Capitolo 14

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"Mi dispiace, Dianna, ma oggi non credo di avere il tempo necessario per poter rapinare le cucine e portare i vassoi in camera. La lezione di Mr. Cunningham si è conclusa piuttosto tardi, quindi temo dovrai accontentarti di quella sbobba nella mensa." Jana affrettò il passo, trascinando con sé la bandoliera colma di libri e appunti sgualciti, che non tardò a lanciare svogliatamente su una sedia del refettorio quando ne ebbe l'opportunità.
La mensa non era altro che una modesta aula circolare cosparsa di sedie sghembe che, quando scostate e raschiate bruscamente sul pavimento, sembravano urlare angosciosamente con voce stridula. Solamente un paio di finestre lasciavano filtrare una debole luce, che, però, non bastava a ricoprire gli aloni d'ombra scura che incedevano nella stanza, tantoché Dianna vide alcuni studenti chinarsi sui propri vassoi con occhio concentrato per accertarsi che stessero inforchettando la poltiglia nei propri piatti e non la tavola.
Di tanto in tanto, qualche studente camminava nella mensa reggendo un bicchiere d'acqua in mano e la continua precarietà di equilibrio lasciava scivolare sul pavimento qualche goccia d'acqua, che andava poi ad impiantare una pista di pattinaggio sulla quale qualche povero e sbaragliato studente si divertiva a scivolare.
Se non altro, gli studenti si impegnavano a consumare il loro pasto in un assoluto silenzio, poiché Mandy era sempre pronta ad affacciarsi nella sala con una lunga bacchetta che rigirava tra le dita e lo sguardo raccomandativo.
"E... quel bancone laggiù?" Dianna indicò una larga tavola malconcia poco lontano.
Jana scostò la sedia e vi si appollaiò sopra, intrecciando velocemente i gomiti sulla tavola apparecchiata e facendo così volare una forchetta dall'altra parte della sala. Quando gattonò sul pavimento per recuperarla, disse: "Oh, quello? Un tempo era un self-service."
Dianna incurvò perplessa le sopracciglia. "Un...?"
"Un self-service." Jana sbatacchiò un ginocchio contro una gamba del tavolo e mugolò, per poi rialzarsi a sedere con aria spossata. "Insomma, prendevi un vassoio e andavi là. Sceglievi ciò che desideravi mangiare tra la vastissima gamma di piatti -se insalata di cavolo, purè di patate e purè di patate ed insalata di cavolo possono considerarsi una fornita gamma di scelta- e ti servivi autonomamente. Poi, un giorno, uno studente ha sputato dentro il pentolone che conteneva il purè di patate e Mandy ha così deciso di dare lavoro ad alcune cameriere perché possano servirci," spiegò. "Quello studente era demente."
Dianna scrollò le spalle e posò la sua bandoliera contro una gamba del tavolo. "Oh, non usare simili appellativi. Non trovo corretto definire demente un povero e sfortunato studente costretto a trascorrere la sua adolescenza segregato qui dentro."
"Non pensare a Page: per quanto possa essere silenziosa e costantemente sul punto di pianificare un misterioso omicidio, lei non è demente." Jana guardò di sbieco Elena seduta al suo fianco. "Lui lo era davvero. Aveva l'atetosi e soffriva di epilessia."
"Ovvero?"
"Un malato mentale costantemente sul punto del suicidio."
Dianna sobbalzò, ma nascose il tremore sotto la gonfia giacca dell'uniforme. Poi si guardò attorno. "E... chi è tra questi studenti?"
Jana schioccò la lingua sul palato. "È inutile che lo cerchi. Si è suicidato veramente."
La sirena gelò e trattenne il respiro. Chiuse rapidamente gli occhi, sperando di scacciare dal buio recondito della sua mente il costante pensiero asfissiante che la portava a domandarsi per quale ragione vigesse nei cuori dei vivi il desiderio impellente di mettere fine alla propria vita.
"Quindi ora siediti" Jana batté il palmo della mano sulla sedia al suo fianco "e aspetta le cameriere assieme a noi."
Dianna annuì e si sedette.
Ma quando alzò lo sguardo, lanciò un'ingiuria peccaminosa contro tutto il Creato per non aver compreso prima di trovarsi dinanzi a Tristan: lui era già seduto di fronte a lei, i gomiti posati sulla tavola e le mani intrecciate dinanzi al viso, cosicché quei maledetti occhi cielo apparissero ancor più impetuosi e terrificanti.
