Periferia di Mosca, 1756
La fine della rappresentazione della tragedia di Romeo e Giulietta aveva animato il piccolo teatro di un vociferare sommesso e di una mischia di corpi ronzanti ammassati in ampi gruppi di conversazione.
Tristan, invece, si stagliava solitario nel cuore della sala con le mani congiunte solennemente dietro la schiena, i capelli dorati raccolti compostamente in un domino e lo sguardo fermo e rigido che si perdeva nel vuoto.
Di tanto in tanto, la sua figura riceveva occhiate curiose e commenti silenziosi particolarmente intrisi di un'acida invidia, data l'eleganza del suo portamento e la ricchezza dei suoi abiti: la marsina di seta bianca era rifinita da ornamenti in fantasiose bizarre nere che si snodavano lungo le maniche fino a congiungersi in orpelli in trina argentata; i calzoni scuri si arricciavano in dentelle poco sotto le ginocchia, unendosi al tessuto di un paio di calze bianche che si stringevano attorno ai polpacci ben torniti.
Tritone carezzò il suo jabot di pizzo attorno al collo, calcò galantemente il tricorno nero sul capo e si trascinò nel tafferuglio della sala, ancheggiando i fianchi con raffinata classe e camminando a passo lento e cadenzato nei mocassini bruni decorati in fibbie dorate.
Al suo passare, numerose teste civettuole si voltarono nella sua direzione, lasciando scorrere lo sguardo sulla sua sagoma e sbattendo più volte le ciglia per focalizzare la sua immagine: era infatti impossibile evitare di rivolgere altrove l'attenzione, quando catturati e ammaliati dal lieve scalpiccio dei suoi tacchi a rocchetto sul pavimento lustrato.
Tristan si limitò a rispondere agli sguardi a lui rivolti con un cordiale ma mistico cenno del capo, seguito da un sorriso flebilmente accennato. Dopodiché, alzò il mento e il suo sguardo sembrò perdersi nei disegni arabescati sulla volta del teatro, piegando talvolta il capo per scrutarli con maggiore attenzione e avidità nell'assorbire ogni minuzioso dettaglio.
"Oh, caro signor conte! Che immenso piacere rivedervi!"
Tritone si voltò, girando istintivamente sui tacchi, gli occhi ora rapidi sull'attenti.
La figura di un uomo tozzo e schiacciato in un gilet bianco richiamò la sua attenzione: egli gesticolava animatamente ed ogni suo passo nella sua direzione pareva un salto euforico e puerile.
Tristan rimase in silenzio.
Il duca di Rozhkov era un uomo tarchiato e consapevole della sua goffaggine, e che non tardava quindi a tentare di vestire una compostezza a lui però non confacente. Infatti, ogni qualvolta drizzava il busto e si impegnava ad assumere un atteggiamento impettito, finiva per grugnire e per lamentare forti dolori di schiena dovuti -a suo parere- "alla miscela di vecchia età e lavoro". Di tanto in tanto, rassettava la parrucca bronzea sui suoi capelli e s'assicurava che il domino che stringeva il codino non scivolasse dalla pettinatura, altrimenti sarebbe stato costretto a sfoggiare i capelli canuti e brizzolati dell'età, di cui non nutriva un particolare vanto.
Tristan aveva sempre denigrato quegl'atteggiamenti scialbi e viscidi, davvero mal adattati su un uomo dal titolo di duca, ma -negli anni passati- era stato abile a sfruttare e ad approfittare della sua amicizia per fare un fastoso ingresso nella società russa, che rispettava e ammirava con rinnovato zelo.
L'uomo giunse al cospetto del giovane con un ansimare spossato e frenetico. Portò infatti una mano sul petto gonfio e l'altra sui lunghi baffi ricurvi, colpendo di tanto in tanto le labbra con le dita per intimare loro di frenare il tremolio che lo faceva boccheggiare in cerca d'aria. Poi urlò: "Dubitavo sareste stato assente ad un'occasione come questa e sono ancor più lieto di venire a scoprire che le mie supposizioni non sono state fasulle."
Tristan si prodigò in un conciso e distaccato cenno del capo. "Duca Rozhkov."
