi della propria veste e si avvicinò correndo al limitare del bosco, come se davvero la sua innocente e disarmata presenza potesse giovare.
Due soldati di ronda, che poggiavano le schiene contro un paio di alberi, si risvegliarono dal loro improvviso torpore e, lasciando dabbasso nei foderi le spade, corsero verso la sirena, la afferrarono per le braccia e la tirarono indietro con forza, quasi strappandole i ricami dell'abito.
Dianna urlò e si divincolò, piegandosi sulle ginocchia e provando a torcere le braccia, ma sentiva solamente la stretta dei due uomini armati premere sulle sue spalle.
Con uno sfogo d'ira, lanciò un urlo tanto impetuoso quanto isterico e fece per alzarsi sulle punte dei piedi a guardare verso il campo di battaglia. "Lasciatemi, devo andare da lui!"
Kassandros, che nel frattempo era sceso da cavallo, posò lo scudo sopra la sella e raggiunse Dianna. "I sentimenti non esistono in guerra, Dianna. Non andrai da nessuna parte."
La sirena aggrottò in un primo momento le sopracciglia, mantenne l'espressione per qualche tempo e poi distese lo sguardo in un'espressione di pura sorpresa mista a incredulità. Non si divincolò e voltò solamente il viso verso Kassandros. Lo scrutò dai sandali all'elmo imponente e disse con un filo sottile di voce: "Come puoi dirlo?"
L'ipparco sembrò ricredere per un istante alle sue parole e volle correggerle con uno sguardo più quieto e con movimenti meno rigidi. Mise dolcemente mano alla spada e mormorò: "Dianna, io..."
La sirena lo guardò intensamente. Molto intensamente. Eccessivamente intensamente. Non distolse lo sguardo da lui neppure quando una zaffata di vento la colpì in pieno volto seccandole gli occhi e sbattendole la sabbia sulle guance e, in qualche modo, anche Kassandros si sentì obbligato a restituirle quello sguardo fisso. Dopodiché, Dianna chinò il capo e si concentrò: iniziò a guardare Kassandros e poi i due soldati che la stringevano, i due soldati che la stringevano e poi di nuovo Kassandros. Non le venne complicato, non si sforzò: la sua volontà d'animo bastò a lasciar cadere i tre uomini a terra, in ginocchio, con le mani portate alle orecchie e alle tempie, sperando di attutire quell'amaro dolore e quelle lancinanti fitte acute che li stordivano. Cadde anche Kassandros, distendendo le labbra in una serrata smorfia di dolore e mostrando i denti che battevano rigidamente gli uni sugli altri e le gengive che andavano arrossandosi. Respirava a fatica, ansimando nervosamente e provando a recuperare il respiro ad ogni istante agonizzante che lo travolgeva, ma fu costretto a chinare il capo e a nasconderlo tra le pieghe della robusta corazza.
Dianna guardò a malincuore la scena dolorosa che lei stessa aveva creato, ma annuì impercettibilmente ai suoi desideri più reconditi. Poi, in silenzio, distolse l'attenzione dai tre uomini e cessò di esercitare una pressione sulle loro menti e sui loro corpi, e prima che essi potessero rimettersi in piedi, la sirena corse verso il cavallo di Kassandros, montò agilmente sopra la sua sella e sbatacchiò le redini sulla sua groppa, senza curarsi di rassettare i lembi della veste che ora, arricciati, le lasciavano scoperte le gambe bianche.
Dianna galoppò verso il campo di battaglia e sentì sbattere sul suo viso aria talvolta fredda, talvolta calda, talvolta frammista a granuli di sabbia e talvolta consunta, come se fosse una combinazione vaporosa di tutti gli ultimi respiri dei soldati brutalmente accasciati al suolo senza vita.