Dianna lo fisso, seria. L'improvviso pallore del suo volto contrastava con i tumulti invece ardenti del suo cuore. Se qualcuno l'avesse rapita e lanciata sotto una cupola di vetro, Dianna sarebbe stata certa di poter sentire solamente il pugnalare monocorde del suo cuore, che correva al solito ritmo incosciente.
Dianna raggomitolò le dita sotto le maniche della camicia e si strinse nelle spalle. Al fianco di Tritone, Byron gesticolava animatamente con Kristiàn e serrava la mascella per una evidente concentrazione; poco dopo fece calare il pugno sull'asse della tavola contrariato e rivolse un'occhiata turgida a Kristiàn. "Sei un bastardo."
"Tu sei un perdente." Kristiàn ondeggiò il pugno in aria in segno di vittoria.
Jana intervenì. "Byron non è un perd..." Poi tacque improvvisamente, arrossendo e chinando il capo.
"Elena, piccola Elena, ascoltami bene." Byron si sporse oltre Kristiàn, trascinando con sé un lembo della tovaglia e osservò Elena Page. "Tu sei esperta di quelle... cose sul Giappone, insomma, leggi manga... -si chiamano così?- e ne sei appassionata. Quindi potresti sicuramente darmi lezioni di morra giapponese. Voglio vincere contro Krist..."
"Quella di prima era morra cinese. Come è limitato il tuo intuito!" Kristiàn intrecciò le braccia al petto e si lasciò andare contro lo schienale della sedia.
"E' uguale."
"No, non è uguale!" Per la prima volta, Kristiàn sembrava superbamente sicuro delle sue parole.
Intanto, Dianna si obbligava a vagare con lo sguardo verso ogni dettaglio della grande sala, eccetto incrociare quegli occhi che rendevano fantomatica ogni sua sorta di autocontrollo e disciplina. Poco lontano, notò una donna dal petto prosperoso avvicinarsi reggendo abilmente tra le mani quattro vassoi che posò rispettivamente sotto i nasi di Dianna, Jana, Kristiàn ed Elena.
La sirena vide Jana radiografare ed ispezionare con la forchetta lo stufato di fagioli e sfoggiare un'espressione tra il disgustato e il riprovevole.
Byron alzò lo sguardo smeraldo. "E il mio vassoio dov'è? Insomma, non che la pappetta che cucinate sia degna di lode, ma ho fame."
La cameriera, una donna che pareva perennemente indossare un'espressione arcigna, parlò con voce diffidente. "Non ti preoccupare. Riempirai di pappetta il tuo stomaco anche oggi. Ti servirà lei." E con il mento gretto ammiccò ad una giovane ragazza dai capelli biondo fragola che reggeva in mano due vassoi e che si divincolava tra il grumo di studenti che passeggiavano per la mensa.
Byron sembrò destarsi da un sogno floreale e i suoi occhi lampeggiarono di eccitazione. "Chi... è?"
La cameriera grossolana tuonò, strofinando le grandi dita unte sul grembiule. "La figlia del preside, Ashley."
Quando la ragazza si avvicinò, con lo sguardo perso e le mani inesperte che tremolavano sotto la stretta attorno ai due vassoi, Byron adagiò la schiena contro lo schienale della sedia e posò con disinvoltura un braccio sulla spalliera, ammirando le curve delicate che Ashley mostrò con baldanza quando si chinò a lasciare sotto gli occhi di Byron il vassoio del pranzo.
Gli occhi avidi del ragazzo scesero anche ad esaminare i suoi fianchi stretti, con un sorriso sardonico che lasciava trapelare con trasparenza i desideri agri innescati in lui alla vista di Ashley.
Ma fu quando Byron analizzò con lo sguardo le gambe affusolate della giovane cameriera, che Jana grugnì rabbiosa alla scena, stringendo con brutalità la forchetta tra le dita.
Dianna giurò di aver notato la posata piegarsi.
Byron parlò, imitando una nuova voce suadente. "Questo nuovo accenno di gioventù nelle cucine mi invoglia persino a finire ciò che ho nel piatto, che gioia!"
Ashley cercò di mascherare un sorriso di soddisfazione sotto il rossore vistoso delle guance. Dopodiché, lasciò il secondo vassoio sotto lo sguardo di Tristan.
Lui, però, lo scostò con un indice verso il bordo della tavola, distaccato. "Non mangio."