"Vi trovo in splendida forma. A cosa si deve il vostro ritorno in Russia?"
"A una dolce mancanza di questa terra." Tristan sfoggiò un sorriso affettato e strinse gli occhi in una stretta fessura.
Il duca increspò la fronte sorpreso, e si sporse verso il giovane, portando una mano all'orecchio. "Come?" urlò. "Non ho sentito bene! A una dolce mancanza di questa serra? Avete una serra? Dove? Oh, davvero?"
Tristan scosse il capo e scandì le parole. "Ho detto che questa terra mi mancava!"
"Oh, sì, sì, capisco. Vi mancava la guerra!" Il duca Rozhkov annuì silenziosamente, con convinzione. Poi allungò una mano e la posò sul braccio di Tristan. "Ma, di grazia, lasciate che vi presenti a mia moglie e ad alcuni dei miei più cari amici che sono soliti allietare spesso le mie giornate. Vi prego, seguitemi." E indicò con euforia un gruppo in lontananza.
"Vi lascio per due anni e vi ritrovo maritato."
Il duca rise con voce baritonale e arricciò le labbra grinzose. "E' forse questo un tacito pentimento per essere mancato alla cerimonia del mio matrimonio?"
"Mi arrendo. Mi avete smascherato," pronunciò Tristan, la voce tuttavia segnata da un'impercettibile ironia maligna.
"Mia moglie è una donna dai sani principi e di buona famiglia. Suo padre possiede una tenuta a Nižnij Novgorod e il fratello è proprietario di ben otto cottage ad Aleksandrov," spiegò il duca camminando e rivolgendo sorrisi educati ai presenti.
"Una dote ingente."
"Dite bene, conte Waves. Mia moglie è una fortunata ereditiera." Il duca Rozhkov lo guardò e si avvicino al suo orecchio. "E vi confesso che è anche un'ereditiera molto giovane."
La voce di Tristan impennò di un'ottava, beffarda. "Oh, sul serio?"
Il duca annuì, l'espressione fiera e le guance gonfie, poi si fece largo tra un gruppo di uomini e indicò con un -forse troppo spavaldo- gesto della mano una donna con una bianca e principesca parrucca bianca che scivolava in riccioli belli sul collo regale. La sua vistosa bellezza era circondata da un gregge di gentiluomini eloquenti dagli sguardi visibilmente sedotti. "Vedete? Non mi preoccupa lasciarla sola tra duchi, conti e marchesi, in quanto sono un avido ammiratore della sua spiccata eloquenza che sa tener in piedi ogni conversazione. Ma orsù, lasciate che ve la presenti." Il duca allacciò il braccio grasso attorno all'esile vita della moglie, il cui sguardo era velato da un ampio cappello in piume zaffiro. "Mia cara, vi presento il conte Tristan Waves, un mio amico inglese di vecchia data. Uno dei più fidati posso ancora vantare di avere."
Tristan inarcò le sopracciglia sulla fronte giovane e rise silenziosamente alle parole del duca. "Sono onorato che voi mi consideriate un amico fidato. Sapete, nessuno mi vede in questo modo..." La voce sembrava nascondere un pensiero inespresso. Dopodiché, prese delicatamente la mano della donna nella sua e la portò alle labbra, baciandola. "Duchessa Rozhkov, vostro marito mi ha fatto conoscente delle vostre virtù e dei vostri pregi, ma non mi aveva accennato ad una bellezza tanto struggente."
La duchessa rispose al baciamano con un breve cenno del capo, stringendo tra le dita affusolate un piccolo ventaglio che batteva ritmicamente sul palmo della mano, per poi alzare il mento e deglutire: era visibilmente attratta dal viso del giovane dinanzi a sé, e non meno rapita dalle sue parole forse fin troppo cordiali che la fecero arrossire. Sventagliò più volte le ciglia sopra gli zigomi incipriati e recuperò il senno. "E cosa vi ha portato a lasciare l'Inghilterra per giungere qui a Mosca?"
Il duca rise scioccamente. "Vedete? E' così curiosa!"
"Affari. Questioni di affari legati alle proprietà della mia famiglia."
