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☩ D E S P E R A D O - APOCALISSE ☩ XII Che problemi hai, Ward?
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-Che problemi hai, Ward? –
Quella domanda rimbomba nello spogliatoio della palestra. Il perimetro, quadrato e più piccolo rispetto alla sala degli allenamenti, è coperto dagli armadietti in metallo azzurri, alcuni pieni ancora dei ricambi, altri completamente vuoti, si può notare dai leggeri spazi apposti sulle porticine. Attorno agli armadietti sono disposte delle panchine, dello stesso colore: nella parte destra ci sono i bagni con le docce. Per il resto quello spazio è occupato solo dall'uomo seduto sulla panchina al centro dello spogliatoio, accanto al suo armadietto, il destinatario di quella domanda se ne sta poggiato contro uno degli armadietti paralleli, a destra della porta di entrata. Judas gli pone la domanda col poco fiato che ha, che ancora fatica a riprendersi: in quello spazio sa tutto di sudore, testosterone e sangue. Quest'ultimo, rosso e denso, è ormai asciutto lungo il labbro un po' gonfio di Trevor, appoggiato contro uno degli armadietti azzurri, il cerotto ancora appiccicato al naso, il sudore che va asciugandosi lungo il petto e i pantaloncini attaccati alle gambe. Respira a fondo, vuole riprendersi; si guarda le mani, distratto, senza davvero pensare cosa ha davanti a sé, a cosa teme davvero di sé stesso, dal profondo che nutre da troppi anni, nelle notti silenziose accovacciato alla finestra della sua camera piccola e soffocante, nei pugni infiniti dati a quei sacchi che possono solo conservare il risentimento provato verso troppe cose – verso sé stesso. Judas sembra un ragazzo apposto davanti ai suoi occhi: è anche lui massimo leggero, più basso e robusto, i muscoli ingrossati e induriti dai continui allenamenti, il respiro che fatica ancora un po' a riprendere il normale ritmo che lo contraddistingue nella sua tranquillità. Sta con la mano tatuata ancora fasciata sul ginocchio, un'altra stretta alla panca, le vene in bassorilievo disegnano un percorso sregolato lungo l'avambraccio coperto da altri tatuaggi, sono bluastre, dentro c'è sangue, vita; il sopracciglio destro porta un taglio proprio nella metà, gli occhi marroni guardano dritto verso la figura dell'uomo alto e slanciato davanti a lui, che non sa come spiegarsi quello che è accaduto.
Non ho detto la frase, non ho detto la frase, sono sicuro di non averla detta, allora perché mi sono perso di nuovo? Trevor non capisce più nulla, la preoccupazione lo invade, la sicurezza lo dilania, la sicurezza di non essersi voluto perdere, la consapevolezza che per un secondo è successo, e in quel secondo ha fatto male al suo partner, un male che era sicuro di non poter fare a nessuno. L'altro si gratta la barba che sta ricrescendo – in fondo ormai i trent'anni iniziano a bussare alla sua porta, che ne ha ancora ventotto – e poi si massaggia la mandibola, risente ancora il riverbero del gancio di quel lottatore che gli è sembrato fin dal primo giorno troppo impegnato sulla sua immagine per poter dimostrare davvero delle abilità, e che invece delle abilità le ha eccome, e gliele ha sbattute in faccia proprio quel giorno. Judas non è uno che si fa troppe domande: se un superiore gli ordina qualcosa lo esegue, se una donna gli chiede di fare sesso non rifiuta facilmente. Si fa scivolare addosso qualsiasi domanda di troppo, i dubbi lo confonderebbero – non gli interessa alcuna morale, né molto le spiegazioni, non è qualcosa che fa parte di sé. Eppure, questa volta una domanda la pone, proprio a quell'uomo che si presenta a Desperado da un giorno all'altro e dopo poco già gli rifila dei pugni che gli tolgono il fiato per troppo. È ancora troppo forte, non dovrebbe nemmeno essere in questa palestra. Eppure, Trevor L'Ombra Ward è lì, di fronte ai suoi occhi, non è un miraggio né una presa in giro: ha lo sguardo assorto, sembra che voglia cercare una qualche risposta in sé stesso – anzi, sembra non gli importi nulla della domanda che Judas "il Bluff" Shields gli ha posto. Judas alla fine s'è scelto proprio un doppio nome: il bluff è un tradimento a piena regola nel poker, come il nome antico che trascina con sé; e sul ring è proprio così: schiva e ti fa credere di essere sul punto di mollare, per poi atterrarti con un knock out. Ma a quanto pare, non è stato abbastanza veloce e stavolta il bluff è andato a farsi fottere, davanti quell'ombra che sosta davanti a lui, che non fa uscire un solo respiro da quella bocca ferita appena dal pugno che gli ha rifilato, in preda alla rabbia. Lo hanno dovuto tenere in tre, imbestialito com'era dal comportamento di Trevor che sul ring non sembra affatto il ragazzo schivo e continuamente silenzioso che si allena nel suo angolino; davanti a lui, in quello sparring, è stato un vero e proprio figlio di puttana. Il sorrisetto di chi pensa di sapere già tutte le mosse dell'avversario, i suoi saltelli in obliquo, le schivate soffiate, a un millimetro dalla collisione, la tecnica di quel pugile è davvero troppo affinata per essere così giovane, e non accetta nemmeno quello.