☩ VENTOTTO ☩

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☩ D E S P E R A D O - CITTÀ D'OMBRE ☩XXVIIIA metà

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☩ D E S P E R A D O - CITTÀ D'OMBRE 
XXVIII
A metà


A metà tra la coscienza e l'inesistenza, lì sosta Trevor

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A metà tra la coscienza e l'inesistenza, lì sosta Trevor. Si guarda allo specchio, tasta il suo corpo, ma si sente fuori di sé, desolato e sconvolto. Lo scorrere di quel mese, cadenzato e infinito, lo ha solo confinato nello stato di nebbia mentale in cui sosta la sua mente. Prova a riafferrare quanti più ricordi appartengano a quell'ultimo incontro, e più la sua mente ritorna a quelle immagini, più sa di non star mentendo a sé stesso: qualcuno ha sostituito Latreche, ci ha messo al suo posto un suo sosia; non pensava di poter essere così spietato con qualcuno, tantomeno con sé stesso.

Si siede sul letto della sua camera, e cerca di tirare le somme: ha venticinque anni, e cosa è davvero cambiato in tutto quel tempo, a parte sé stesso? Gli sembra di rivivere sulla pelle lo stesso dolore, sembra che la sua mente registri sempre lo stesso sconforto, sente gli emisferi dilaniarsi a metà e il mal di testa peggiora soltanto. È un mese che non si allena, un mese che non tocca la corda, un mese che prova disgusto al sol pensiero di dover mangiare. Si sente come quando aveva quindici anni: dimenticato, debole e volubile, e nulla riesce più a fargli bere quelle paure che lo fanno tremare. L'abuso psicologico che gli hanno dato i suoi genitori graffia sulla pelle, l'indifferenza dei suoi colleghi lo soffoca come la prima volta, la solitudine che prova, stretto in quella camera, a sentire ancora nelle orecchie fischiare le parole di Sylvia e di Michelle lo devastano. Il vuoto che sente nella sua semplice presenza è dispersivo, e più è cosciente del disagio che porta in sé stesso, più non capisce perché si senta così fuori di sé e debole: Desperado sembra volersi prendere di lui più di quello che può darle, Desperado non sembra accontentarsi di tutte le paure e il dolore che il pugile ha attraversato in venticinque anni, che lo hanno fortificato e, al tempo stesso, condotto all'abisso. Trevor guarda dentro di sé, al vuoto che quell'abisso ha lasciato, scomparendo: è un pendio ancora più desolante di prima, non ci sono nemmeno più le sue grida disperate di aiuto, non ci sono nemmeno più gli schizzi del sangue su quelle pietre; è tutto ora sul suo corpo, fresco e livido come una ferita nuova che non può rimarginarsi o coagularsi. Si siede sul pavimento, poggiato alla finestra del suo appartamento, le gambe raccolte contro il petto, la testa sulle ginocchia, guarda perso quel cielo grigio. Non può fare a meno di pensare, che ora che se n'è andato, nulla di questo ha più senso.

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