"Oh, capisco bene." La duchessa annuì e portò la mano sullo stretto corsetto color cobalto, lasciando scivolare le dita sino all'ampia gonna, in un evidente gesto sensuale. "Dev'essere qualcosa di importante! Insomma, proprietà estese sino in Russia! I miei più sinceri auguri, conte. Sono certa saprete sfruttare al meglio un tale patrimonio."
"I vostri auguri mi lusingano, duchessa." Le labbra di Tristan si mossero lentamente e lui vide la donna osservarle con occhio catturato e cuore in fiamme.
La duchessa recuperò il respiro. "Quanti anni avete?"
"Diciannove."
"Forse troppo giovane per badare ad una tale eredità, non trovate?"
"Sono costretto a contraddirvi." Tristan portò le mani dietro la schiena e parlò con tono possente. "Esistono giovani capaci di sostenere regni -basti pensare a Luigi XV di Francia- e uomini adulti totalmente inadatti ad una vita di lavoro, forse per scarso ingegno o forse per stupidità. Chi può dirlo?" E i suoi occhi si mossero velocemente verso il duca Rozhkov.
La donna sembrò trasalire alle sue parole e schiuse più volte le labbra, in procinto di replicare, ma rispose con voce tremante, balbettando solamente: "Oh... sì... credo... credo sia più che vera la vostra... riflessione."
Il duca -altrimenti prima crogiolato nei suoi pensieri- sembrò destarsi e agitò il capo, spostando lo sguardo da Tristan alla moglie, dalla moglie a Tristan. Poi si schiarì la voce. "Ma ditemi, conte, vi è piaciuto il dramma?" Ammiccò al piccolo palco alle loro spalle.
"Ho l'obbligo di ammettere di non aver mai assistito ad una tragedia tanto ben costruita e recitata. Anzi..." il tono si fece caldo e pensieroso, "sento proprio di dover rinnovare i miei complimenti all'attrice che ha interpretato Giulietta. Che voce! Che presenza di spirito sul palco! Davvero invidiabile, proprio come la sua bellezza."
La duchessa sorrise dietro il grande ventaglio e si sporse verso il marito. "Mio caro, credo che il vostro amico stia cercando di dirvi qualcosa."
Il duca arricciò il naso sgraziato e urlò infastidito. "Come? Non vi sento! Il mio amico vuole regalarmi una rosa?"
La duchessa sospirò, la pazienza che sembrò venir meno. "Ho detto, caro, che il vostro amico sembra stia cercando di dirvi qualcosa. Vuole forse conoscere la Giulietta della serata?"
Tristan inclinò il capo, sorpreso. "Oltre a vestire una bellezza affascinante, siete molto perspicace, duchessa..."
"Oh, oh, oh." La voce gutturale del duca risuonò nella sala e le sopracciglia folte si inarcarono. "Certo, certo! Venite, conte, di grazia. Seguitemi, seguitemi." Si accostò a Tristan e posò una mano sulla sua schiena, spingendolo lievemente in avanti. "Vi permetterò di conoscere Agatha Doronin."
"E' quello il suo nome? Non sembra essere di una famiglia nobile."
"Infatti non lo è," spiegò il duca. "E' una povera fanciulla costretta a recitare per portare qualche moneta a suo padre, un modesto borghese che vive sfruttando il talento artistico della figlia."
"Davvero deplorevole."
"Sì, sì, sì, decisamente. Davvero deplorevole," confermò il duca alzando la voce baritonale. Poi tacque per qualche istante, camminando tra la folla e barcollando di tanto in tanto sui tacchi. Sembrò formulare qualche pensiero, poi disse: "Siete in cerca di moglie, conte?"
"Oh, no, assolutamente. Ho deciso da tempo di sposarmi con la libertà. La mia è solo pura curiosità."
"Come? Vi sposerete con la pubertà?"
Tristan serrò la mascella, sospirando con nervosismo. "No, duca, con la libertà. La libertà."
"Come siete profondo! La libertà, sì, sì, la libertà! La vostra filosofia sembra francese. Ma è giusto soddisfare questi piccoli desideri. Ecco, ecco." Il duca allungò il braccio grasso e puntò il dito verso una piccola stanza socchiusa ai piedi del palco, nascosta da un paio di tende vermiglio. "Vedete quella porta? Ecco, è il camerino della ragazza, Agatha. La troverete lì. Ma badate, badate a non farvi vedere! Alla fila potrebbero aggiungersi altri Romeo..."