Mentre cavalcava, Dianna riuscì a sentire la voce lontana di Kassandros richiamarla duramente, quindi spronò più voracemente il destriero che montava, cavalcò sulle decine di corpi esanimi ricoperti di sabbia, quasi fosse stata data loro in dono un'anticipata degna -o non- sepoltura. Si intrufolò poi tra i fiotti di soldati sanguinanti, che combattevano strenuamente gridando e ruggendo, ma pochi si accorsero della sua presenza, sebbene fosse alquanto difficile non venire irretiti da una tale bellezza sfrecciante: Dianna cavalcava con la schiena diritta, talmente diritta che riusciva persino ad arcuarsi dolcemente, i capelli scivolarono dal loro intricato e complesso intreccio e provarono a ricadere sulle sue spalle, ma il vento che soffiava contrario sollevava ogni sua ciocca più lucente, e, negli occhi di quei soldati, viaggiava la convinzione di essere in grado di intravedere una scia rossastra che si allungava alla sua avanzata.
Era una femmina proibita, intoccabile ed improvvisamente azzardata e audace.
Le plissettature della veste che si gonfiavano celavano alle occhiate indiscrete il seno florido, ma il collo regale era esposto alla contemplazione di tutti.
Tuttavia, Dianna non sentiva adrenalina dentro di sé, non si stava ubriacando del rischio del pericolo: aveva piuttosto paura. E quando raggiunse Tristan -che aveva distinto molto bene per la cresta rossa dell'elmo e per la postura machista- si sentì svuotata dal terrore perché credeva che, forse con una strana sorta di magia che correva lungo gli invisibili fili che la legavano a lui, avesse preso sulle spalle anche il timore di Tritone. E Dianna era disposta a portare tutto quel peso, per lui.
La sirena tirò le redini e rallentò, dopodiché si parò davanti a Tristan mentre anche questi era in cavalcata e fu travolta da due sensazioni contrastanti: le brillarono gli occhi quando si accorse di riconoscere anche in quella bufera di morte i lineamenti meravigliosi del suo volto, ma represse un mugolio di ribrezzo quando vide una ferita slabbrata e quasi in suppurazione sul suo braccio, aggiunta alla vista di un panno impregnato di sangue stretto attorno alla sua coscia.
Ma era vivo e fu questo pensiero che le mantenne in forze il cuore.
Tristan frenò la galoppata, chiaramente sorpreso, e abbassò la lancia: sbarrò gli occhi e arretrò di qualche passo, aggrottando le sopracciglia. "Che cosa ci fai qui? Ti avevo detto di restarne fuori, di non immischiarti e avevo raccomandato a Kassandros di..."
"Non mi importa nulla di cosa dici."
Tristan inclinò con una stuzzicata e piccante ironia il capo verso la spalla. "Ah, no?"
"No." Dianna si guardò brevemente attorno e vide solamente un gruppo di fanti immobilizzato davanti alla possanza dei mostri titanici.
Tristan recuperò le redini del suo cavallo e si avvicinò a Dianna. "Vai via." I suoi occhi ardevano. "Sei in pericolo qui."
"Hai consumato mesi del tuo tempo a ricercarmi per rapirmi perché sono l'unica a evitarvi il pericolo di morte e ora devo andare via?"
"Vai via, ti ho detto." Tritone compitò le parole.
"No."
"Dianna..."
"No, Tristan, non mi muovo."
"Vai via!" La pazienza di Tritone si stava logorando.
"No!" urlò Dianna chinandosi verso di lui.
"Perché?" chiese lui esausto.
"Perché ti amo. E ho perso molte persone importanti nella mia vita, non voglio perdere anche te."
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Ta dan! In questo capitolo assistiamo ad una buona parte della guerra (brutale, lo so) e a come Tristan ordina ai suoi uomini di agire, seguendo una tattica ben precisa. Chiaramente si è ferito, andiamo a curarloooo ahahahah.
Dianna è oramai indissolubilmente legata a lui, ha deciso di prendere sulle spalle i suoi timori. Ora è lei a volerlo salvare. E finalmente gli ha detto "ti amo"! Da quanto aspettavate questo momento?! Come credete reagirà Tristan?
Fatemi sapere cosa ne pensate della descrizione della guerra, come credete si concluderà e se credete morirà qualcuno. (Eheheh, chissà).
Mi auguro che la storia vi piaccia ancora, perché a volte sono assalita da alcuni dubbi a riguardo.
Se il capitolo vi è piaciuto, votate e commentate! Grazie mille!

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