Byron sussurrò e gli diede una leggera spallata complottevole. "Comprendo benissimo il tuo disgusto verso questo stufato di fagioli, ma...." Rivolse un'occhiata fugace ad Ashley, poi sussurrò: "per oggi si può fare, no?" E, distrattamente, afferrò il coltello, convinto fosse la forchetta, e lo portò alle labbra, per poi contorcersi dal dolore con un acuto mugolio. Istintivamente, lanciò la posata, che cadde con un ripetuto tintinnio ai piedi di Dianna.
Byron, con una mano sopra le labbra doloranti, guardò la sirena. "Potresti... raccogliere il coltello e restituirmelo, per favore?"
Dianna annuì e si chinò sotto la tavola.
Intanto, Ashley balbettò. "Va... bene, allora lo riporto in... cucina." E prese il vassoio di Tritone.
Quando la sirena alzò nuovamente il busto dopo aver recuperato la posata, il suo capo incontrò il vassoio tra le mani di Ashley che faceva per tornare nelle cucine.
E tutto crollò sul pavimento.
Ogni respirò parve immobilizzarsi e ogni studente puntò lo sguardo sul piatto e sul bicchiere rovesciato frantumati a terra.
Il cuore di Dianna prese a battere agitato e i suoi occhi notarono la scia d'acqua che camminava dai frantumi del bicchiere. "Scusate... è... colpa mia, non... io non volevo, perdonami." Ma non ebbe il coraggio di guardare Ashley.
Bensì, i suoi occhi si voltarono spontaneamente verso Tristan.
Lui sorrideva.
Era soddisfatto.
Portava le dita alla bocca, fingendo di pulire gli angoli delle labbra per nascondere l'espressione appagata che gli errava in viso.
Dianna incurvò le sopracciglia sopra la fronte bianca e respirò furiosa. "Basta, Tristan," sussurrò lentamente.
Alle sue spalle, intanto, dei passi veloci e pesanti si avvicinarono funesti e, poco dopo, tra le pareti della mensa riverberò la voce echeggiante di Mandy. "Per Dio! Che cosa è successo? Perché un vassoio è a terra?" Poi bestemmiò. "Questi cocci! Santo Cielo, il bicchiere dell'acqua rovesciato!" Posò le mani sui fianchi larghi, e tacque per un attimo. Dopodiché, con una voce lenta e perentoria che presagiva la morte, disse: "Chi è stato?"
Involontariamente, gli sguardi degli studenti curiosi si spostarono su Dianna, il cui colorito della pelle non era assai distante da quello dei suoi capelli.
La sirena alzò tentennante lo sguardo, le labbra che tremavano. "Io... davvero, non avevo visto Ashl..."
Mandy la interruppe, le afferrò bruscamente i polsi e la sollevò con forza dalla sedia. "In quest'istituto la disciplina e l'ordine sono concetti fondamentali per la sopravvivenza! Non sono concesse stupide distrazioni! E se non segui le regole," la strattonò, "puoi anche andare al diavolo!" E la spinse contro la sedia, che fregò con uno stridio sul pavimento.
Jana intervenì. "Non lo ha fatto volontariam...."
"Taci, canaglia!" Mandy le puntò il dito contro. Poi, farfugliando parole sconnesse sommessamente, si voltò e sparì per un istante. Quando ritornò, reggeva una vecchia ramazza e una paletta tra le mani. "Ora pulisci, subito!" E scagliò la scopa tra le mani di Dianna.
Senza schiudere le labbra nemmeno per accogliere il respiro -nonostante Dianna non avesse mai visto una scopa sino ad allora e quindi non ne conoscesse l'utilizzo-, ne afferrò il manico e si chinò velocemente, iniziando a spazzare contro i cocci.
Mandy scosse il capo. "No, stupida!" Tuonò. "Non si spazza così!" Le strappò la scopa dalle mani e le mostrò come fare, per poi scaraventarla nuovamente tra le mani di Dianna.
Tristan iniziò a tamburellare le dita sulla tavola, visibilmente allietato dalla scena. "La perdoni. La ragazza non sa scopare."
E tutta la sala rise.
Dianna evitò di domandarsene la ragione e si limitò dunque a maledire con un cuore colmo d'ira il figlio di Poseidone, che oramai si era incamminato su buone orme per renderle l'esistenza un inferno.