Tristan sorrise e voltò il capo verso il duca. Lo fissò per un istante, annuendo. Poi annuì ancora, ma l'uomo sembrava non afferrare la sua silenziosa richiesta, quindi fu costretto a dire: "Vi ringrazio. Potete andare."
Il duca si svegliò. "Oh, oh, sì, sì, vado." Arretrò di qualche passo. "Vi prego di informarmi su tutto, più tardi, ve ne prego!"
Tristan alzò una mano e gesticolò distrattamente. "Sì, sì." La voce seccata.
Dopodiché, assicurandosi con brevi occhiate fuggenti che l'attenzione prima a lui rivolta si fosse dissipata, camminò con compostezza verso la stanza; si sistemò al collo lo jabot di pizzo bianco e allungò una mano per bussare alla porta.
In risposta, una dolce voce femminile e quasi infantile chiese chi fosse all'uscio.
"Uno dei vostri più sinceri ammiratori, lady" rispose Tristan dal tono lusinghiero, con un febbrile accento inglese che marcava ogni sillaba.
Ne seguirono passi lenti provenienti dalla stanza.
Una delicata e gracile figura femminile schiuse la porta e vi fece capolino con occhio spaventato.
Agatha Doronin era una di quelle bellezze probabilmente molto allettanti, ma altrettanto conosciute: Tristan aveva infatti già incontrato, nelle sue precedenti esperienze, visi così dolci e pallidi, caratterizzati da lineamenti morbidi e fanciulleschi e da guance imbellettate di un alone porpora.
Non era nulla di sorprendente.
Era bella e accattivante nella sua apparente illibatezza che destava lo spirito cacciatore di ogni uomo, senza dubbio, ma Tristan era amante di bellezze più feline.
Tuttavia Tristan sorrise e abbassò il tricorno sul capo, galante.
La porta gli venne spalancata e lui, con passo ondeggiante e carismatico, socchiuse gli occhi e prese a scrutare con sguardo vigile la stanzetta, entrando.
Era un camerino poco adorno. Le pareti erano spoglie e l'intonaco bianco scheggiato dallo scorrere sinuoso del tempo. Solamente una toletta rafferma e uno specchio ovale accatastato contro una parete rilucevano nello stanzino, picchiati dalla luce di un flebile luna che salutava con il suo bagliore sbieco dietro una piccola finestra. Dall'altra sponda del camerino, invece, su uno sgabello schiantato riposavano un mantello di mussola bianca e qualche spugna incipriata.
"E così un'attrice talentuosa e di gran lunga molto più elegante di sfarzose esponenti dello spettacolo inglese si rifugia in questa logora stanzetta dopo aver recitato una tragedia di Shakespeare? Buon Dio, vorrei non credervi." Tristan girò velocemente sui tacchi e inchiodò la giovane con lo sguardo gelido.
"Sì, signore, dite bene." Agatha intrecciò le mani in grembo e chinò il capo, stringendo imbarazzata le labbra. "Ma no, non sono affatto talentuosa, mio signore."
Tristan le si fece vicino. "Oh, no, siete in errore. Il vostro è molto più che talento. Un..." Gesticolò raffinatamente, disegnando fittizi cerchi nell'aria con le mani inguantate. "Un dono di natura, lo definirei."
La giovane arrossì. "Io vi... ringrazio..."
Tristan le si fece ancora più vicino.
Ogni passo era una goccia che cadeva in un calice colmo di ansietà.
Si chinò verso di lei e posò un indice sotto il suo mento, provando a scrutare il suo volto. "Mi rendereste molto lieto se mi guardaste negl'occhi, ma -cielo!- arrossite. Ruggente sul palco e gazzella dietro le quinte." Sospirò melodrammatico. "Tuttavia devo ammettere che il rossore sulle vostre guance vi dona, Agatha."
Il petto della giovane sobbalzò meravigliato. "Conoscete il mio nom..."
