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☩ D E S P E R A D O - APOCALISSE ☩ XL Quando sei arrivato tu qui?
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Si siede sulla panchina del Golgota, affannato e soddisfatto. Si guarda le fasce sudate attorno ai palmi e alle dita delle mani ruvide e arrossate per il calore, il sole dietro quelle nuvole, l'umidità che lo soffoca e gli soffoca i pensieri. In mezzo a quegli alberi, su quel percorso sterrato, roccioso e terroso, Trevor riposa silenzioso sulla panchina, e i pensieri che fino a quel momento aveva zittito tornano a tormentarlo.
Non può fare a meno di pensarci: è impossibile dimenticare il giorno in cui ha preso la decisione di partire e lasciarsi tutto indietro. È accaduto esattamente un giorno prima della sua partenza improvvisa. Ricorda ancora quel pomeriggio: aveva passato tutta la mattina in palestra a sfogarsi sui sacchi, e alla fine l'allenatore, sprezzante, aveva dovuto cacciarlo via, perché era da troppe ore che stava lì dentro, e nessuno umanamente poteva sopportare così tanta fatica. I suoi colleghi iniziavano a lanciargli occhiate strane e alcune persino sconvolte, e quello stronzo del suo secondo non ha potuto fare altro che intimargli ad andarsene, o avrebbe continuato a distrarre tutti – come se fosse davvero lui il motivo di tutta quella distrazione. Ricorda ancora come ha sbattuto la porta di casa, ricorda ancora i capelli sudati contro la fronte, il cuore in tumulto dalla rabbia, il ricordo di Sylvia che gli rinfacciava di non aver mai tenuto a lei, che "per te lo sport è più importante del nostro amore", del bene che cercava di fargli allontanandolo da lì, dall'unica cosa che lo ha sempre fatto sentire vivo. Ricorda ancora il rumore dei tacchetti di sua madre, la corsa che ha fatto alla porta, gli occhiali caduti sul maglioncino di tessuto pregiato e dai toni beige, lo sguardo costernato. E poi ricorda le urla, che stridono ancora nelle orecchie: gli intimano di andarsi subito a cambiare, che c'era un patto tra loro, che lui non sarebbe mai tornato a casa in quelle condizioni. Quelle urla fanno alzare persino il padre, lo fanno arrivare lì, un'aria di delusione in uno sguardo sempre indifferente, le braccia conserte mentre ascolta silenzioso sua moglie distruggere ancora il figlio, che non ha più la forza di stare zitto, non ha più il coraggio di farsi scendere giù tutte quelle parole. Si dicono parole che sanno solo di veleno: lui è stato sempre e solo un figlio ingrato, ha sempre portato solo dispiaceri, non si è mai preoccupato della loro felicità o anche solo della loro tranquillità, della loro dignità; loro sono sempre stati assenti, non gli è mai andato bene nessun risultato, nemmeno il più perfetto e meticoloso, nemmeno il più voluto; lui è solo un peso, loro sono solo un'ancora che pesa sulle sue spalle. E poi, tutte quelle parole si accalcano e si trasformano, l'odio si fa più cocente, i battiti del cuore più forti e lo stomaco si stringe, la bile arriva fino alla gola, le urla più rauche. "Hai sputato su tutto! Sulla fortuna, sulla nostra ricchezza, sul nostro nome, sulla tua fidanzata! Sylvia era perfetta, era l'ultima occasione che la vita ti aveva dato per non rovinare tutto, e tu hai deciso di rovinare tutto di nuovo! Perché non sei normale, come tutti gli altri?!"