Ma, d'altronde, Tristan l'aveva avvertita. Le aveva promesso solennemente che le avrebbe fatto vivere l'inferno. Inizialmente, Dianna non aveva compreso, ma, ora, immersa nell'ennesima umiliazione, fu certa di poter essere bruciata dalle fiamme.
Quando, a capo chino, finì di spazzare, Mandy le afferrò il braccio e l'attirò a sé: Dianna poté avvertire sulla pelle il suo alito putrido. "E ora nelle cucine! Laverai i piatti sporchi e inzuppati della saliva di questi studenti balordi, ti va?" disse ironicamente. "Chissà, in futuro potresti ricordarti meglio come si vive qua dentro." E la trascinò con sé.
Prima di incamminarsi, però, Dianna lanciò un'occhiata a Tristan e sussurrò tra i denti: "Ti odio."
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Dianna affondò il pugno stretto attorno ad una vecchia spugna nel lavello intriso di schiuma. Raschiò con rabbia e forza la superficie di un piatto e, quando lo considerò abbastanza pulito, lo lanciò sullo scivolo.
Un rivolo d'acqua sporca schizzò sulla sua guancia, quando lavò l'ennesimo piatto lurido che le scivolava viscido tra le mani.
Dianna era stanca delle umiliazioni di Tristan.
Avrebbe preferito morire in una lenta agonia, piuttosto che mostrare il lato più delicato e vulnerabile di sé al resto del mondo.
Non che considerasse mondo quell'istituto, ma era, sino ad allora, tutto ciò di esterno agli abissi marini che aveva visto.
Eppure sapeva che non sarebbe scampata alla morte. Sapeva anche che la sua esistenza non era benvoluta da nessuno, eccetto il suo buon padre, ma era solamente funzionale alla vittoria di una guerra che si apprestava a venire.
E allora, si chiese, perché Tristan non l'aveva ghermita subito tra le sue forti braccia e non l'aveva riportata indietro? Perché desiderava protrarre a lungo la sua vendetta? Che, forse, non era considerabile una reale vendetta. Era piuttosto un espediente umiliante per mostrare a Dianna a cosa vanno incontro i disertori.
Perché, dedusse, l'umiliazione è la via più efficace verso il pentimento.
Certamente Tristan avrebbe continuato a pungolare le sue forze sino a quando Dianna non si fosse piegata ai suoi piedi, chinando il capo in segno di sconfitta e balbettando parole di perdono.
Ma, nella sua fragilità e delicatezza, l'orgoglio della sirena non era frantumabile come i cocci dei piatti che stava lavando: nella sua apparenza friabile, la sua dignità era lo scudo protettivo più saldo.
Quindi, si chiese per quanto tempo ancora Tritone avrebbe continuato a colpire.
Dianna non era nelle forze per contrattaccare ed era ben più efficace assorbire il colpo, custodirlo dentro di sé e persistere con la resistenza, piuttosto che rischiare controbattendo.
Poteva fuggire. Chi mai glielo avrebbe impedito? Quel sabato sera trascorso alla piana del fuoco le aveva insegnato come scavalcare l'acuminato cancello di entrata. Ma sapeva che avrebbe sempre avuto quello sguardo ghiaccio alle sue spalle.
Sfuggire a Tritone avrebbe significato destare la sua ira e Dianna, per quanto al principio non vi avesse creduto, era ora certa della rabbia virile che sviscerava dalla pelle di quel dio.
Dunque, non riuscendo a trovare risposta ai suoi dubbi, la sirena concluse sostenendo che tutto si sarebbe compiuto autonomamente.
E continuò a lavare i piatti.
Il sudore le imperlava la fronte ed era oramai impossibile distinguere quali fossero le lacrime che le rigavano le guance e quali fossero le gocce d'acqua.
Improvvisamente, percepì tra le dita una superficie aguzza.
Alzò le mani.
Era un coltello.
Dianna non seppe quale istinto preponderò sulla sua razionalità, ma non rifletté ulteriormente: strinse il coltello tra le dita e lo nascose dentro la giacca dell'uniforme.
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Credo che la battuta perversa di Tristan sia la parte più bella di questo capitolo!
Che ne pensate? Nel prossimo capitolo arriverà il bello. Si concluderà con una grande suspance.
Che ne pensate di questo capitolo? Cosa vorrà mai fare Dianna con quel coltello?
Passate dalla mia pagina Facebook dedicata alla storia, dove pubblicherò aggiornamenti e foto, "Alexandra-writes on Wattpad" e votate e commentate in tanti!
Grazie mille a tutti!

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