"Sì, sì. Lo conosco. Ma -oh!- che maleducato! Non mi sono ancora presentato." Le prese la mano e se la portò alle labbra, lo sguardo tuttavia ancora incastonato negli occhi della ragazza. "Conte Tristan Waves, direttamente da Londra per servirvi."
"Servire... me...?"
"E perché no? È indice di galanteria. Ma... ditemi... vivete..." Tritone analizzò le pareti del tugurio con lo sguardo e indicò con presappochismo e con qualche gesto confuso delle mani la stanza. "Vivete qui?"
Agatha sembrò destarsi ed intrecciò le dita in grembo, agitando il capo con enfasi febbrile. "Oh, no, no. Abito con il mio buon padre poco lontano da qui, in fondo al viale che conduce ad un ottimo scorcio dal quale si può ammirare Mosca."
"E dovete ritornare?"
"Mio padre mi attende. Tra poco dovrei essere a casa. Sapete, è un uomo molto buono e... e apprensivo." Agatha fissò le proprie mani intrecciate. "Morirebbe di angoscia se ritardassi. Quindi, ora..." La fanciulla afferrò il mantello sullo sgabello con agitazione e se lo avvolse attorno alle spalle, per poi chinare il capo e annuire con deferenza, "con il vostro permesso..." E fece per andare.
"Aspettate." Tristan posò una mano sul suo braccio magro e le impedì ogni movimento -forse per la stretta delle sue dita, forse per la sua presenza indubbiamente imponente. "Lasciate che vi accompagni io."
Agatha alzò lo sguardo indifeso sul volto di Tristan e sembrò riversare nei propri occhi un profondo timore nel replicare. "Oh, no, ve ne prego! Mio padre non lo accetterebbe. Non sono mai stata accompagnata da un uomo, oh, sarebbe impensabile! Una poveretta in giro per le strade della periferia di Mosca... di notte... con un uomo! Chissà cosa si penserebbe di me! Una poco di buono! Io..." La voce le morì in gola. Deglutì. "Io sono una brava giovane di buona famiglia e la mia dignità e... e..."
"Perché dite così?" Il tono di Tristan si fece incalzante, mentre la mano che stringeva attorno al braccio della fanciulla affievolì la presa in una suadente carezza. "Forse qualcosa vi lascia supporre io sia invece un giovane maligno?"
Vi fu un attimo di silenzio.
La giovane sembrò soppesare per un istante le sue parole, come se d'un tratto trovasse irrealizzabile ogni tentativo di sgusciare via da quella presenza che, per qualche impensabile ragione, le stava facendo cavalcare il cuore. "Ma... il cocchiere mi aspetta qui fuori con il calessino. Vi prego, -oh!- lasciate che io vada!" Lei crollò a terra e gli afferrò le ginocchia, implorandolo. "Vi prego! Vi prego! Che il Cielo vi possa far comprendere il mio cuore! Non posso, io, davvero, non posso!"
Tristan la guardò dalla sua posizione dirigente che gli conferiva un titolo ancor più nobile di quanto il suo meraviglioso viso già non facesse. La sua voce di dio tuonò. "Alzatevi, vi dico. Dirò io al cocchiere che, solamente per questa sera, sarà sollevato dal suo impiego." E spiegò il braccio.
Agatha afferrò la mano del giovane e vi si aggrappò con affanno, alzandosi e nascondendo a lui il volto arrossato. Sospirò, consapevole oramai di aver perso la battaglia contro quell'uomo che la vestiva di un profondo spirito di inadeguatezza.
Tristan sorrise con soddisfazione: le sue labbra copiose si stesero sul volto accattivante in un ghigno malizioso. Le porse il braccio. "Se me lo concedete..."
Quando Agatha annuì e fu costretta a posarvi la sua fragile mano, Tristan sentì di aver vinto.
Ancora.
Per l'ennesima volta.
Provò a numerare questa sua ultima preda.
La centesima, forse?
O la millesima?
Le due figure uscirono dallo stanzino e si snodarono tra la folla. Agatha non tardava a sciorinare il rossore di onta sulle guance che tanto d'addiceva alla cipria vermiglio calcata sui suoi giovani zigomi e, d'altra parte, Tristan non tardava invece a sfoggiare l'immensità della sua presenza.
