capitolo ottantacinque

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Alice.

Io ero la sorella di Mike e Jason.

Mi sembrava tutto surreale e pregai fino all'ultimo che si trattasse solo di un brutto sogno, invece più scoprivo le cose, più i pezzi di un puzzle si ricomponevano e più mi sembrava tutto reale.

E ora che dovevo fare?
Come dovevo comportarmi con Mason?

Se loro avessero scoperto una cosa del genere, mi avrebbero odiata seduta stante.
Ero la sorella di quello che aveva fatto del male a Swami ed ero la cugina di quello che voleva distruggerli.

Erano passati giorni da quando Jonathan era venuto a farmi visita e mia madre aveva fatto come le avevo ordinato, non si era presentata.

Ci rimasi comunque male, perché era come la conferma che di me non se ne importasse nulla.

Mason era venuto un paio di volte accompagnato anche dai fratelli, e se loro rimanevano, lui andava via.

Ogni volta aveva sempre qualcosa da fare e nessuno sapeva dove andasse tutta la giornata.

Oggi dovevo tornare a casa e nel mentre finivo di preparare le valigie, sembrava come se stessi andando al patibolo.

Ero consapevo che una volta tornata a casa, avrei dovuto affrontarla.

Una volta uscita da quell'ospedale, dovevo affrontare tutti.

«Dammela, la porto io», Mason afferrò la valigia che mi aveva fatto recapitare mamma con tutti i miei indumenti personali.

«Posso portarla anche io», feci per prendergliela ma si ritrasse.
Si inclinò appena per arrivare a me e mi lasciò un dolce bacio sulle labbra.

«Faccio io Amore», mi dedicò un sorriso dolce poi uscì dalla stanza ed io lo seguii in silenzio.
Avevo il cuore in gola ogni volta che si trovava nelle mie vicinanze.

Avrei dovuto dirgli tutto, ma ogni volta non ci riuscivo.

Mi avrebbe odiata, sicuro.
___

Una volta tornati a casa chiesi a Mason di posare le mie cose in camera, mentre io mi fiondai in soggiorno, dove ad attendermi c'erano mamma e Alberth.

Lei se ne stava seduta sul divano mentre guardava un punto non preciso della stanza.

«Alberth, posso parlare con mamma?», lui si alzò e annuì.
Prima di andare via, si fermò davanti a me e mi osservò con preoccupazione.

Il suo abbigliamento rimaneva sempre impeccabile.
Con la giacca puramente sartoriale e appena uscita da qualche lavanderia.

«È tua madre, attenta a come ti poni», le sue parole mi colpirono aggressivamente l'orgoglio.
Lo incenerii con lo sguardo

«Entrambe conosciamo i nostri limiti», detto questo lo congedai e rimanemmo solo noi due.
Mi sfilai la giacca mentre non scostavo neanche per un secondo lo sguardo dal suo.

«Come stai?», provò a parlare, ma la interruppi

«Non dire niente, smettila di fingere. Ci riesci per due secondi?», le mie parole brusche la mutarono.
Continuò a restare seduta con lo sguardo abbassato, invece io non riuscivo a stare ferma.

«Io mi preoccupo per te...»
«No. Hai sempre finto di interessarti a me, perché sotto sotto eri cosciente che non ero tua figlia», le parole mi uscirono da sole e furono talmente violente da farla sussultare sul posto.

Provò a negare con le lacrime agli occhi, ma non le diedi neanche il tempo di rispondermi perché ritornai all'attacco.

«Mi hai fatto maltrattare da un uomo che consideravo mio padre fino a qualche giorno fa. Sapevi quanto io stessi soffrendo, ma per non sporcarti tu, hai fatto ricadere tutte le colpe su una bambina di cinque anni, che non aveva fatto niente e ha vissuto nella menzogna per venti anni.
Lo sai una cosa?», assottigliai lo sguardo e la guardai truce.

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