Tritone salutò con brevi cenni del capo e sorrisi appena ammiccati chiunque rivolgeva a lui il proprio sguardo, come se intendesse penalizzare coloro che osavano porre la propria attenzione e ammirazione su una bellezza tanto proibita.
Nascosto dietro l'imponenza della parrucca della moglie, il duca di Rozhkov fingeva animatamente di seguire l'ennesima conversazione aristocratica alimentata da risa e discussioni con assensi dettati da chissà quale pensiero distratto. Non appena notò Tristan proseguire al braccio di Agatha Doronin, si affannò a ricercare il suo sguardo con una smania tanto febbrile che portò Tristan a domandarsi per quale ragione il dio degli umani non avesse acquietato quella goffaggine nauseabonda. Il duca si affrettò a farsi largo tra la folla per raggiungere Tristan che, però, con un beffardo sorriso dipinto in volto, abbassò il tricorno sulla fronte in segno di congedo e sgusciò via.
Quel lembo notturno della periferia di Mosca era avvolto dal soffio più pungente di dicembre. All'orizzonte si poteva scorgere una scia di nubi plumbee che serpeggiava nel firmamento scuro e, d'altra parte, si poteva invece avvertire sulla pelle -nitida come il bacio del fuoco- la scia fredda del vento, che raschiava prepotentemente il silenzio.
Di tanto in tanto, qualche calessino procedeva lento sulla strada sterrata, al comando di cocchieri sonnolenti e taciturni e di coppie di giumente panciute e straziate dal gelo.
Tristan vide Agatha rincantucciarsi nel mantello e alzare un lembo di questo per coprire il volto. La giovane parlò con flebile voce: "Vi prego di lasciarmi camminare accostata al muro, non dalla parte della strada, vi prego."
"Perché?"
"Non voglio mostrarmi."
Tristan acconsentì e si spostò dal lato della strada, continuando a camminare. "Non sembrate possedente di una grande autostima, a quanto pare."
"È così, infatti."
"Parlatemi di voi." La voce roboante di Tristan si disperse in fumi di vapore nell'aria.
"Cosa dovrei dirvi su di me, signore?"
"Tutto."
"Tutto?" Agatha sembrò trasalire e, quando alle sue parole seguì un cenno di assenso di Tristan, schiuse le labbra tremanti per parlare. "Mia madre morì quando ero molto... molto piccola e mio padre è stato costretto a crescere in solitudine me e mio fratello, coltivando solamente la mansione di un modesto artigiano di bottega."
"E chi è vostro fratello?"
Agatha accennò un fioco sorriso coperto però dall'oscurità. "Oh, mio fratello... mio fratello è riuscito a riscattarsi da una povertà che sembrava attanagliarci arruolandosi nell'esercito. La battaglia è sempre stata la sua grande passione. È un abile spadaccino, sapete?"
Tristan soffocò una risata di scherno. La battaglia! La battaglia degli umani! Sciocca, inconsistente, una battaglia che non dona alcun piacere. Una battaglia scialba la cui vittoria non segna il destino degli eroi. Lui, invece, aveva un'altra idea di battaglia. Le sue erano guerre sudate, sputate sino all'ultimo sangue, urlate, avvertite sulla pelle, battaglie combattute per la salvaguardia del mondo. Guerre innalzate da uomini responsabili.
Terminate le sue riflessioni silenziose, Tristan roteò lo sguardo sulla ragazza. Ora, sembrava immersa in un dubbio atroce. Probabilmente si stava domandando per quale ragione il flusso delle sue parole sembrava essere incontrollato e, ancora, per quale maledetta ragione non poteva evitare di rispondere alle domande insistenti ma persuasive di quell'uomo così indefinibile.
"E molto spesso la gente pensa che io sia solo una povera sfruttata di mio padre per portare a casa qualche tozzo di pane. Ma non è così,-oh!- se solo la gente sapesse quanto il mio buon padre ha faticato per crescere me e mio fratello! Spesso la gente parla a sproposito!" La voce di Agatha fendette l'aria come l'arco affilato di un violino.
"Concordo."
"E di voi? Che mi dite di voi?"
"Un gentiluomo che si rispetti si lascia scoprire. " Tritone sfoderò un ghigno malizioso e svoltò in un viottolo desolato.
Agatha sospirò rumorosamente, fissando le sue scarpette scucite. Poi, quando ebbe il coraggio di alzare debolmente lo sguardo, aggrottò la fronte. "Dove..." Si guardò attorno, perplessa, "dove stiamo andando? Casa mia è... è lì dietro, nel viale che abbiamo lasciato poco fa..."
"Oh, vorrei solo farvi ammirare la perfetta vista di Mosca dallo scorcio di cui parlavate." Tristan lanciò un'occhiata alle sue spalle. Il viottolo era buio. E fortunatamente deserto. Sorrise, soddisfatto. "Ci metteremo solo un attimo. Solo un attimo, mia cara... " E abbrancò il suo braccio.
Negli occhi della fanciulla lesse la più ingenua paura, quando lui le si fece pericolosamente vicino.
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Tritone si svegliò di soprassalto.
Il suo respiro fluiva agitato nella stanza, sincronizzato al tumulto del suo cuore.
Portò le mani alla fronte, terrorizzato.
Infilò le dita tra i capelli scarmigliati e strinse le labbra, digrignando i denti.
Quel sogno! Quel maledetto sogno!
Il passato continuava a tormentarlo, ora,-proprio ora!- che era più vulnerabile.
Com'era possibile? si chiese. Com'era possibile che un guerriero tanto valoroso e sfrontato come lui ora si sentisse tremendamente indifeso, disperso come una foglia che si lascia trasportare da un vento maligno perché non ha la forza di ingranare la propria marcia per proseguire il cammino da sola?
Il cadenzato e ritmico camminare della lancetta nella sveglia destò i suoi nervi. Allungò una mano e la schiaffò sul pavimento, mettendola a tacere.
Poi sospirò.
E si alzò.
Il suo petto magnifico, scoperto dalla camicia ancora sbottonata, venne avvolto dall'abbraccio del buio, e le sue gambe erculee procedettero celeri verso la vecchia scrivania.
Con un movimento esperto, stese il braccio e afferrò la bottiglia di ambrosia, ne fece saltare il tappo con un rapido movimento delle dita e la portò alle labbra.
Quando quel liquido ristoratore scivolò nelle pareti della sua gola, gli parve che il suo corpo rispondesse con stimoli positivi: la sua pelle pareva ringiovanirsi.
Ma non la sua mente.
Si appoggiò alla scrivania e fissò il vuoto.
Un lieve russare seguito da respiri molli e zoppicanti lasciò intendere Byron e Kristiàn fossero tornati.
Tristan si chiese per quanto tempo avesse dormito.
Rifletté.
Agatha Doronin era stata una fanciulla tanto graziosa e illibata quanto ingenua. Non aveva lottato per sottrarsi alle sue grinfie, vi aveva ceduto. E Tristan non amava le sfide semplici, no.
Il reale piacere di una conquista è tanto più delizioso quanto più questa è ardua da conseguire, pensò.
Dianna gli dava invece del filo da torcere.
E lui si sentiva così ubriaco di lei!
Voleva davvero fare di Dianna ciò che aveva fatto di Agatha?
Voleva davvero continuare a riversare il suo lato più balordo su quell' incantevole sirena?
Ed ebbe già la risposta.
No, non voleva farlo.
Non più.
Perché era certo che se avesse notato ancora delle lacrime scorrere sulle sue guance, sarebbe morto assieme alla sua immortalità.
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Ho deciso di scrivere un capitolo diverso dagli altri. Mi sembrava giusto inserire un flashback, inoltre nel Settecento *----*
Il duca Rozhkov mi fa morire dal ridere ahahahah!
Che ne pensate di questo Tritone settecentesco? E, secondo voi, cosa può suscitare in lui il ricordo di Agatha? Influirà sulla sua opinione e sui suoi sentimenti per Dianna?
Vedremo...!
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L'inevitabile attrazione
FantasyUna tremenda battaglia infuria nelle profondità del mare, dove le acque giacciono meditabonde. Dianna Cox, giovane sirena dalla bellezza fiammante, è costretta a rifugiarsi in un istituto della Virginia, quando Poseidone dichiara guerra alle vecchie...